di Gioacchino Toni
Sara Martin – Valentina Re (a cura di), Game of Thrones. Una mappa per immaginare mondi, Mimesis, Milano – Udine, 2017, pp. 136, € 14,00
L’interminabile Game of Thrones prodotto dalla HBO rappresenta uno dei casi esemplari di come la serialità televisiva contemporanea tenda, ormai da qualche tempo, a produrre opere complesse che si aprono ad una miriade di linee interpretative.
Il volume qua preso in esame si presenta «come un’introduzione (una mappa) al mondo (o ai mondi) della serie, che trova nel tema della complessità spaziale e narrativa (e della sua gestione) il filo rosso lungo il quale si dispongono i saggi raccolti» (p. 10).
Su Carmilla ci siamo già occupati delle ricerche in ambito audiovisivo effettuate dalle due curatrici di questo volume. Relativamente a Sara Martin abbiamo affrontato il volume da lei curato La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo (2014), opera in cui la serialità televisiva viene indagata nel suo rapportarsi con le trasformazioni della società contemporanea. Di Valentina Re abbiamo invece analizzato il saggio da lei steso insieme ad Alessandro Cinquegrani, L’innesto (2014), ove vengono passati in rassegna diversi film usciti attorno all’ultimo decennio del Novecento che problematizzano il senso della realtà e la sempre più difficile distinzione tra reale e finzionale propria della contemporaneità.
In questo libro, Game of Thrones, le due curatrici raccolgono interventi di studiosi e studiose utili alla comprensione dell’incredibile successo di un fenomeno transmediale in cui si intrecciano letteratura, produzione televisiva, web, videogames…
Valentina Bonaccorsi, nel suo “Le cronache del ghiaccio e del fuoco: elementi storici e suggestioni letterarie”, analizza la serie creata da George Martin alla ricerca, appunto, di riferimenti storici e letterari. Sono indubbie le suggestioni medievali che caratterizzano la creazione martiniana; lo spettatore viene catapultato di fronte ad un mondo che, pur senza richiamare esplicitamente episodi storici, tutto sommato non viene percepito come totalmente sconosciuto.
Se non è difficile, ad esempio, scorgere nelle vicende che toccano gli Stark ed i Lannister richiami alla Guerra delle Due Rose che ha visto confrontarsi gli York ed i Lancaster nella seconda metà del XV secolo, la studiosa evidenzia le numerose suggestioni derivate dalla storia scozzese e, più in generale, sottolinea come la saga insista parecchio sull’importanza della genealogia, elemento al centro di molte vicende storiche che hanno attraversato il lungo medioevo.
Bonaccorsi dedica una parte importante della sua analisi anche alla questione climatica; nelle Cronache le stagioni vengono presentate dalla durata imprecisata e di un’alternanza variabile. «Durante il periodo medievale, si registra un inusuale picco di temperature relativamente miti, ricordato come “ottimo climatico medievale”, che coinvolse sostanzialmente le regioni dell’Atlantico settentrionale e del nord America in un periodo di tempo di circa mezzo millennio, dal IX al XIV secolo. Al termine del periodo caldo medievale, iniziò una brusca fase di raffreddamento che coinvolse tutto l’emisfero settentrionale e provocò un forte abbassamento delle temperature con conseguente avanzamento dei ghiacciai: la cosiddetta “piccola era glaciale”, registrata tra la metà del XIV e la metà del XIX secolo» (pp. 23-24).
Risulta pertanto chiaro il parallelismo con quanto viene narrato già nel primo libro della serie a proposito dell’arrivo del lungo inverno. D’altra parte “Winter is coming” è il motto di Casa Stark e questo, oltre a ricordare i rischi della stagione invernale che si approssima, secondo la studiosa, intende sottolineare anche come tutto sia ciclicamente destinato a capovolgersi. Bonaccorsi individua un parallelo tra il motto “Winter is coming” e la locuzione latina “Sic transit gloria mundi”, derivata dall’Imitatio Christi, “O quam cito transit gloria mundi”, per ricordare la transitorietà delle cose terrene. L’idea del capovolgimento la si ritrova anche in un celebre monologo di Edoardo IV, nel Riccardo III shakespeariano: “Now is the winter of our discontent / Made glorious summer by this sun of York”.
