di Associazione Antigone Emilia-Romagna
I decreti sulla Sicurezza delle città e sull’Immigrazione – recentemente emanati dal governo italiano con la firma del Ministro dell’interno Minniti – rispondono alla logica di contenere ed escludere una parte della popolazione.
La soluzione proposta si configura come risposta repressiva e semplicistica a fenomeni sociali complessi correlati, da un lato, a una gestione miope dei flussi migratori e, dall’altro, alla prolungata e intensa crisi economica e sociale che continua a produrre i soggetti marginali che risultano poi i principali destinatari di queste misure.
Questi decreti si pongono in continuità rispetto al delinearsi di un paradigma della sicurezza pervasivo e dannoso, ma allo stesso tempo evidentemente funzionale alle forze politiche – di destra e di sinistra – che cercano un riscontro rapido in termini di consenso elettorale.
Ma non è più solo quella della paura la logica organizzatrice delle misure qui proposte: riemerge la difesa del decoro.
I decreti in questo senso forniscono una nuova occasione di dibattito su alcune questioni fondamentali relative alla regolamentazione verticale degli spazi urbani e delle interazioni sociali che vi prendono corpo:
Chi definisce che cos’è uno spazio pubblico, chi ha diritto ad attraversarlo e chi ne può venire escluso?
Chi ha il potere di definire decoro e sicurezza?
Chi in definitiva ha diritto di parola rispetto a questi temi?
E’ sufficiente essere parte della cittadinanza che deve essere “rassicurata”?
Dopo alcuni anni di allentamento, sembra tornare in auge l’idea che la sicurezza urbana possa derivare dal mero abbassamento dei rischi (percepiti) di vittimizzazione da criminalità di strada, ottenibile con misure repressive e in alcuni casi attraverso misure di prevenzione situazionale1.
Questa narrativa, ormai classica, comprime il ruolo dello Stato all’interno di uno schema di rassicurazione autoritaria che si avvale in primis degli strumenti del penale e, sempre più, anche di dispositivi di matrice amministrativa, dall’assai rilevante portato repressivo e afflittivo.
Questi ultimi mirano ai disordini urbani e alle manifestazioni pubbliche di malcontento che affiorano ai confini della legge penale e sono spesso definiti “inciviltà”.
In questo senso le nuove politiche di sicurezza, infischiandosene delle cause di tali dinamiche sociali, dichiarano di fare affidamento su una ritrovata o rinnovata capacità della forza pubblica di sottomettere alla norma in maniera duratura soggetti e porzioni di territorio urbano considerati problematici.
Il discorso sulla sicurezza rivaluta senza remore la repressione e, stigmatizzando i giovani dei quartieri popolari, i disoccupati, i mendicanti, i senzatetto, i migranti, diviene paradigma di un governo che si legittima per la sua capacità di punire i poveri, identificati come naturali portatori di una pandemia di comportamenti sgradevoli e delitti minori che appesta la vita quotidiana.
Per costoro non sembra valere nemmeno la presunzione di innocenza. Compongono infatti una compagine sociale a limitata fruizione di diritti e garanzie: ecco una realizzazione dell’Europa a due velocità che anziché includere, promuovere, proteggere e integrare pone in essere vere e proprie politiche di segregazione ed esclusione sociale.
Il decreto in materia di immigrazione alimenta il meccanismo istituzionale di produzione di migranti ‘illegali’ ed ‘indeportabili’.
Le impronte digitali elettroniche, che dal 2016 vengono sistematicamente prese anche con l’ausilio della forza a tutti i migranti in arrivo, impediscono loro di presentare in altri paesi la domanda d’asilo.
Tale procedura si combina con i controlli più stringenti ai confini con Austria, Francia e Svizzera determinando una sorta di intrappolamento per i migranti giunti in Italia.
Nonostante l’ormai storica inefficacia delle pratiche di espulsione, il decreto ripropone la strategia già fallita: la nuova istituzione e costruzione di numerosi Centri di Permanenza per il Rimpatrio, l’ampliamento delle tipologie del trattenimento (non più solo destinatari di provvedimenti di espulsione bensì anche di respingimento) e delle tempistiche di permanenza (fino a 135 giorni per gli “ospiti” che passano dalla detenzione penale a quella amministrativa).
Questa misura, presentata come necessaria per il buon funzionamento del sistema dei rimpatri, sembra ignorare che meno del 50% del totale dei trattenuti nei vecchi C.I.E. veniva rimpatriato.
Il rischio più che concreto è che torni a crescere, in dimensioni e impatto, un circuito detentivo specifico per cittadini stranieri, deprivato perfino dalle garanzie minime del comparto penale.
In piena coerenza, è significativo che il decreto elimini il grado dell’appello nell’iter della richiesta d’asilo, rendendo il rigetto da parte delle Commissioni territoriali (che in prima istanza esaminano le domande) non reclamabile se non in Cassazione.
Il criterio della necessità ed urgenza è stato giustificato invocando la necessità di decongestionare le Commissioni a fronte dell’aumento delle domande (più di 80.000 nel 2016) e dell’incremento del numero delle impugnazioni giurisdizionali.
Tra il 2014 e il 2016 le Commissioni hanno rigettato il 56% delle domande di asilo, ma il 70% di queste sono state poi accolte in appello.
Eliminare l’appello significherebbe con ogni probabilità lasciare in futuro senza protezione internazionale decine di migliaia di persone che ne avrebbero diritto.
Infine, il decreto istituisce quattordici sezioni specializzate che accentreranno tutte le domande di esame avanzate nel territorio nazionale.
