di Armando Lancellotti
Gianluca Gabrielli, Educati alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione dell’infanzia nella prima metà del Novecento, Ombre Corte, Verona, 2016, pag. 127, € 13,00
A pagina 183 del Libro della V classe elementare, volume di Religione, Storia, Geografia, stampato a Roma dalla Libreria dello Stato nell’anno XVIII dell’era fascista (1940), nel paragrafo Guerre coloniali, si legge che «L’Italia aveva assoluto bisogno di terre al di là del Mediterraneo, che le assicurassero il più ampio respiro sui mari, possibilità di lavoro ai suoi contadini, aiuti allo sviluppo delle sue industrie e dei suoi commerci». E qualche riga sotto, dove il testo comincia ad entrare più dettagliatamente nel merito delle diverse imprese coloniali italiane, al concetto della necessità e giusta ineluttabilità delle conquiste d’oltremare e alla celebrazione dell’eroismo dei soldati italiani, sempre dimostrato tanto nelle vittorie quanto nelle sconfitte (Dogali, Makallè, Adua), si aggiungono, con acrobatico capovolgimento dei ruoli di vittime e di aggressori, inequivocabili apprezzamenti ed aggettivazioni dei popoli del Corno d’Africa, descritti come «orde nemiche», «orde abissine» o come la «marea dei selvaggi guerrieri di Menelik», che solo per la loro bestiale ferocia e per il numero soverchiante hanno potuto avere la meglio dei soldati del Regio Esercito.
In un paragrafo successivo, dal titolo La guerra di Libia, sotto l’immagine di marinai italiani che sbarcano a Bengasi, si dice che la «Libia è posta proprio di fronte alla Sicilia, e l’Italia si trovò nella necessità di occuparla per non essere soffocata nel Mediterraneo, se di essa, come appariva molto probabile, si fosse impadronita qualche altra grande potenza europea». Ritorna qui il motivo della conquista doverosa ed inevitabile, motivata dalla necessità di anticipare l’ingordigia imperialistica altrui e di assicurare un “posto al sole” al Paese. Missione portata a termine grazie all’«eroismo dei nostri marinai e dei nostri soldati» che non arretrarono nonostante «l’infuriare del fuoco nemico».
Quando si tratta poi di affrontare il tema della Grande Guerra (La guerra mondiale: 1914-1918; La partecipazione dell’Italia alla guerra mondiale 1915-1918) l’autore della sezione di Storia – il professore Alfonso Gallo – non si lascia sfuggire l’occasione di collocare in linea di continuità Risorgimento, Grande Guerra e Fascismo, interpretando l’intervento del 24 maggio 1915 come l’unico modo per «decidere una volta per sempre il secolare duello con l’Impero d’Austria, liberando le Venezie Giulia e Tridentina, che ancora soffrivano del giogo straniero […]. Tra i più ardenti sostenitori della necessità che l’Italia prendesse parte alla guerra furono il poeta Gabriele d’Annunzio e il futuro Duce del Fascismo, Benito Mussolini». In tal modo Mussolini è presentato come colui che eredita il testimone della storia patria e delle sue guerre, di quella mondiale innanzi tutto, e che coerentemente, quindi, farà di interventismo, combattentismo, bellicismo, cameratismo gli ideali e i valori di riferimento, da usare come miti fondatori del fascismo nell’immediato dopoguerra e come principi con cui forgiare attraverso l’istruzione scolastica le generazioni dei fascisti di domani ancora nel 1940, quando ormai il fascismo è partito unico, governo e regime totalitari già da molti anni, e proprio quando decide di affrontare una nuova e ancor più tragica impresa bellica.