Tali capovolgimenti della sorte, continua Bonaccorsi, «portano alla memoria un altro elemento fondamentale della visione del mondo medievale: la Ruota della Fortuna» (p. 25). Non sono pochi i personaggi creati da Martin soggetti a capovolgimenti della Fortuna. «Un altro approccio alla “caduta” e alla morte emerge nell’espressione latina “memento mori”, mutuata dalla frase che, nell’antica Roma, veniva proferita ai generali in trionfo di ritorno nell’Urbe: “Respice post te. Hominem te memento” […] Il concetto esplicitato dal “memento mori” è molto vicino a quello della Ruota della Fortuna, anche se quest’ultima presuppone un movimento costante di ascesa e declino, mentre il primo ricorda un progressivo movimento lineare verso l’inevitabile fine. Anche l’opera martiniana ha un suo corrispettivo del latino “memento mori”, il valyriano “Valar Morghulis” – “Tutti gli uomini devono morire” – intorno al quale ruota la storia di Arya Stark dal primo incontro con Jaquen H’ghar fino al suo addestramento presso la Casa del Bianco e del Nero a Braavos» (p. 26).
Westeros viene presentato geograficamente diviso in un Nord, dalla forma simile alla Gran Bretagna, e in un Sud, dalle fattezze che ricordano l’Irlanda capovolta. Analizzando dal punto di vista geo-politico la divisione in sette regni indipendenti non è difficile vedervi un riferimento ai sette nuovi regni autonomi scaturiti dalla fine dell’Impero romano d’Occidente con la deposizione di Romolo Augusto e la Barriera di ghiaccio che separa i Sette regni dalle Terre selvagge abitate dai Bruti non può non ricordare il Vallo di Adriano realizzato per separare i Romani dai barbari del Nord. «Come i Bruti vivevano raggruppati in clan, tribù e villaggi non uniti sotto un unico potere centrale, così gli abitanti delle zone a nord del Vallo risiedevano in piccoli villaggi o accampamenti temporanei» (p. 29).
Interessanti risultano anche le analogie individuate dalla studiosa tra l’amministrazione della giustizia per Iudicium Dei, per giudizio ordalico, presente nelle Cronache ed il sistema ordalico tipico delle popolazioni germaniche, poi diffusosi nel resto d’Europa alla caduta dell’Impero romano, che assegna all’intervento divino il compito di dirimere i contenziosi. In tale sistema non di rado l’esito scaturisce da prove a cui vengono sottoposti i contendenti al cospetto di un giudice vigile circa il corretto svolgimento dell’ordalia e tutto ciò ha evidenti affinità con quanto si ritrova nelle Cronache.
Stefano Baschiera, in “Game of Thrones e l’impatto sul territorio”, si sofferma invece sul rapporto tra la produzione di questa runaway production televisiva e le località in cui sono state effettuate le riprese. La serie è una produzione statunitense con base nel Regno Unito e girata in una quarantina di diverse location europee e del bacino del Mediterraneo (Islanda, Marocco, Malta, Croazia, Spagna…). L’impatto più evidente sul territorio si è dato in terra nordirlandese ricalcando, per certi versi, il caso di The Lord of the Rings (Il signore degli anelli, 2001-2003) di Peter Jackson con la Nuova Zelanda. Sebbene risulti difficile calcolare esattamente l’impatto sul turismo per le località ove sono stati girati episodi o scene importanti della serie, di certo non può dirsi di poco conto.
Per farsi invece un’idea dell’impatto di Game of Thrones sul territorio basti pensare che la sequenza dello scontro nell’episodio “The Battle of Bastards” (ep. 9 / VI stagione) «è stata girata su 31 acri di proprietà privata con l’aggiunta di neve artificiale, ha impiegato 600 membri della crew, 500 comparse, 70 cavalli per un totale di venticinque giorni di riprese. Venti settimane di preparazione sono state necessarie prima di girare questa sequenza e hanno coinvolto, tra le altre cose, un intervento anticipato sui pascoli, per alterare la crescita dell’erba e modificare così i segni dell’impiego agricolo dell’area. Questo esempio mostra molto bene non solo l’entità della produzione, ma anche le abilità acquisite nel corso degli anni dal dipartimento delle location e la centralità della panificazione annuale della serie, che consente tipi di operazione sul territorio altrimenti impensabili» (p. 40).