Tale disposizione lede il principio di prossimità della giurisdizione (ostacolando il diritto di difesa della parte) e non risolve il problema avanzato dalle medesime istituzioni circa il carico di lavoro degli ufficiali giudiziari coinvolti nelle procedure.
L’ipotesi che prende corpo è quella di un procedimento di primo grado fortemente intasato e, quindi, alternativamente, più lungo e farraginoso oppure più sbrigativo, con esiti verosimilmente meno favorevoli per i richiedenti.
In generale dunque, il decreto riproduce un modello ormai consolidato e fallimentare di gestione del fenomeno dell’immigrazione, pesantemente sbilanciato su meccanismi di filtro burocratici e poliziali.
Il decreto in materia di sicurezza, al di là delle frasi di rito, nega ai sindaci le risorse per implementare politiche sociali e servizi che diano risposta ai crescenti bisogni di larghi strati della società.
Attribuisce invece agli stessi, poteri di ordinanza in materia di ordine pubblico al fine di preservare il decoro urbano, inibendo la frequentazione di stazioni, porti, aeroporti e di ogni altro luogo di interesse turistico ad outsiders metropolitani, clochard, studenti, persone in stato di difficoltà.
Nel quadro complessivo della dismissione delle tutele solidaristiche, questi soggetti vengono individuati come categorie che sindaci e questori hanno l’onere di allontanare dalle zone urbane ritenute nevralgiche attraverso dispositivi più affilati.
Una operazione di chirurgia sociale intesa a tutelare, con necessaria urgenza, un bene giuridico che sarebbe costituito dalla tranquillità dei residenti, minacciata da quello che viene descritto come afflusso di persone di particolare rilevanza.
Nel luogo particolare della stazione ferroviaria o del trasporto pubblico, vige ad esempio un divieto di stazionamento soggetto alla sanzione amministrativa di una somma tra i 100 ed i 300 euro, ma questa è chiaramente la previsione più tenue.
Stazionamento ed occupazione sono condotte che, se reiterate a seguito di provvedimento di allontanamento e se considerate dal questore potenzialmente pericolose per la sicurezza, possono motivare il divieto di accesso ad uno o più luoghi fino a sei mesi.
Minorenne o adulto, se il soggetto ha subito una condanna nei cinque anni precedenti, potrà essere interdetto dalla frequentazione di quei luoghi per un tempo tra i sei mesi ed i cinque anni, con una compressione assai significativa e altamente discrezionale della libertà di movimento.
Previsioni specifiche sono dettate per le condotte di occupazione arbitraria di immobili, spaccio di sostanze, vendita abusiva di alcolici e di beni contraffatti, sfruttamento della prostituzione e accattonaggio.
In questi campi, forze di polizia e amministratori delle città vedono accresciuti i loro poteri operativi anche attraverso una notevole semplificazione procedurale.
I loro interventi potranno essere più agili e la sanzionabilità delle condotte più agevole e, ancora una volta, sottratta al controllo garantistico del sistema penale.
In sintesi, appare evidente il tentativo di orientare i principi di legittimazione di questi referenti istituzionali all’interno della cornice del potere di controllare, interdire e punire.
Rimangono tutte da dimostrare la necessità e l’urgenza di un decreto che mira a difendere decoro e sicurezza in ambito urbano, soprattutto considerando in che termini gli strumenti previgenti non fossero già più che sufficienti allo scopo.
Permangono inoltre perplessità circa l’esubero di discrezionalità verso una serie di condotte sanzionabili che non sembrano riferirsi alla lesione di beni e diritti, bensì alle specifiche caratteristiche socio-anagrafiche di soggetti precedentemente individuati, soprattutto in riferimento ai luoghi urbani che frequentano o attraversano.
Lo stazionamento e l’occupazione dei cosiddetti luoghi particolari sono infatti condotte la cui illiceità è di volta in volta stabilita dal questore sulla base del criterio della percezione di potenziale pericolosità: in assenza di criteri chiari, si immagina che tale individuazione sarà determinata dalle tradizionali logiche selettive delle agenzie istituzionali, che individuano in stranieri e marginali gli attori che portano le più serie minacce all’ordine cittadino.
Mancano i riscontri statistici di un aumento della delittuosità?
E’ forse più difficile agitare lo spauracchio della microcriminalità dilagante?
Non fa niente. La sicurezza integrata può prescindere da questi fastidiosi orpelli.
Le nuove possibilità di intervento discendono infatti dalla capacità (divinatorie?) dei settori dell’esecutivo e dei sindaci coinvolti di interpretare le insicurezze percepite dalla cittadinanza.
Le risposte previste evidenziano una vera e propria sovversione semantica della sicurezza integrata. Spariscono i riferimenti alla prevenzione sociale e la partecipazione dei cittadini è ammessa nella misura in cui sia coerente alle dinamiche di una gestione degli spazi urbani orientata all’esclusione.
Le strategie preventive situazionali spostano il baricentro dell’attenzione dalle cause dei comportamenti che si vogliono impedire ai contesti dove questi possono accadere. Introducono cambiamenti gestionali e/o ambientali per ridurre le opportunità e la convenienza nell’attuazione dei comportamenti indesiderati. Le strategie agiscono, per esempio, sull’apertura o chiusura degli spazi, sulla visibilità, sul controllo degli accessi agli edifici, sulle misure di allontanamento o dissuasione, sulla sorveglianza di individui o oggetti, sulla rimozione dei potenziali obiettivi, sull’eliminazione degli elementi di ‘gratificazione’ connessi al comportamento indesiderato (come la rimozione immediata di graffiti). ↩