Rinaldo Mattera, GRILLODROME. Dall’Italia videocratica all’impero del clic, Mimesis 2017, pp. 200, euro 20,00
[Qui di seguito un estratto dalla postfazione di Gianfranco Marelli, “Pianificazioni, dispositivi, narrazioni a confronto”, al testo di prossima pubblicazione per i tipi editoriali di Mimesis]
Se dovessimo tratteggiare in poche righe il carattere pregnante dello studio di Rinaldo Mattera nel descrivere puntualmente lo stato catatonico in cui versa una parte cospicua dell’elettorato italiano negli ultimi vent’anni – dalla “discesa in campo” di Silvio Berlusconi al primo “V-day” di Beppe Grillo, alla “rottamazione” di Matteo Renzi – potremmo osservare quanto il sunnominato elettore, più della ricerca di una probabile soluzione ai problemi che lo convinca della scelta da compiere per risolverli, è propenso alla ricerca di una “narrazione” plausibile, rispetto ai problemi da risolvere, in grado di convincerlo della loro immediata e garantita risolubilità.
Di questo bisogno di una plausibile “narrazione” capace di semplificare la complessa realtà di una società globalizzata e pertanto uniformata entro spazi delimitati da cornici informazionali economico-finanziarie, in cui l’elemento tecnologico ne appiattisce il tempo in un presente immediato senza più passato né futuro, è racchiuso il consenso e il conseguente successo elettorale – dove l’interesse privato ha sostituito il pubblico interesse – che cronologicamente ha avvinto il partito/azienda di Berlusconi, la premiata ditta del litigioso duo Bersani/Renzi, e il marketing digitale del blog di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, luogo cibernetico del Movimento Cinque Stelle.
[…] Come si è giunti a tanto, ma soprattutto quali conseguenze comporta il credere ad una simile narrazione? Cercare di rispondervi comporta anzitutto verificare se vi sono stati altri precedenti storici che hanno invertito, sostituito, riprogrammato il rapporto tra la realtà della vita quotidiana e la sua rappresentazione immaginifica, spettacolare, al punto che – sottolinea Mattera – «la transizione tra online e offline, la ricombinazione delle identità tra virtuale e reale non sembra più essere un’utopia, o distopia, come predetto dalle controculture di fine millennio». Di più, significa cogliere una traccia che permetta l’individuazione di un file rouge fra ciò che è stata considerata la “Società dello Spettacolo” e ciò che si presenta ai nostri sguardi come la “Società della Rete”. Dal momento che la prima definizione rimanda ad un sistema economico di stampo fordista in cui la fabbrica/città è il luogo interno della produzione, ed esterno del consumo delle merci, la seconda riguarda il contesto in cui la produzione ed il consumo delle merci coincidono con la riproduzione biopolitica degli individui, considerati essenzialmente come fonti primarie per la privatizzazione del capitale cognitivo attraverso le più svariate forme della precarietà sociale nella postfordista città/fabbrica.
[…] Il concetto di “spettacolo” per specificare la società dei consumi, sorta dalle macerie del secondo dopoguerra e sviluppatasi nel corso dei “gloriosi trent’anni” della ricostruzione dello spazio della produzione e del consumo capitalista [1945/1975], lo si deve ai situazionisti, [… convinti che] il conquistato consumismo da parte delle masse aveva determinato l’imporsi di una visione del mondo come spettacolo della merce su tutto ciò che è vissuto, sino a raggiungere il suo momento culminante nella pianificazione della felicità. Pertanto, occorreva – scrissero nel documento di fondazione dell’I.S. – «distruggere, con tutti i mezzi iperpolitici, l’idea borghese di felicità», e promuovere una nuova idea di felicità per contrastare, combattere e distruggere la pianificazione di uno sviluppo sociale, che avrebbe consentito il perpetuarsi del sistema di sfruttamento ed alienazione basato su di un modello di vita quantitativamente migliore del precedente, ma qualitativamente più massificato, anonimo, reificato, così da determinare una sopravvivenza aumentata contenente la privazione: ossia non l’al di là della privazione, bensì la privazione divenuta più ricca di cose povere contrabbandata per felicità.