Sara Casoli, nel suo “L’anomalia emotiva di Game of Thrones: coinvolgimento del pubblico e design della narrazione”, si sofferma sulla costruzione del coinvolgimento emotivo e dell’affezione del pubblico nei confronti della serie televisiva attraverso una particolare architettura delle informazioni. L’intervento analizza i dispositivi testuali e formali adottati da quello che è «un ambiente narrativo aperto, espandibile ma in equilibrio e resiliente, in cui personaggi e pubblico coabitano e cooperano in interazione dinamica e reciproca» (pp. 45-46).
Le modalità con cui il testo audiovisivo riesce a determinare particolari stati emotivi negli spettatori sono sia di natura formale che narrativa. Alle risposte emotive del pubblico concorrerebbero un’atmosfera affettiva diffusa omogeneamente lungo tutta la serie ed alcuni acuti emotivi localizzati e fugaci. L’interconnessione di tali modalità andrebbe a creare quell’architettura d’insieme in grado di determinare un tipo particolare di suspense in cui lo spettatore capisce che è previsto un evento ma non ha idea di quale esso sia e quali personaggi vengono coinvolti. Si determinerebbe così, secondo Casoli, un clima di ansia e diffidenza a cui lo spettatore si abitua in attesa dell’arrivo dei picchi emotivi.
Solitamente lo spettatore tende ad allinearsi con alcuni personaggi-protagonisti assumendone il punto di vista morale ed etico, stabilendo con loro un legame empatico ma in Games of Thrones tutto ciò deve fare i conti con l’alto numero di “personaggi paritari” e con la difficoltà di stabilire una condivisione morale con essi. L’architettura della serie deve pertanto saper evitare un eccesso di informazioni procedendo in maniera armonica, mantenendo elementi di continuità ed evitando eccessive capacità previsionali da parte dello spettatore. La studiosa ricostruisce coma l’architettura di Games of Thrones sia sapientemente programmata affinché i meccanismi testuali possano generare stati emotivi tali da mantenere il pubblico all’interno dell’universo diegetico a lungo e profondamente.
L’intervento di Sara Martin, “Gli abiti di Game of Thrones: mappe che svelano i personaggi”, analizza l’aspetto narrativo dei costumi nella serie televisiva, la loro incidenza «nella determinazione dei personaggi e del racconto, nella resa dei sentimenti e delle emozioni che in essi circolano» (p. 63).
La studiosa ricostruisce come i costumi della serie, realizzati con una cura davvero maniacale, abbiano anche un’importante funzione narrativa; «per esempio, che i costumi di Daenerys Targaryen, man mano che la saga avanza, vanno a ricoprirsi di pieghe sempre più piccole che mimano le scaglie dei draghi […] la battaglia per il dominio tra Lannister e Stark si manifesta lungo tutto l’abito da sposa di Sansa, dove meta-lupi ricamati lottano e vengono alla fine battuti dal leone, che troneggia sinistro sulla nuca» (p. 65).
Martin sottolinea anche come nei principali personaggi femminili della serie i costumi, oltre a sottolineare il ruolo sociale di chi li indossa, riflettano l’evoluzione del loro stato psicologico ed a tal proposito vengono prese in esame le caratteristiche e l’evoluzione dei costumi e dei personaggi femminili di Daenerys, Cersei e Sansa.
Nicola Stefani, in “Gli storyboard di Game of Thrones”, analizzala il «passaggio dello storyboard da oggetto effimero di produzione a contenuto offerto ai fruitori del web» (p. 78) all’interno della strategia di marketing e promozione attuata dalla HBO. Nell’era della “cultura convergente”, così come delineata da H. Jenkins, diviene possibile che gli storyboard finiscano per essere collocati in nuovi contesti mediali assumendo nuove funzioni. «Le potenzialità di interazione della piattaforma digitale permettono agli utenti del blog di approfondire in prima persona i processi di visualizzazione della propria serie preferita, nel contesto della maggiore ricettività dei nuovi media che ha dato luogo a ciò che è stata definita participatory culture» (p. 83).
