di Pierpaolo Ciccarelli
Chi erano gli eroi sulla scena delle tragedie di Eschilo, di Sofocle, di Euripide? Gli eroi erano figure umane che i poeti tragici riprendevano dalla tradizione di miti risalenti a tempi immemorabili. I tragici, infatti, non componevano drammi storici, né mettevano in scena spettacoli che avessero diretto rapporto con la realtà che era per loro contemporanea. Attingevano al mito, a un «mondo magico» che a quell’epoca, l’Atene del V e del IV secolo prima di Cristo, era per lo più conservato nella tradizione dei poemi omerici e della lirica. Non era più, quel mondo, il mondo attuale. I poeti tragici guardavano all’indietro, si direbbe quasi che evocassero fantasmi, quando nessuno credeva più ai fantasmi. Perché questa attenzione rivolta a un passato oramai trascorso, a un mondo ‘notturno’ che, per l’ateniese illuminato di quell’epoca, era poco più di una curiosità? Perché questa inattualità caratteristica della tragedia greca?
Va notato, per prima cosa, che, nell’attingere al patrimonio della tradizione mitica, i poeti tragici apportavano significative variazioni. Il dramma tragico era una ‘mito-logia’ nel senso letterale della parola, era cioè un logos, un «discorso razionale» che, rivolgendosi al mito, inevitabilmente lo modificava lo «demitizzava», giacché, quello mitico, non era ancora il mondo del logos razionale. La mitologia tragica era infedele al proprio oggetto, non riproponeva il mito esattamente così come è stato tramandato. Il filo della tradizione veniva ripreso, ma per interromperlo. Per questo motivo, ai tragici veniva rivolta l’accusa di essere «mentitori». I tragici mentivano, non, però, nel senso che non dicevano cose vere sulla realtà effettiva. Mentivano perché si rifacevano alla tradizione senza rispettarla, perché inventavano i miti. Mentivano su quelle che, alla loro epoca, erano già considerate favole incredibili, menzogne. Questo singolare mentire su menzogne è essenziale per cogliere il senso della poesia tragica. Fa capire che la tragedia è una forma del tutto peculiare di ‘mito-logia’, di affrancamento dal mito, di «demitizzazione»: è una riflessione sulla demitizzazione stessa. Quelli inventati dai tragici erano miti di demitizzazione, favole che raccontavano vicende di chi non crede più alle favole. Al cospetto degli spettacoli tragici, gli spettatori ateniesi, oramai già demitizzati, erano indotti a osservare il processo mediante cui essi stessi erano usciti dal mito, divenendo così quel che erano in quel momento. L’inattualità dei drammi tragici va perciò considerata una forma di più profonda attualità. La loro — potremmo dire — è l’attualità dell’inattuale.
Proviamo a riflettere, a questo riguardo, su una delle tragedie più note, l’Edipo Re di Sofocle. Si è detto, all’inizio, che gli eroi tragici erano figure umane. Va ora aggiunto che erano esseri umani i quali avevano però un singolare rapporto con il «divino». «Divino» è forse un termine fuorviante, troppo carico di connotazioni derivanti dal monoteismo, estranee al cosiddetto «paganesimo». È quindi più appropriato adoperare l’espressione «demonico». Negli eroi mitici, la sfera umana — rileva un grande filologo classico, Karl Reinhardt — si mostrava in un rapporto di inusuale prossimità alla sfera demonica. Gli eroi tragici erano umani più che umani. Molti di loro erano figli di dei e di esseri umani. Altri erano nati con un destino sinistramente segnato dagli dei: Edipo — aveva detto un oracolo — ucciderà il padre e si unirà alla madre, dando inizio a una sequenza di eventi che si abbatteranno rovinosamente anche sui discendenti di un’unione così empia, Eteocle e Polinice, Antigone e Ismene. Che cosa accadeva agli eroi mitici quando venivano messi in scena dai poeti tragici? Si imbattevano, agendo, in limiti che, anche per essi, esseri umani più che umani, rimanevano insuperabili. La loro inusuale prossimità al demonico, non soltanto non gli consentiva affatto di porre rimedio alle avversità della vita, ma li costringeva a una esperienza dell’irrimediabile che aveva un’intensità sconosciuta ai comuni mortali. Ciò spiega perché gli eroi tragici si venivano a trovare in situazioni estreme, nelle quali nessuno viene normalmente a trovarsi. Chi può mai avere la sventura di uccidere, inconsapevolmente, il proprio padre e, ancora senza saperlo, di giacere con la propria madre? Ebbene, la caratteristica, e tutt’altro che casuale, mancanza di verosimiglianza, o — come dice Albert Camus — l’«assurdo» della situazione tragica è dovuto proprio alla prossimità dell’eroe al demonico. I poeti tragici evocavano i demoni per mostrare come l’eroe venga giocato dal proprio destino: il demone lo spinge a prendere in mano le redini della propria vita e, così, a salvarsi, e, proprio nell’infondergli fiducia nella salvezza, lo conduce inesorabilmente alla rovina.