[…] In Italia il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, determinato dall’inchiesta giudiziaria “Mani pulite” che per prima accertò quanto i costi della politica non fossero più tollerabili per un sistema economico-finanziario in fase di ristrutturazione con il conseguente taglio alle spese per l’ormai vetusta e corrotta rappresentanza partitica, condusse Silvio Berlusconi a “scendere in campo” dando vita al partito/azienda Forza Italia, caratterizzando l’impronta personalista e privatistica di tutta la nuova politica italiana, imprimendone uno spirito liberal-populista che verrà preso a modello anche dai partiti d’opposizione – durante e dopo il berlusconismo imperante – al punto da tracciare il rinnovamento, lo svecchiamento, del modo di far politica attraverso il parlar franco, in maniera spiccia e “popolare”, ma soprattutto con cipiglio decisionista, contrario ça va sans dire al linguaggio paludato, burocratico e politically correct tanto caro alla “casta al potere”.
Fu questo l’inizio della Buona Novella, della nuova narrazione che affascinò l’elettorato italiano e condusse il Paese a sottostare ad una pianificazione di controllo i cui dispositivi disciplinari mediatici – obbedendo ad una logica non più welfarista, ma neo-liberista – vennero riformulati gradualmente in chiave privatistica a partire dalle reti televisive Mediaset, fino ad arrivare alla Rete 2.0 con la privatizzazione del cyberspazio attraverso l’evoluzione del World Wide Web, il proliferare dei social network e l’espandersi dell’E-Commerce in senso interattivo.
Il passaggio è stato fulmineo, repentino. Come documenta lo studio di Mattera, sebbene l’affermarsi della cultura digitale in Italia sia stata rallentata dai conflitti di interesse tra sistema mediatico e pratiche politiche, entrambi protesi al perdurare della supremazia del medium televisivo come potere videocratico, «una gran parte degli internauti italiani è entrata nel mondo del web 2.0, quello di Facebook e della connettività mobile, senza passare per gli stadi intermedi. Siamo praticamente ancora in “un paese di televisori e telefonini”». Ciò ha determinato non solo un approccio ingenuo e semplicistico dello strumento mediatico, tale da utilizzare la Rete – meglio, i social network – come vetrina nella quale specchiare la propria immagine bulimica, ma soprattutto caricarla di una valenza politica in cui la narrazione della Buona Novella [il popolo che finalmente si ribella alla “Casta”] dai talk show e dai giochi televisivi è trasmigrato nel cyberspazio, determinando «una mutazione degenerante della democrazia, una patologia virale che si annida nel flusso informazionale del villaggio globale».
Il paradosso mediatico insito nella “mutazione degenerante della democrazia”, descritta puntualmente nella presente opera, appare del tutto evidente se osserviamo quanto simile sia il dispositivo che ha sorretto per molti anni la fortunata trasmissione della televisione generalista, “Ok, il prezzo è giusto!”, condotta da una delle icone populiste del partito/azienda di Silvio Berlusconi, Iva Zanicchi, eurodeputata e conduttrice del gioco televisivo [andato interrottamente in onda sulle reti Mediaset dal 21 dicembre 1983 al 13 aprile 2001], con l’asset che caratterizza la maggior parte degli internauti italiani ogni qual volta cliccano numerosi il like a commento di opinioni, iniziative, semplici emozioni, diffuse in Rete, esprimendo una sorta di “Ok, l’idea è giusta!”.
Pertanto non più soltanto la merce, ma soprattutto l’idea, è divenuta nella Società della Rete la pianificazione della felicità per la partecipazione democratica e libera, così come lo è stata in modo meno virtuale e più terra-terra la pianificazione della felicità per la sopravvivenza aumentata nella Società dello Spettacolo. Con una differenza sostanziale: la pressoché totale mancanza di coscienza critica nei confronti dell’attuale dispositivo di controllo, se non addirittura il completo ed entusiastico assenso, al punto da minimizzare o perfino volutamente ignorare quanto sia performativo per il soggetto coinvolto nell’azione il credere di esprimersi democraticamente ed in assoluta libertà all’interno di un contesto spaziale [la Rete], costituito dai recinti privati [i social network, i blog] il cui interesse prioritario è la messa a profitto dei visitatori/produttori cognitivi. Perché la necessità di «distruggere con tutti i mezzi iperpolitici l’idea borghese di felicità» così pressante nella seconda metà del secolo scorso non sembra più d’incombente attualità?