Elisa Poli nel suo contributo, “Le città visibili di Game of Thrones”, si sofferma sulla rappresentazione dei Sette Regni offerta dalla serie televisiva. «La carta geografica di Game of Thrones è una visione che ci avvicina a un mondo verosimile ma fantastico, dettagliato ma, al contempo, sfuggente. Le città di questa mappa, i suoi territori, così come le storie che vi si svolgono, compaiono poco per volta, pezzo per pezzo, come in un mosaico ingannevole che sembra costruito dalla mente di un Borges post-moderno. La mappa è il primo sguardo rivolto ai Sette Regni, ci rivela in un tempo velocissimo dove si svolgeranno le vicende di un episodio ma, anche, quali luoghi permangono attivi, seppur silenti, all’interno di questa complessa storia di re, eroi e demoni. Per tale motivo, dedicare l’incipit di ogni racconto alla rappresentazione cartografica è un paradosso di forte impatto, perché alla dovuta precisione della descrizione di un mondo si lega la volontaria omissione di un destino: sappiamo dove si svolgeranno i fatti di cui, però, non conosciamo ancora la trama» (p. 89).
Poli passa in rassegna gli spazi che ci vengono presentati dalla serie televisiva dal punto di vista architettonico. Vengono analizzate le quattro roccaforti a partire dalla lugubre architettura di Castel Black, a ridosso della Barriera presidiata dai Guardiani della Notte, passando poi alla fortezza di casa Arryn, The Eyrie (Nido dell’Aquila), mostrata nel suo aspetto impenetrabile che viene svelato un poco alla volta nel corso delle stagioni, fino al castello di Riverrun, che riprende il celebre Château de Chenonceau, per poi giungere alle cinque scogliere dell’arcipelago delle Iron Islands che danno forma alle architetture dello scabro edifico di Pyke dei Grayjoy che pare richiamare le forme del tipico castello scozzese. Successivamente la studiosa analizza le città di mare di Braavos, Meereen, Qurth e le località in rovina Harrenhal e Valyria segnalando i rimandi che queste palesano nei confronti di città e luoghi che già fanno parte dell’immaginario dello spettatore.
Il volume si conclude con il contributo di Marta Boni e Valentina Re, “Here be Dragons: la mappa come soglia, racconto, creazione”, che analizza la particolare mappa fornita dalla sigla, variabile di puntata in puntata, che invita lo spettatore a scoprire l’evoluzione del mondo di Game of Thrones. Durante i titoli di testa i diversi elementi che compongono i territori di Westeros e di Essos, prima mostrati dall’alto, acquistano tridimensionalità trasformandosi in antichi automi all’interno di una sorta di astrolabio che mostra immagini passate e future svelando il mondo della serie un poco per volta nel corso delle diverse sigle che aprono le puntate.
Secondo le studiose la mappa si presenta come «un territorio di negoziazione tra lo spazio del mondo immaginario, il tempo del racconto, e il tempo degli spettatori. Elemento paratestuale, zona di confine, essa non è da leggersi (soltanto) come uno strumento utile all’orientamento dei fruitori, ma come un trampolino per l’immersione in un’esperienza di costruzione di un mondo (tipica della cultura mediale contemporanea)» (p. 106). Dunque la mappa che compone la sigla appare allo spettatore come un vero e proprio percorso visivo che crea il mondo entro il quale si svolgono le vicende narrate.
Boni e Re sottolineano come sin dai primi anni Novanta molte serie televisive abbiano presentato mondi complessi e come ciò abbia obbligato gli spettatori a fare i conti con tale complessità. «Ciò accade proprio perché i racconti televisivi seriali sono ormai capaci di svilupparsi al di là del singolo episodio e, spesso, proliferano al di là del singolo media, come negli esempi di transmedia storytelling, ancora una volta descrivibili in termini di spazio o di accumulo di azioni in temporalità diverse» (p. 113). Dunque le mappe vengono in soccorso allo spettatore al fine di aiutarlo visivamente a mantenere sotto controllo una complessità altrimenti inestricabile ed al tempo stesso contribuiscono alla costruzione di senso.
La mappa offre una corrispondenza semiotica tra le immagini e lo spazio rappresentato ed in ciò si differenzia dalla condivisione orale o scritta di conoscenze ma la mappa, quando finisce in rete, può anche circolare come elemento autonomo volto ad arricchire l’esperienza del pubblico. «Costruire una rappresentazione astratta di un mondo non è infatti soltanto un modo di rivelare un sapere sul mondo, ma è anche, e soprattutto, un modo di costruire tale sapere. I processi di mappatura fanno parte della costituzione del processo seriale» (p. 114).
Le studiose dimostrano come la mappa-sigla che caratterizza le diverse puntate, nel suo essere al contempo tanto una mappa-descrizione quanto una mappa-racconto, porti ad una serie di opposizioni: visibile/non-visibile, lontano/vicino ecc.
