di Luca Cangianti
Pierre Brouè, Comunisti contro Stalin. Il massacro di una generazione, AC Editoriale, 2016, pp. 398, € 15,00.
Cercarono fino alla fine di rompere il silenzio, di denunciare l’atrocità che si stava per compiere. In viaggio verso i campi di concentramento praticarono lo sciopero della fame, srotolarono striscioni e cercarono di coinvolgere la popolazione delle città che attraversavano. Sui battelli che li deportavano verso regioni remote, si riunirono in assemblea e firmarono risoluzioni di protesta da inviare al comitato centrale del partito e alla Terza internazionale. In una bottiglia inserirono un messaggio e la lanciarono nelle acque dello stretto di La Pérouse. Sulla tundra ghiacciata, mentre marciavano a gruppi di cento, sapendo di andare incontro alla fucilazione, cantavano L’internazionale. I giudici, la polizia segreta e il partito li avevano schedati con la sigla Krtd, cioè “controrivoluzionari terroristi trotskisti”, ma loro si definivano “bolscevico-leninisti” per rivendicare il comunismo dei primi anni della rivoluzione, di contro alla degenerazione verificatasi con l’ascesa al potere di Iosif Stalin.
Finalmente è stato pubblicato in italiano Comunisti contro Stalin di Pierre Brouè, lo storico e attivista francese scomparso nel 2005, famoso per le sue ricerche sul movimento comunista internazionale. Il libro, uscito in edizione originale nel 2003, è basato sul materiale reso disponibile con l’apertura degli archivi sovietici. Scopo dichiarato dell’opera, costruita intorno alle biografie di circa 700 oppositori, è sottrarre all’oblio la vita e i nomi delle migliaia di comunisti sovietici massacrati negli anni trenta dello scorso secolo.
L’epiteto di “trotskista” finì per essere rivolto contro chiunque criticasse l’involuzione autoritaria che aveva distrutto la democrazia dei soviet, vietato qualsiasi forma di libertà politica e consegnato il potere a una casta di grigi impiegati di partito, interessata alla difesa del proprio status, dei propri magazzini speciali e di tutti gli altri privilegi ai quali non aveva accesso la maggior parte della popolazione lavoratrice, affamata e sfiancata dai ritmi della produzione taylorista. Tra i comunisti antistalinisti sovietici non troviamo quindi solo i veri e propri seguaci di Lev Trotsky, raggruppati nell’Opposizione di sinistra, ma anche appartenenti ad altre correnti quali ad esempio l’Opposizione operaia, i decisti e i neopopulisti.
Secondo le stime dello stesso Stalin gli oppositsionneri dovevano essere circa 30 mila, ma grazie a fonti ufficiali di polizia Brouè riesce anche a tracciare alcune linee sociodemografiche: il 44% erano operai d’officina e il 25% ex operai ascesi a incarichi di responsabilità. L’85%, inoltre, aveva meno di 35 anni e le donne erano numerose. Quanto ai dirigenti delle varie correnti dell’opposizione, si trattava prevalentemente di rivoluzionari della prima ora: “Non sono uomini dell’apparato, ma militanti di massa. Hanno conosciuto la clandestinità e la prigione, ma anche l’emigrazione e i vasti orizzonti del movimento internazionale. Meno funzionari che trascinatori d’uomini, più tribuni o agitatori che amministratori, più scrittori che estensori di circolari… Credono ancora alla rivoluzione mondiale, all’avvenire socialista dell’umanità intera. Credono nella forza delle idee, nella fecondità del loro confronto, nella convinzione che nasce da questo combattimento. Hanno fiducia nel loro partito, che vogliono riconquistare e togliere dalle grinfie del suo apparato, per riportarlo alla purezza dei suoi anni rivoluzionari.” Gli oppositsionneri furono progressivamente allontanati dalla vita politica negli anni venti, poi arrestati, torturati, messi gli uni contro gli altri e infine sterminati nella quasi totalità. La storia dei comunisti antistalinisti sovietici si conclude infatti con la sepoltura di migliaia di cadaveri nelle fosse comuni di Magadan e a Vorkuta.
Dopo il crollo dell’Unione sovietica questi eventi potrebbero sembrare d’interesse unicamente documentario o peggio costituire l’ennesimo sostegno alla tesi secondo la quale ogni aspirazione rivoluzionaria è condannata a trasformarsi in gulag. Trotsky nella Rivoluzione tradita cercò di spiegare l’involuzione del potere sovietico con il sottosviluppo e l’isolamento dell’Urss, con il fallimento della rivoluzione mondiale e la stanchezza delle masse sovietiche provate dalla guerra mondiale, prima, e civile, poi. Rosa Luxemburg, invece, intravide i germi della degenerazione già nei primi anni successivi alla rivoluzione quando, per contrastare l’aggressione delle potenze imperialiste, il partito bolscevico accentrò nelle proprie mani tutto il potere statuale. Dopo quegli eventi, la democrazia rivoluzionaria sovietica non fu più riattivata e chi, come i marinai di Kronstadt nel 1921, iniziò a reclamarla, fu trattato da controrivoluzionario e represso nel sangue.
Il partito di Stalin non può essere semplicisticamente ricondotto a quello di Lenin, sia per quello che quest’ultimo andò elaborando nei suoi ultimi anni di vita riguardo allo sviluppo della burocrazia, sia perché tra il partito del 1917 e quello degli anni ’30 c’è la cancellazione politica e fisica di una generazione di rivoluzionari. E tuttavia sarebbe utile interrogarsi se già nei primi anni successivi alla Rivoluzione d’ottobre alcune restrizioni della libertà possano aver avuto un effetto mutageno sulla struttura delle istituzioni sovietiche. Coloro che giustificarono i metodi autoritari si appellarono all’eccezionalità del momento che avrebbe reso necessario l’accentramento incondizionato del potere nelle mani di una élite e la persecuzione del dissenso, altrimenti avrebbe trionfato la reazione. Il paradosso è che la sospensione della democrazia dei soviet ha portato esattamente alla morte delle istituzioni rivoluzionarie e, dopo una lunga parabola di accumulazione originaria durata settant’anni, ha finito per reintrodurre il capitalismo in tutti i suoi aspetti, consegnando la proprietà dei mezzi di produzione proprio a quella casta di burocrati che ne curava già la gestione ai tempi dell’Urss.
La recente pubblicazione in italiano di Comunisti contro Stalin è un buon modo di celebrare la rivoluzione del 1917 nell’anno del suo centesimo anniversario: da un lato ci restituisce il nome e la storia di chi denunciò la degenerazione del potere sovietico in nome della stessa rivoluzione, dall’altro fornisce nuovi dettagli su un processo che, lungi dall’essere un unicum storico, riguarda tutte le esperienze – non solo passate – che imboccano la via dell’irrigidimento statale piuttosto che quella dell’espansione e dell’approfondimento rivoluzionari. Una formazione economico-sociale postcapitalista che non riesca a diventare egemone instaurando una gestione dal basso della vita politica ed economica è destinata a subire l’accerchiamento del perdurante capitalismo, a produrre nuove caste di gestori del potere, e infine a degenerare.