di Anina Ciuciu
[Estratto dal secondo capitolo di A. Ciuciu, Sono Rom e ne sono fiera, Alegre Edizioni, 2016, pp. 205, € 15.00].
E poi finalmente, dopo una buona decina di giorni di viaggio tumultuoso, pericoloso e doloroso, arrivammo a destinazione. In quella fuga dovevamo aver percorso 1.500, 2.000 o 2.500 chilometri su stradine, evitando le dogane, correndo rischi pazzeschi.
Purtroppo non appena il motore si spense e le porte del camion si aprirono, i sorrisi si paralizzarono sui nostri volti. Di fronte a noi si estendeva una discarica disseminata di vecchi caravan rovinati dal tempo. Erano piazzati là, in mezzo ai rifiuti. Uno spesso fumo nero emergeva da lontano, un’alta colonna di fumo che saliva al cielo e oscurava l’orizzonte. I nostri occhi, ancora doloranti per l’essere rimasti così tanto tempo nella penombra, non percepivano che quei colori tristi e scuri. Io mi aspettavo il blu, il verde, il giallo. Il mio naso, che da giorni non respirava altro che i fetori nascosti solo da un foulard che mi ero messa sul viso, non distingueva il profumo dei fiori, delle arance, del sole. Al contrario, un tanfo acre mescolato all’odore di legna bruciata disgustava le mie narici. Eravamo arrivati e bisognava scendere li, su quel pezzo di terra sporca, polverosa e inospitale. Fine della mia speranza di vedere un po’ di vegetazione.
Riesco ancora a sentire l’autista del camion ordinare: «Tutti devono scendere, siete arrivati. Dai, muovetevi, ho altro da fare!».
Eravamo appena arrivati in Italia, nella periferia di Roma. La località esatta si chiamava Casilino 900. Casilino 900: un accampamento squallido, il posto in cui sbarcavano i rom, i candidati all’esilio, il posto in cui i passeur corrotti scaricavano le loro prede.
Se alla partenza dalla Romania avessero detto a mio padre che il nostro viaggio ci avrebbe portati in quel posto, non ci avrebbe mai fatti salire sul camion. Mio padre non aveva pagato quella somma colossale per ritrovarsi là. I miei genitori non avevano speso tutti i loro risparmi e una parte di quelli dei miei nonni per arenarsi in quel luogo di miseria, lontano dalla tanto sperata Francia.
Ma il passeur non volle sentir ragioni. Era stato incaricato di portare tutti quanti là, come faceva ad ogni viaggio, e doveva ripartire al più presto per ricaricare altri candidati al sogno occidentale.
Vedendo quel posto immondo mi misi a piangere. Non avevo mai visto una simile miseria, una tale desolazione. Quando ci ripenso, mi dico che effettivamente non ho mai conosciuto niente di peggio.
Era un’immensa discarica con rifiuti ovunque. E quando dico ovunque, soppeso le parole: non solo ricoprivano il suolo, ma ve n’erano appesi ai tetti, altri volavano nel vento.
Tra le carcasse di auto abbandonate, le assi dei pallet e i detriti di ogni genere erravano delle galline, dei galli, dei cani, dei ratti, dei bambini.
A dispetto di ogni attesa e speranza, eravamo appena arrivati nel più grande e antico campo rom d’Europa.
Ci vivevano rom rumeni, serbi e altri ancora, cacciati dai Balcani o in fuga dalla guerra. Era come una città, o meglio una baraccopoli in cui ognuno viveva in condizioni deplorevoli e disumane.
Qui, senza nessuna sistemazione, si succedevano vecchi caravan malandati, spesso appoggiati direttamente al suolo, e delle specie di case costruite con assi di legna, pezzi di plastica e vecchi cartoni. C’erano anche vecchie roulotte senza finestre. Sui tetti delle baracche erano state impilate delle gomme d’auto per evitare che tali precarie strutture volassero via.