E che la guerra come principio ideale e come valore etico sia il cemento che deve tener assieme i mattoni della nazione lo si evince pure dal paragrafo (La pace) sulla Conferenza di Parigi, nel quale, dopo “l’iperbole storico-militare” secondo cui l’Italia dopo Vittorio Veneto sarebbe stata pronta e nelle condizioni per «assalire a rovescio la Germania», si dice che il trattato di pace di Saint-Germain con l’Austria – molto autarchicamente chiamato di San Germano – a causa dell’inettitudine dell’allora governo liberale non compensò a dovere i sacrifici sostenuti in trincea dai soldati italiani, che si videro negata la città di Fiume, che – ancora una volta – soltanto Mussolini fu capace di congiungere alla patria nel 1924. Così come fu capace di salvare il Paese dal pericolo rappresentato da coloro che il testo invariabilmente definisce «i sovversivi»: socialisti, anarchici, poi comunisti, operai e contadini delle leghe rosse, quanti erano stati un tempo neutralisti e che continuavano a condurre «una dissennata propaganda di odio contro la Religione, la Patria, la Monarchia. […] I sovversivi dissero che nulla di buono aveva ed avrebbe portato la guerra e che questa era stata un’inutile, colpevole strage». Insomma, tutto l’opposto di quanto i bambini italiani di dieci anni nel 1940 imparano a scuola e dal loro “libro di testo di Stato”, che della guerra fa la pietra angolare della nazione, salvata dal fascismo e da Mussolini, del quale – e non certo per caso – nel paragrafo IL FASCISMO, l’unico il cui titolo è stampato con lettere maiuscole, vengono subito messi in luce i meriti militari e l’impegno nel conflitto mondiale. «L’Italia fu salvata da Benito Mussolini. Egli era stato tra i più fervidi sostenitori della guerra contro l’Austria […]; aveva valorosamente combattuto come bersagliere; aveva sofferto gravi ferite. Animato dalla stessa fede e dallo stesso coraggio, si dedicò, dovesse costargli la vita, alla santa missione di ridestare nel popolo italiano quelle virtù, che già ne avevano reso possibile il risorgimento, prima, la vittoria nella guerra mondiale, poi». Insomma, l’esaltazione della guerra è il Leitmotiv che attraversa molte delle pagine della sezione di Storia del libro per la V classe elementare dell’anno 1940; cosa che non costituiva di certo una novità, dal momento che militarismo e bellicismo erano già da tempo gli strumenti principali a cui in Italia si era fatto ricorso nel processo di nazionalizzazione dell’infanzia, avviato già a partire dalla fine del secolo precedente.
Di questi ed altri simili temi si occupa l’ultimo libro – Educati alla guerra – di Gianluca Gabrielli, che, di certo con rigore e sistematicità maggiori di chi si limita a sfogliare un vecchio libro su cui hanno studiato i propri genitori, considera le dinamiche del processo di nazionalizzazione e di militarizzazione dell’infanzia italiana, in particolare nei trentaquattro anni che vanno dalla guerra italo-turca per la Libia del 1911 al 1945, senza tralasciare un’opportuna incursione, che fa da premessa al corpo principale del libro, nell’Italia post-unitaria tardo ottocentesca.
Gianluca Gabrielli, dottore di ricerca in Storia dell’educazione all’Università di Macerata, da più di vent’anni ormai si occupa di colonialismo e razzismo italiani e di fascismo, con un’attenzione particolare per le problematiche educative e scolastiche e a questi temi ha dedicato numerosi lavori, articoli e libri, tra i quali si ricordano in particolare Il razzismo (Ediesse, 2012), scritto con Alberto Burgio, La scuola fascista (Ombre Corte, 2009), curato con Davide Montino e Il curricolo “razziale”. La costruzione dell’alterità di “razza” e coloniale nella scuola italiana (1860-1950) (Eum, 2015). [Su Carmilla: Gianluca Gabrielli, Scuola di razza 1/2 e 2/2 –
Davide Montino, Romanità – Armando Lancellotti, Lasciti coloniali: perché Calimero è tutto nero]
Importante anche il contributo dato all’allestimento di alcune mostre, tra le quali segnaliamo l’importantissima La menzogna della razza (1994), che ha rappresentato un momento decisivo per lo sviluppo avvenuto nell’ultimo ventennio degli studi sul colonialismo e sul razzismo italiani. Ed Educati alla guerra è anche il titolo di una mostra, dallo stesso Gabrielli curata, indirizzata a scuole ed enti culturali.*
I processi di nazionalizzazione della società di massa a inizio Novecento, anche, e talvolta soprattutto, attraverso la mobilitazione e la militarizzazione delle più giovani generazioni, non sono da considerarsi certo un caso esclusivamente italiano, ma in «Italia tale percorso di nazionalizzazione dell’infanzia attraverso la militarizzazione fu sicuramente tra i più continui e intensi di tutta Europa» (p. 7). E questo perché in quello scelto da Gabrielli come periodo paradigmatico dello sviluppo del fenomeno oggetto di studio – il lasso temporale 1911-1945 – l’Italia combatté la guerra italo-turca per la Libia, la Grande Guerra, intraprese la cosiddetta riconquista della Libia, poi l’impresa d’Etiopia, a cui fecero seguito la “crociata” spagnola, l’aggressione all’Albania ed infine il secondo conflitto mondiale e per ventitre di quei trentaquattro anni fu guidata da un governo, prima e un regime, poi che fecero della guerra un criterio identitario, un principio ideologico ed un valore etico.