Richiamiamo qualche sequenza delle vicende dell’Edipo sofocleo. L’eroe entra in scena animato dalla volontà di salvare Tebe dalla peste che sta decimando la popolazione. Nessuno meglio di lui può assolvere a un compito del genere. Non soltanto perché è il re, ma perché, grazie alla sua straordinaria intelligenza, è diventato re – sposando Giocasta, la quale, senza che nessuno dei due lo sappia, è sua madre. Edipo, infatti, era diventato re dei tebani perché aveva saputo risolvere l’enigma della Sfinge che un tempo opprimeva la città. Aveva trionfato su un demone, dando la risposta giusta al suo indovinello. Edipo aveva capito quel che gli altri, comuni mortali, non erano riusciti a capire e che, proprio a causa di questa loro mancanza di intelligenza, erano stati divorati dal mostruoso animale, personificazione della potenza magica. Il sapere di cui Edipo è in possesso è il sapere più importante per gli uomini, il sapere ‘politico’ per eccellenza: egli conosce l’essere umano. Questo è, infatti, il significato non banale dell’ingenua questione posta dalla Sfinge: l’essere che cammina prima a quattro gambe, poi a due, infine a tre, è l’essere umano. Sapendo che cosa questo sia, Edipo libera gli esseri umani dalle potenze magiche che decidono in modo arbitrario e imperscrutabile del loro destino. Edipo è un re razionale, anzi, è re grazie alla ragione. Ebbene, proprio lui che, con il suo astuto sapere, aveva un giorno vinto la sfida col demone — proprio lui sarà costretto a pagare l’eccessiva vicinanza al demonico. Il demone si prende gioco di lui sollecitando, ora, la medesima volontà di sapere che, un tempo, gli consentì di avere la meglio sulla Sfinge. Un oracolo ha infatti detto che la peste è dovuta a un assassinio che è rimasto inespiato: il flagello non avrà fine, se non viene punito chi ha ucciso il re Laio, predecessore di Edipo, e marito di Giocasta. L’oracolo, la voce del demone, incita a scoprire la verità: è proprio uno come Edipo, quindi, quel che adesso occorre. Ma la verità su cui il demone attira astutamente l’attenzione si dimostrerà essere, per Edipo, una verità terribile. Era stato proprio lui, infatti, a uccidere Laio, senza sapere chi fosse, in occasione di una lite, accaduta per caso durante quel viaggio così propizio che lo aveva condotto a Tebe, dandogli modo di mostrare la propria abilità razionale e, così, di ascendere al trono. Ma di ciò, dell’imprevedibile, sinistra coincidenza di fortuna e sfortuna nella concatenazione degli eventi, Edipo non sa. Lo verrà a scoprire, per caso, mentre cerca di venire a capo della crisi che affligge di nuovo la città. A renderlo consapevole delle azioni terribili che egli ha inconsapevolmente compiuto, è, infatti, proprio la sua insistente e metodica inchiesta per scoprire chi è l’assassino. La conoscenza di sé stesso, che si compie mentre egli è intento a salvare sé e i suoi sudditi, lo indurrà infine a cavarsi gli occhi, a privarsi cioè della capacità stessa di conoscere.
È proprio la volontà di salvarsi, la volontà razionale di salvarsi, la razionalità applicata al controllo degli eventi, a esporre Edipo all’irrimediabilità degli eventi stessi. È il rimedio razionale a produrre l’irrimediabile: è questo il terribile gioco che, nella tragedia greca, gli dei di ieri giocano con gli eroi di oggi.
[Il tema dell’eroe è già stato affrontato su Carmilla da Luca Cangianti, Fabio Ciabatti (qui e qui), Mazzino Montinari, Maurizio Marrone e Gabriele Guerra]