Ogni caravan, ogni riparo di fortuna era generalmente marcato con un numero scritto a mano o con una bomboletta, affinché le persone potessero orientarsi in quell’immenso territorio situato ad appena dieci chilometri dal Vaticano.
Non appena pioveva si riempiva di fango.
Non appena il clima diventava caldo e secco, una polvere rossa e ocra invadeva tutto. E c’erano ovunque ratti che correvano e mi terrorizzavano.
Non rispecchiava per niente l’immagine del paese straniero fantastico che avevamo dipinto nei nostri sogni più remoti. Era come se il quadro che avevamo in testa partendo dalla Romania si fosse disintegrato in mille pezzi. L’immagine del paese straniero accogliente e verdeggiante che avevamo sognato stava affondando davanti ai nostri occhi.
Dal primo giorno, da quando mettemmo piede in quel campo, iniziammo a piangere. Tutti piangevamo e volevamo rientrare, tornare nella nostra terra. Lì era ancora più miserabile che in Romania.
Poi arrivò mio zio Vasile. Finalmente un po’ di conforto, finalmente qualcuno di conosciuto. Con i figli abitava in quel campo da diversi mesi.
Anche lui aveva provato la nostra stessa esperienza. Anche lui era stato fregato dai passeur che evidentemente non gli avevano detto che il sogno si infrangeva lì, sulle carcasse dei caravan del Casilino 900.
Anche lui aveva pianto arrivando su quell’ampio terreno delimitato da reti metalliche, sulle quali pendevano sacchi di plastica rotti, pezzi di fili, scarpe vecchie…
Vasile in pochi mesi era cambiato. Sembrava segnato dal tempo. Anche i suoi figli, i miei cugini, erano cambiati tanto. Avevo l’impressione che fossero cresciuti troppo in fretta, e che in quel luogo ostile la vita non gli avesse risparmiato nulla, che tutto fosse più complicato che a Hanul Rosu.
Avevo ragione.
La prima sera ci ospitò nel suo caravan. Stavamo un po’ stretti ma eravamo contenti di ritrovarci, dopo tutto quello che avevamo appena vissuto.
Per tutta la sera, attorno a un fuoco, raccontammo loro il nostro viaggio, l’incidente, il ritorno a Timisoara, il camion, il campo minato. Vasile aveva avuto meno problemi con il suo passeur, che li aveva portati senza intoppi in Italia.
L’indomani ci trovò un caravan che era stato da poco abbandonato da dei rom che avevano deciso qualche giorno prima di partire per tentare di arrivare in Inghilterra. Dovemmo comprarlo dal capo del campo, colui che gestiva tutto, i problemi degli uni e le richieste degli altri.
Ricordo ancora quell’uomo quasi calvo, dal viso marcato, girare nel campo con la macchina fermandosi ogni qualvolta qualcuno lo chiamasse. Sempre seduto al volante, discuteva a lungo con un padre di famiglia, una donna, un vecchio signore.
Ogni tanto prendeva il telefono e parlava a voce alta. Qualche volta in romaní, qualche volta in un’altra lingua che non conoscevo. Sembrava fosse italiano, e che stesse negoziando delle cose per tutta la comunità: permessi di soggiorno, lavoretti, richieste di aiuto o di asilo.
Ma gestiva anche e soprattutto gli arrivi e le partenze dal campo: era in contatto permanente con i passeur che arrivavano dall’est e con quelli che aiutavano i candidati per la Francia o l’Inghilterra.
Tutto all’interno del campo passava attraverso di lui. Bisognava accettarlo, piegarsi.
Non fu facile all’inizio, perché ci fu qualche tensione tra lui e mio padre. I miei genitori non erano i benvenuti qui dal momento che prendevano il posto di qualcun altro, di un’altra famiglia il cui arrivo era previsto qualche giorno più tardi.