Come è noto, una volta fatta l’Italia nel 1861, la classe politica e dirigente si pose il problema di “fare gli italiani”, di creare una nazione ed un’identità nazionale e l’esercito e la scuola furono individuati come gli strumenti più efficaci per intraprendere tale non facile compito. «Così molto fu l’impegno per introdurre nei percorsi scolastici gli elementi di patriottismo ereditati dalle lotte risorgimentali e rivivificati dalle prime imprese coloniali e dalla celebrazione dei relativi martiri» (p. 12). Ma le analisi di Gabrielli non si limitano al solo mondo scolastico e si allargano anche ad altri momenti del vivere quotidiano dei bambini e dei ragazzi italiani, che con gli inizi del Novecento vennero sempre più coinvolti dai fenomeni sociali di massificazione, che si manifestavano, per esempio, nella nascita di una specifica editoria per l’infanzia, in particolare con la pubblicazione di due riviste come il Giornalino della domenica (1906) e il Corriere dei piccoli (1908), che iniziarono a veicolare il tema della guerra, anche se essa veniva ancora presentata come qualcosa che non apparteneva propriamente al mondo dei bambini – per i quali manteneva ancora la forma del gioco – ma a quello degli adulti; oppure con lo sviluppo di un nuovo settore di mercato, in genere accessibile solo alle famiglie della ricca borghesia, cioè quello dei giocattoli, tra i quali prevalevano quelli per i maschi che erano per lo più di tema bellico e militare.
Un primo decisivo momento di accelerazione nel processo di nazionalizzazione e militarizzazione dei ragazzi italiani si verificò, sostiene l’autore, in coincidenza con la guerra per la Libia del 1911-’12; impresa coloniale che fece da punto di svolta per molti aspetti della vita politica e sociale dell’Italia giolittiana: fu in quegli anni che il nazionalismo abbandonò le originarie forme risorgimentali per assumere quelle imperialistiche della A.N.I e che l’opinione pubblica all’atteggiamento prevalentemente freddo tenuto nei confronti delle iniziative africane di Depretis e di Crispi sostituì il coinvolgimento per le sorti della Grande Proletaria civilizzatrice. Il patriottismo e il nazionalismo fecero il loro ingresso nella scuola italiana, così come i temi del fardello dell’uomo bianco e della missione civilizzatrice.
«Insomma, l’entusiasmo per la guerra imperialista in nome dell’appartenenza alla nazione sgretolava l’idea – recente e fragile – di una didattica che auspicasse la pace; la guerra coloniale spingeva i maestri a torcere l’insegnamento in senso nazionalista e li trasformava, in anticipo rispetto alla Grande guerra, in attivisti per la patria» (22). Il livello di coinvolgimento nazionalistico dei bambini e dei ragazzi italiani conobbe un incremento qualitativo decisivo e «fecero la comparsa
attività di sostegno morale o materiale ai militari nelle quali furono coinvolti gli alunni» (p.24), iniziative che sarebbero state poi replicate ed estese durante la Grande Guerra e in occasione delle guerre fasciste.
Con la prima guerra mondiale, che fu il più grande fenomeno sociale di massa che la storia avesse mai conosciuto fino ad allora e segnatamente per società ancora in larga parte arretrate come quella italiana, quanto già accaduto pochi anni prima con la guerra di Libia si estese e si sistematizzò. La formazione di una propaganda moderna e la comparsa del fronte interno non esclusero certo dai loro effetti i bambini e i ragazzi e non solo quelli nelle zone del fronte e per tutti i giovani italiani cambiarono tante cose.