La dialettica che, ad esempio, si viene a creare tra ciò che è visibile e ciò che non è visibile «può dare luogo, da un episodio all’altro, a differenti soluzioni e differenti percorsi, nel senso che possono variare, da episodio a episodio, le singole aree della mappa che vengono “scoperte”, sorvolate e “attivate”» (p. 117). Dunque il rapporto tra visibile e non visibile proposto dalla sigla tende ad orientare la lettura e l’interpretazione.
Per analizzare la dialettica tra lontano e vicino proposta dalla sigla, Boni e Re riprendono Umberto Eco quando, a proposito dei Promessi sposi manzoniani, parla di una discesa dall’alto geografico ad un basso topografico ed, in Game of Thrones, sostengono le due studiose, è ravvisabile anche un movimento dalla profondità alla lateralità: «quando passiamo dalla visione perpendicolare alla visione laterale di Approdo del Re o, ancora più marcatamente, quando passiamo dal plongée al contre-plongée – come nell’improvvisa rivelazione dell’albero-diga di Grande Inverno, che ci pare di poter osservare stando proprio ai suoi piedi. Tali slittamenti dall’alto geografico al basso topografico, fino a una prospettiva laterale (o dal basso), che ben traduce una posizione che da vicina tende a farsi interna al mondo finzionale, instaurano peraltro una stretta relazione con la gestione del sapere narrativo all’interno del racconto seriale, e dei romanzi in particolare. In effetti, la questione del “chi sa” viene efficacemente resa, attraverso la mappa dinamica, come un problema legato al “chi vede”, e si configura come tensione verso un’assenza di focalizzazione (il sapere onnisciente che corrisponde alla “bird’s-eye view”) che si realizza tuttavia grazie alla sintesi di tanti punti di vista “interni” (che corrispondono alle prospettive più ravvicinate), in un regime di focalizzazione interna variabile» (p. 119).
Nel romanzo i capitoli si distinguono in base allo sguardo del personaggio con cui ci vengono offerti gli eventi mentre nella serie televisiva il punto di vista scopico o spaziale, suggerito dalla sigla-mappa, ha la meglio su quello cognitivo. «Mappe e titoli di testa, in effetti, sono attraversati da un’identica tensione, quella tra leggere (la legenda nelle mappe, le menzioni verbali dei credits nei titoli di testa) e vedere (la rappresentazione grafica nella mappa, la componente grafica e visuale nei titoli). Ma nei titoli, com’è noto, il leggere e il vedere si posizionano su due diversi ordini di discorso, il primo legato alla dimensione fattuale della produzione (leggere i credits), il secondo legato alla dimensione finzionale del racconto (vedere le prime immagini diegetiche, oppure immagini non direttamente “prelevate” dalla diegesi ma con uno spiccato valore metadiegetico, di commento al mondo della storia). La situazione, nel caso della sequenza dei titoli di Game of Thrones, si complica ulteriormente, dando luogo a regimi ibridi che obbligano lo spettatore ad assumere posizionamenti ambivalenti o a muoversi con agilità tra diversi ruoli – da “lettore dei titoli di testa” a “lettore di finzione” e “spettatore di finzione”» (p. 120).
Boni e Re insistono sulla forza e sull’impatto della mappa-sigla variabile e dinamica della serie; «la potenza e la vitalità di questa genesi sembrano associati al prevalere, sulla funzione di rappresentare un mondo e fornire strumenti di orientamento, della funzione di installare un mondo, mostrando e mettendo in scena (letteralmente) un’attività di world-building (gli elementi architettonici che “crescono” e si animano) che presenta una fortissima componente seduttiva» (p. 123). Tale mappa, come detto, è una mappa evolutiva, ma «che, più che fornire strumenti di orientamento allo spettatore, reclama ulteriori strumenti di orientamento per essere ben compresa nel suo complesso funzionamento» (p. 124). Sulla sua funzione di orientamento sembra prevalere il suo ruolo di ausilio alla costruzione di mondi a cui necessariamente concorrono gli spettatori che si trovano, sul web, non solo ad essere connessi al mondo presentato dalla serie televisiva, ma anche a connettersi ed interagire tra di loro; al world-building si aggiungerebbero dunque pratiche di community-building dal basso.