Ma mio zio, che aveva rapidamente saputo imporsi nel campo, aveva fatto da intermediario e aveva convinto il capo spiegandogli che avrebbe dovuto dare un tetto a suo fratello, che non avrebbe causato problemi. Credo anche che sia stato Vasile a prestarci i soldi per comprare il caravan, dato che mio padre aveva speso tutto per il viaggio.
Col passare dei giorni cercammo di sistemare al meglio il caravan, in qualche modo, con delle tavole, dei ritagli di moquette e qualche coperta.
Avevamo il numero 56.
Dei sacchi blu dell’immondizia ricoprivano i vetri rotti della facciata, e sul tetto c’erano tre grossi pneumatici e una trave metallica arrugginita.
All’interno non c’era nient’altro che un grande letto. La maggior parte del tempo dormivamo tutti insieme. Ad ogni modo era impossibile dormire altrove, il pavimento era perforato in più punti e minacciava di cedere. Non appena mio padre trovava un pezzo di tavola lo adagiava al suolo per evitare che ci ferissimo.
Era molto rudimentale. Non c’era alcuna comodità, nessuna attrezzatura. Disponevamo solo di un piccolo fornelletto a gas posato su un tavolo di plastica, fuori, sotto la tettoia, dov’erano sistemati anche un vecchio tavolo traballante e qualche sedia.
Nel caravan, per quanto tentassimo di rendere lo spazio vivibile, l’alloggio rimaneva insalubre. Per lavarci scaldavamo l’acqua in una bacinella. C’era un’unica fontanella per tutto il campo e le ottocento persone che ci vivevano. Inutile precisare che non usciva sempre acqua potabile dal rubinetto e, quando ce n’era, bisognava fare la coda.
Quanto ai servizi igienici, erano semplicemente inesistenti. Per fare i propri bisogni bisognava andare lontano, alla fine del terreno, dietro le pile di rifiuti.
L’odore era insopportabile, puzza di marcio, di rancido; un fetore che penetrava ovunque e restava attaccato.
Nel campo c’erano cani randagi ovunque. A notte fonda ululavano alla morte, facendo eco al vecchio signore che ogni sera tirava fuori il suo violino per suonare delle tristi melodie zigane.
Ho cercato il più possibile di cancellare questo periodo dalla mia memoria, di non pensarci mai più, di non parlarne. D’altronde nessuno tra tutti coloro che mi conoscono oggi sa quello che ho vissuto in quel campo.
Nessuno sa la vergogna che provo per l’aver vissuto tutto questo.
È la prima volta che racconto queste cose. Non so se mi faccia bene parlarne adesso ma, in qualche modo, mi conforta l’idea di sapere da dove vengo e attraverso cosa sono passata per diventare quella che sono oggi.
A quell’epoca evidentemente non la pensavo così. Mi detestavo, volevo andarmene da lì, fuggire, andare in Francia.
Ma era impossibile. Per riuscirci i miei genitori dovevano trovare dei soldi, c’era bisogno di tempo per riprenderci e cercare di ripartire dignitosamente da quel campo che esisteva da molti anni e che era stato occupato, prima di noi rom, da immigrati arrivati dal sud dell’Italia e dalla Sicilia. In poco tempo quelle popolazioni erano state sistemate in alloggi sociali. Fu allora che i gitani occuparono il posto e poi, negli anni successivi, decine di famiglie venute dalla Romania e dall’Ex Jugoslavia si installarono sui sei ettari del campo.
Finiti là, o dovrei dire naufragati, in quell’estate del 1997, avevamo un solo scopo: partire al più presto e sopravvivere. Sopravvivere a tutto. Il che implicava trovare di che nutrirsi e restare in buona salute. La salute era un problema costante, eravamo spesso malati. Avevamo infezioni che non guarivano.
Ogni tanto dei camioncini di associazioni umanitarie entravano nel campo per distribuire gratuitamente le medicine. Le persone facevano la coda davanti al camioncino, una lunghissima attesa per ottenere chi una crema, chi un cerotto, chi una pastiglia…