Tra gli effetti combinati di queste due potenti spinte ci fu l’affermarsi dell’“ideologia della parsimonia e dei sacrifici”, già fortemente radicata e promossa in passato come etica del risparmio nell’educazione scolastica dei ceti popolari, ma in questa contingenza divenuta un “imperativo economico e morale [legato] alla potenza e persino alla sopravvivenza nazionale” (pp. 30-31).
Così nei giornalini per l’infanzia la «dimensione della guerra entrò in molti modi tra i materiali trasmessi ad esempio dal “Corriere dei piccoli”. L’interventismo del Corrierino infatti si fece più marcato e deciso rispetto agli anni della Guerra di Libia, promuovendo e poi accompagnando la partecipazione italiana al conflitto» (p. 31). Personaggi popolari delle storie per bambini come Schizzo o Italino divennero sempre più di frequente protagonisti di vicende belliche e pure «nel cinema» – osserva Gabrielli anche sulla scorta delle analisi fondamentali di uno dei più importanti studiosi di questi argomenti, Antonio Gibelli – «nello stesso periodo, furono prodotti e circolarono numerosi film rivolti al pubblico infantile o che avevano i bambini come protagonisti; si trattava di pellicole costruite su trame in cui l’eroismo dei piccoli rendeva possibili imprese eroiche» (p. 31-32).
Ma ancora più interessante è il caso delle forme di coinvolgimento attivo del mondo dell’infanzia in attività di supporto ai combattenti, come la scrittura di lettere che potessero essere di conforto per i soldati, o la preparazione di oggetti ed indumenti utili, come calze pesanti o «le compresse combustibili di carta e paraffina da inviare al fronte per permettere ai soldati di consumare pasti caldi anche in prima linea» (p. 33), il cosiddetto “scaldarancio”. Nel complesso, continua Gabrielli, si trattava di «iniziative che avevano lo scopo di familiarizzare i bambini con l’evento guerra, di renderlo accettabile e persino attraente, in definitiva di inculcare l’idea che combattere e morire, ma anche fare sacrifici per la nazione in armi era una cosa non solo necessaria ma per così dire naturale» (p. 33).
Nelle scuole interventismo, patriottismo, nazionalismo divennero pervasivi come conseguenza di un combinato disposto di circolari e direttive provenienti dal Ministero e di iniziative spontanee intraprese negli istituti dai docenti interventisti, che ridussero ben presto a minoranza costretta al silenzio i colleghi socialisti e neutralisti. Dopo il disastro di Caporetto, spiega Gabrielli, fu il Ministero ad inviare alle scuole superiori le direttive per introdurre lezioni settimanali sulla guerra in corso e dopo la sostituzione di Cadorna con Diaz «anche la mobilitazione verso l’infanzia conobbe mutamenti significativi. […] L’azione congiunta del Ministero e delle associazioni patriottiche venne intensificata e anche nelle città lontane dal fronte mutò le sue caratteristiche, divenendo più capillare e dando luogo a manifestazioni pubbliche a carattere patriottico che coinvolsero l’infanzia in modo inedito e massiccio» (p. 45).
La fine dello stato liberale sotto i colpi dello squadrismo fascista e l’avvento al potere di Mussolini comportarono l’elevazione a potenza dei processi di nazionalizzazione-militarizzazione dell’infanzia italiana. Come già detto sopra, l’intervento, la trincea, il combattimento, il corpo d’assalto ecc. fecero da miti fondatori, e come ideologia e come etica, del fascismo, che una volta divenuto regime a partito unico e potendo dispiegare tutte le proprie forze e velleità totalitarie, diede il via ad una capillare opera di modellamento dell’italiano nuovo, dell’italiano fascista, che non poteva non partire proprio dalla scuola e dal mondo dell’infanzia in generale.
E così le «spedizioni squadriste armate di manganello e di olio di ricino, quando non di pistole, coltelli e bombe a mano, divennero presto un mito celebrato dal regime ed esaltato anche nei testi scolastici» (p.50). «L’etica della violenza e la celebrazione della guerra» – fa notare Gabrielli – «divennero, con la trasformazione in regime, due degli elementi fondanti la pedagogia politica e sociale del nuovo Stato. […] L’investimento che il regime fece sulla scuola fu infatti significativo; essa veniva ritenuta l’avanguardia di un fronte, quello della costruzione dell’italiano nuovo, considerato cruciale» (52). In tal senso, un passaggio importante fu l’adozione del testo unico di Stato per le scuole elementari, decisa nel 1930.
