di Alessandra Daniele
[Non contiene spoiler maggiori]
La settima stagione di The Walking Dead è stata lenta e stiracchiata da troppe digressioni inutili. Il budget è stato ridotto al limite della sopravvivenza. La serie ormai si svolge tutta fra baracche e discariche, e la CGI sembra fatta con Paint.
Il senso d’angosciosa impotenza, di paralizzante frustrazione che ha gravato come una cappa soffocante su tutta la stagione però è stata una scelta narrativa precisa, sensata, e interamente voluta.
Di tutti i nefandi antagonisti affrontati in questi anni dal gruppo dei sopravvissuti di The Walking Dead, Negan è infatti il più ostico, il più pericoloso, perché è quello che più somiglia allo Stato.
Il modo in cui riscuote i tributi, requisisce e (non) redistribuisce le risorse, assegna i ruoli, decide dei delitti e delle pene, reclama il monopolio assoluto dell’uso della forza, e soprattutto il modo in cui pretende adesione ideologica, identificazione: “Noi siamo Negan” è la sua versione di “Lo Stato siamo noi”.
I suoi prigionieri portano divise da carcerato. I suoi schiavi sono formalmente liberi di scegliere fra la schiavitù, e la morte.
Il suo primo raid ad Alexandria più che a una razzia somiglia a un pignoramento, uno sgombero, uno sfratto.
Gli interminabili comizi autocelebrativi che precedono le sue esemplari esecuzioni pubbliche hanno tutto il sinistro paternalismo dei discorsi ufficiali che anche in questi giorni abbiamo sentito così spesso.
I Saviours di Negan non sono una semplice gang, una tribù, sono uno Stato, anzi sono lo Stato.
Con la sua organizzazione sistematica, burocratizzata del sopruso, Negan fa qualcosa di peggio che rendere l’apocalisse più spaventosa, la normalizza.
Per Negan gli zombie non sono una minaccia, sono una risorsa.
Li utilizza come recinzione, come arma, come esercito di riserva.
Per Negan in fondo tutti, vivi o morti sono zombie allo stesso modo.
Negan è l’orrore quotidiano.
Negan è lo Stato.
E per batterlo a Rick e Michonne toccherà organizzare una rivoluzione.