Nel tratteggiare l’evoluzione e la trasformazione subita negli ultimi 70 anni da parte della tecnologia dei computer e del linguaggio cibernetico, Rinaldo Mattera evidenzia quanto il dibattito sulla cyber democrazia sia oscillato da un primo approccio utopistico – caratterizzato da un utilizzo della Rete attraversata da una spinta utopistica e libertaria, dovuta «al genio degli individui che per primi hanno avuto l’ardire di violare l’accesso esclusivo e istituzionale alla rete», così da aprire la comunicazione telematica in spazi aperti potenzialmente a tutti – ad una visione distopica sempre più marcata, a causa del fatto che «il rapporto egemonico che i dispositivi digitali impongono sulla cultura e il potere che attraversa i corpi e ne istituisce il pensiero e le azioni, sono elementi che lasciano trasparire come il potenziale democratico di internet non favorisca le classi sub-alterne, ma anzi rafforzi il potere delle élite, vecchie e nuove». Così da luogo aperto in cui sperimentare pratiche di comunicazione libertaria in grado di diffondere un utilizzo dei mezzi mediatici finalizzati alla condivisione, partecipazione e rinnovazione della tecnologia applicata ai saperi, il cyberspazio si è trasformato in un luogo chiuso, recintato in angusti spazi privati dove si esercita una sorveglianza panottica di pochi sui molti e il divenire rivoluzionario promesso dal web non è altro che l’ennesima narrazione in cui l’acclamata “democrazia digitale” risulta essere la nuova pianificazione della felicità della Società della Rete.
Esempio calzante di questa mutazione è l’affermarsi del Movimento 5 Stelle come narrazione mitopoietica di un agire democratico attraverso le potenzialità offerte da Internet e rese disponibili grazie alla sensibilità e al disinteresse di illuminate figure manageriali – Gianroberto e Davide Casaleggio – che hanno messo a disposizione la propria competenza professionale grazie al fortunato e propizio incontro con l’uomo di spettacolo Beppe Grillo, la cui fama e notorietà per una carriera televisiva borderline gli ha consentito di assurgere ad influencer del proprio blog – gestito dalla Casaleggio Associati – aggregando gli utenti/militanti del M5S per instradarne la partecipazione ad un progetto politico suggestionato dall’emotività di un discorso appagante perché risolutorio attraverso una visione semplice delle cose del mondo così da costruire un senso comune fra chi è favorevole al cambiamento già possibile in Rete tramite la “democrazia digitale”, e chi è ancora ancorato alla intermediazione dei partiti e dell’informazione mainstream a loro asservita.
Il fatto che i Pentastellati si siano da subito acclamati “Movimento”, se significativamente ha voluto sottolineare la distanza da qualsiasi forma “partito” come da qualsiasi ideologia ritenuta superata, inconcludente e perniciosa, fin dal suo esordio pubblico si è dimostrato essere un bluff, [… infatti] mai hanno messo in discussione il sistema economico e l’apparato amministrativo, ma nel condannare l’inefficienza dovuta alla corruzione dei partiti e al malaffare delle istituzioni pubbliche, hanno fatto dell’onestà la narrazione vincente del proprio impegno al servizio del Paese. Un’onestà che Rinaldo Mattera, senza mai nominarla, analizza scandagliando i dispositivi che hanno istituito la macchina per il consenso e la diffusione della narrazione penta stellata […] . Del resto, quando «la tecno-filia, il risoluzionismo di internet, il tecno-positivismo esasperato, il feticismo digitale convivono nelle narrazioni mitopoietiche del M5S, come di Apple, Google, Microsoft», non solo è doveroso dubitare che l’onesta possa essere “la formula che mondi possa aprirti”, ma è necessario ribadire “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Per una nuova idea di felicità.