Ma nonostante l’impegno profuso dal regime nella trasformazione della scuola in un utile ed efficace strumento di mobilitazione ed irregimentazione sociali, dal 1926 – come è noto – il fascismo istituì la O.N.B. (Opera Nazionale Balilla), poi confluita nella G.I.L. (Gioventù italiana del littorio) insieme alle organizzazioni femminili nel 1937. «All’Onb fu attribuito il compito della preparazione spirituale e fisica dei giovani in senso pre-militare e la gestione del tempo libero, ovviamente caratterizzato da pratiche che esaltavano le peculiarità del regime. […] Essa divenne presto una specie di “caserma” giovanile che prendeva forma per ospitare ed educare nello spirito littorio i ragazzi durante la loro crescita» (p. 59-60). Le attività pre e para militari e l’educazione fisico-sportiva erano le pratiche specifiche dei Balilla, in stretta relazione tra loro, dal momento che la «tradizione nazionale italiana di educazione fisica privilegiava la scuola prussiana, di derivazione militare, mentre rimase trascurabile l’influenza del filone anglosassone che valorizzava il gioco e lo sport. Fu con il fascismo che si compì una integrazione tra le due scuole, con l’egemonia di quella militare: l’affermazione dello sport e del divismo sportivo nella società spinse i teorici e pedagogisti più legati al regime a selezionare alcuni sport legati alla tradizione e al profilo virile e ad includerli tra quelli promossi come educativi» (p. 66).
Gli anni Trenta non furono solo quelli del consolidamento monolitico del regime, ma anche quelli in cui si concluse la cosiddetta riconquista di Cirenaica e Tripolitania, in cui si concepì, si predispose e si combatté la guerra per la conquista dell’impero abissino a cui fece seguito, quasi senza soluzione di continuità, la partecipazione alla guerra in Spagna; insomma fu il periodo in cui il fascismo sostenne le proprie guerre, prima di precipitarsi nel gorgo del secondo conflitto mondiale.
In questo clima, ricorda Gabrielli, nel 1934 venne introdotta nelle scuole secondarie una nuova materia riservata solo ai maschi: “Cultura militare”. A questo si aggiunga che non a caso proprio in coincidenza con la ripresa della politica coloniale africana venne dato il via alla politica razzista sia sul piano ideologico sia su quello legislativo, prima nelle colonie e poi in Italia. Tutto ciò non poteva non avere conseguenze nell’ambito dell’educazione, della scuola e del mondo dell’infanzia in generale. E come guerra e sport, anche razza e guerra si fusero per formare un grumo ideologico-politico elevato dal regime al rango di contenuto ed obiettivo pedagogici.
Il varo del razzismo di Stato tra il 1936 e il 1938 aggiungeva un ulteriore elemento alla polarizzazione amico-nemico. La stigmatizzazione dell’altro “razziale” – africano o ebreo – rientrava in questo schema, ormai irrigidito in categorie che non sfuggivano alla biologizzazione e alla demonizzazione radicale. Gli africani, da sempre considerati “negri” e cioè appartenenti alla “razza” inferiore per eccellenza nella codificazione delle diversità umane, dopo aver incarnato dal 1935 il ruolo di nemici selvaggi da sconfiggere nella guerra per conquistare l’Etiopia, erano successivamente divenuti i “sudditi inferiori”. […] Emblematica in questo senso è la circolare inviata dal ministro Bottai alle scuole il 26 aprile 1937 in riferimento alla corrispondenza scolastica degli alunni italiani con indigeni dell’Africa orientale, che raccomandava un certo distacco anche nelle espressioni utilizzate: mi risulta che alcuni alunni ed alunne delle scuole del Regno, scrivano lettere o cartoline ai giovinetti indigeni dell’A.O.I. [Africa Orientale Italiana], usando l’appellativo di “sorella” o di “fratello”. Quantunque non possa dubitarsi della buona fede dei nostri alunni, ritengo che nella corrispondenza con gli indigeni non debbano essere usate le suddette espressioni, perché i fratelli degli italiani sono solamente gli italiani (p. 101-102).
