di Mauro Baldrati
Sotto la pioggia acida delle commedie che infestano le sale italiane, un film originale, atipico per le regole del mainstream, cerca di tenersi saldo sotto l’ombrello – un po’ sbrindellato purtroppo – della qualità. E’ la produzione spagnola indipendente La vendetta di un uomo tranquillo, del regista esordiente Raùl Arévalo. E’ un thriller, senza attori bellocci palestrati, libero dai soliti dialoghi tesi o semicomici imposti dall’immaginario patinato hollywoodiano, i cui strapoteri hanno ormai distrutto molta produzione indipendente.
Ma attenzione: non si tratta di un film da vedere per motivi ideologici (sostegno al cinema a basso budget, perdonando alcune cadute ecc); lo è perché è originale, avvincente; lo è perché ci stupisce con la sua fotografia dura, antiestetizzante, per le facce di pietra degli attori, per i dialoghi spigolosi e ridotti all’osso, e per l’intreccio, davvero infernale, che scena dopo scena, azione dopo azione, scioglie il mistero di una storiaccia che pone molte domande.
Siamo in una città spagnola circondata da immense pianure inondate di sole, nel “Quartiere”, il territorio urbano dove vive la comunità oggetto della storia. Un tipo taciturno, José, l’uomo che non ride mai e parla se non può farne a meno, arrivato non si sa da dove e perché, è amato da tutti. Il gestore del bar “Cerveceria”, fratello di Ana, che Josè fissa di continuo, e che comincerà a corteggiare (anzi, niente corteggiamento, diciamo che se la prende, col suo personaggio misterioso) lo invita al battesimo della figlia, gli dice che lui è un punto di riferimento per il Quartiere, lo ringrazia, lo abbraccia. Josè apprezza, gioca a carte nel bar, è presente, è stimato.
Intanto il marito di Ana, Curro, sta per uscire dal carcere, dove ha scontato una condanna a otto anni per una rapina. Ana lo aspetta, ma al contempo lo teme, perché ha avuto una storia con Josè, col quale sogna di rifarsi una vita; Josè che sembra pure discretamente ricco (ancora non sappiamo perché): vive in una bella casa, e possiede una villa in campagna.
Ora, sarebbe un peccato introdurre forme di spoiler, forse indispensabili per fornire qualche altro particolare della vicenda. Diciamo che Curro esce di prigione, è il tipaccio un po’ violento che ci aspettiamo, si arrabbia subito con Josè (forse perché “sente”?), lo picchia e lo insulta, ma non sa. Non può immaginare cosa lo aspetta.
Josè ha un progetto. Deve portarlo a termine, ad ogni costo. Non si ferma davanti a nulla. E’ la sua missione. La sua ossessione. Tutto il resto, compresa la sua stessa vita, non ha importanza. Solo il progetto ha senso. E questo progetto si chiama vendetta. Forse potrebbe avere davanti a sé una nuova vita, con Ana che lo aspetta, ma non può. Deve andare avanti, concludere il suo progetto nero. La sua vendetta terminale.
Così sappiamo chi è, perché è arrivato nel Quartiere, perché non parla, perché fissa le persone con quegli occhi pietrificati, immobili e abissali.
Una volta tanto il titolo italiano non fa ridere, ma è abbastanza adeguato (in originale Tarde para la ira); infatti Josè sembra davvero un uomo tranquillo. E tutto sembra normale. I personaggi sono i nostri vicini di autobus, i tipi che giocano a carte nel bar vicino a casa, che sbevacchiano il frizzantino alle nove di mattina e sparano cazzate. Sono tutti loro, i normali, i tranquilli. Ma ci pensa il progetto di Josè a spaccare questa illusione. Ci pensa la sua ossessione a sparigliare tutto. Ci pensa il freddo pozzo dell’odio, che è in grado di scardinare ogni normalità.