La guerra d’Etiopia fu combattuta tra l’ottobre del 1935 e il maggio del 1936, quasi in perfetta coincidenza con l’anno scolastico 1935-’36 – fa notare Gabrielli – e la scuola italiana fu investita da una ondata di militarismo e razzismo fatti di disprezzo del nemico, senso di superiorità razziale, rivendicazione del diritto alla conquista e ricorso all’argomento della missione civilizzatrice, come già, ma in scala minore, era accaduto per la giolittiana conquista libica. E i ragazzi furono chiamati al coinvolgimento totale, tanto nelle attività scolastiche di aula quanto in iniziative aggiuntive o in quelle predisposte dalle organizzazioni giovanili maschili e femminili.
L’esempio forse più emblematico delle modalità con cui il regime ritenne di poter militarizzare la mentalità dei giovani italiani è quello che riguarda la distribuzione alle scuole, già a partire dal 1934, di maschere antigas e la predisposizione di pratiche di addestramento e di simulazione per l’utilizzo delle medesime. Al di là del fatto, nota Gabrielli, che il numero di maschere distribuite per istituto sarebbe stato, in caso di bisogno, insufficiente, ciò che risulta evidente è il tentativo di militarizzare la quotidianità della vita scolastica e di introdurre nel pensiero e nelle abitudini degli studenti gesti e comportamenti bellici e il tutto attraverso l’allenamento all’uso della maschera contro il gas che gli italiani non rischiavano minimamente di ricevere sulle proprie teste, mentre proprio i nostri soldati già li avevano utilizzati in Cirenaica e in modo molto più massiccio e sistematico, nonché illegale, li avrebbero impiegati in Etiopia.
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale nel 1939 e con la successiva decisione del regime di entravi nel 1940, tutte le pratiche, le forme e i metodi – propagandistici, pedagogico-scolastici, ricreativi, ginnico-sportivi – con cui il fascismo – proseguendo e potenziando quanto già compiuto dai governi dell’epoca liberale – aveva, nel corso di un ventennio scarso, militarizzato mentalità e comportamenti dei giovani italiani furono dispiegati con il massimo impegno nel tentativo di supportare lo sforzo bellico, almeno fino al 1943, quando poi i destini all’interno del Paese si divisero – e quindi anche quelli dei giovani – a nord o a sud della Linea Gustav prima e Gotica poi, ovvero – per i ragazzi più grandi d’età – a sostegno della Repubblica sociale o dentro alla Resistenza.
La reale dimensione della guerra moderna colpiva anche i giovani, in alcuni casi sbriciolando le mitologie del fascismo e conducendoli all’impegno nella Resistenza, in altri casi irrigidendo le mitologie dell’onore e della fedeltà al duce e impegnandoli in una lotta crudele al fianco dei nazisti. Come scrive Antonio Gibelli, “per quanto riguarda la mobilitazione e la nazionalizzazione di minori, l’8 settembre del 1943 segna un punto di svolta: è la perdita dell’innocenza, il brutale richiamo alla realtà […] il tempo dei sogni di grandezza si converte definitivamente in quello della disperazione e della ferocia” […] Spesso il discrimine di atteggiamento attraversava la soglia dei 18/20 anni. Chi superava questa soglia nel 1943 aveva già avuto modo di conoscere questa guerra e di capire che non valeva la pena di continuarla, spesso erano i soggetti che andavano ad alimentare la renitenza o che facevano la scelta di rottura e si impegnavano nella Resistenza. Invece i più giovani arrivavano ancora freschi di parate e parole d’ordine della propaganda a questo arruolamento precoce e cadevano ancora frastornati nella trappola della rabbia e della fedeltà feroce al mondo incantato e fittizio che gli aveva costruito intorno la propaganda fascista (p. 117).
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*La mostra Educati alla guerra, curata da Gianluca Gabrielli è distribuita da Pro Forma Memoria, agenzia da molti anni meritoriamente attiva nell’ambito della promozione culturale e didattica, della divulgazione e della ricerca storiche in particolare.