di Roberto Carocci
Renato Curcio (a cura di), L’egemonia digitale. L’impatto delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro, Sensibili alle foglie, 2016, € 16,00.
L’impatto delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro assume i contorni di un cambio epocale; per averne una stima quantitativa, il World Economic Forum di Davos calcola che in Italia, tra il 2015 e il 2020, questo comporterà la perdita del 48% dei posti di lavoro. In un tempo brevissimo, assisteremo dunque a un processo di desertificazione occupazionale con tutte le conseguenze del caso, come la generalizzata riduzione salariale e la scomparsa definitiva di figure professionali che ritenevamo ormai consolidate.
È un mutamento così rapido da mettere in seria difficoltà la nostra capacità di percepirlo, difficoltà che si riflette anche sul piano istituzionale dove, per fare un esempio dalle cronache recenti, lo stesso legislatore non sa dove collocare un’agenzia come Uber, indeciso fino al parossismo se considerarla un’azienda di trasporto o un’impresa digitale. La trasformazione in corso concerne l’insieme del mondo produttivo, dalle professioni tecnico-operaie, sempre più scavalcate dalla robotica, a quelle impiegatizie e cognitive, fino a comprendere anche le nobili professioni liberali dell’avvocato o del medico.
Questa metamorfosi è di tale entità da investire la stessa idea di progresso, almeno per come l’abbiamo fin qui concepita. Come segnala Renato Curcio, lo stesso Marx ha mostrato una certa ambiguità nel descrivere l’affermazione della modernità industriale. Nel Frammento sulle macchine, queste sono considerate strumenti utili a una riduzione dei tempi di lavoro, determinando, quindi, la liberazione dei tempi di vita e, più generale, un miglioramento delle condizioni facendo coincidere il progresso tecnico-industriale con quello sociale. D’altronde, l’interpretazione di Marx corrisponde a un immaginario diffuso tra le diverse tendenze del movimento socialista storico. Anselme Belleguarrigue, nel suo Manifesto del 1850 (considerato il primo manifesto complessivo dell’anarchismo),1 non fa affatto mistero di comprendere le possibilità della realizzazione dell’utopia libertaria nell’affermazione della società industriale. Pochi decenni dopo, Errico Malatesta, nel suo scritto forse più noto e di certo più tradotto e diffuso al mondo, Fra contadini, non si discosta dall’impostazione marxiana affermando anch’egli quanto le innovazioni tecniche, nella loro riappropriazione da parte dei produttori, comportino una riduzione dei tempi e delle fatiche del lavoro, in cui le macchine diventano «la causa principale del benessere umano».2 Alla fine del secolo XIX, il marxista eretico e teorico del sindacalismo rivoluzionario, Georges Sorel, individua nella “critica delle macchine” lo strumento per una più efficace conoscenza della natura, giacché ne permette sia un maggiore controllo sia la verifica dei rapporti esistenti tra questa e l’essere umano.3
Ancor più suggestive, finanche inquietanti, sono le successive note sull’Americanismo di Antonio Gramsci che arriva a considerare l’industrializzazione forzata proposta da Trotsky nella repubblica sovietica come un «principio coercitivo giusto» e a salutare l’affermazione della grande industria capitalista negli Stati Uniti come il «maggiore sforzo collettivo finora creatosi per creare con una rapidità inaudita… un nuovo tipo di lavoratore e di uomo». Nell’esigenza tecnica è così individuato un elemento di coincidenza degli interessi delle classi dominanti e di quelle subalterne, tanto da portare lo stesso Agnelli a proporre ai comunisti torinesi – che tuttavia rifiutarono – di assorbire nella Fiat la scuola economica dell’Ordine Nuovo. Gramsci va però oltre. L’«automatismo» industriale si traduce in una strana idea di «libertà di gruppo» contrapposta all’individualistico libero arbitrio, mentre l’«adeguamento forzato del modo di vita al modo di produzione» indirizza alla creazione, addirittura, dell’uomo nuovo. Il progresso industriale si fa così principio educativo, in forza del quale è possibile non solo il miglioramento sociale bensì una ridefinizione della stessa natura umana.4
Questi pensatori socialisti avevano ben chiaro il dramma dell’impatto delle macchine sul mondo del lavoro, ma individuavano un elemento di reale identità tra progresso tecnico e progresso sociale che, in effetti, non poteva essere dissimulato. Per fare alcuni esempi, l’introduzione della trebbiatrice a vapore nelle campagne alla metà dell’Ottocento ebbe di certo conseguenze catastrofiche, con un drastico innalzamento della disoccupazione, la dequalificazione delle maestranze e un generale ribasso dei salari. Al tempo stesso, le nuove tecniche agricole presupponevano un sicuro vantaggio sociale, come la possibilità di sfamare più persone in tempi più brevi e a costi più contenuti. Allo stesso modo, l’introduzione della linotype nelle stamberghe tipografiche alla fine del secolo, presentò gli stessi identici problemi, ma restituiva la possibilità di produrre più libri, di migliore fattura e a costi minori. E così si potrebbe continuare per l’introduzione del telaio meccanico nel comparto tessile ecc. Sfamare le persone, la lavorazione del libro (forse l’attività produttiva più preziosa conquistata dalla specie umana) rappresentano nel modo migliore l’esistenza di un’effettiva coincidenza tra progresso tecnico e progresso sociale.
Oggi, questo non è più vero. Il lavoro di ricerca coordinato da Curcio svela un mondo in veloce e irriducibile mutamento. Per come è posto, il problema non è rifiutare la modernità digitale o cercarne un utilizzo più o meno positivo, bensì comprendere quale sia la natura di tale trasformazione che sottende la definitiva rottura di ogni relazione tra innovazione tecnica e miglioramento sociale. Il dibattito su voucher e precarietà sta a indicare proprio questo tipo di frattura, che nessuna forma di elargizione statale di un reddito separato dal lavoro, per quanto auspicabile, può in alcun modo ristabilire. Sembrerà un paradosso, ma, non a caso, nel momento di massimo avanzamento tecnologico del mondo produttivo assistiamo al più grande fenomeno di arretramento dei rapporti di lavoro, caratterizzati dalla loro generalizzata de/contrattualizzazione (la cosiddetta precarietà), fino a tornare a precapitalistiche forme settecentesche di economia morale.
L’immissione delle nuove tecnologie irrompe in tutti i ranghi professionali nonché in tutti gli aspetti dei rapporti produttivi. Il controllo sociale e disciplinare, la dequalificazione generalizzata, l’inceppamento dei meccanismi di trasmissione del know-how, il ribaltamento del rapporto gerarchico tra lavoratore/trice e strumenti del lavoro, la drastica riduzione delle garanzie di salute e sicurezza come dell’autonomia individuale, la molecolarizzazione dei rapporti sociali come il ridisegnarsi del rapporto tra servizio pubblico e impresa privata, costituiscono i tratti di una ridefinizione in cui il lavoro si presta quale laboratorio complesso di un processo estensivo, se pure ancora iniziale, che investe la vita tutta, anche al di là del solo momento produttivo.
La ricerca curata da Renato Curcio e dalle persone che con lui hanno collaborato nei due cantieri da cui prende le mosse L’egemonia digitale permette di addentrarci in queste trasformazioni e nella ferocia del capitalismo coevo, illustrandone in profondità i presupposti già agenti dei suoi assetti futuri.
Anselme Belleguarrigue, Manifesto, Altamurgia, 1975, passim. ↩
Errico Malatesta, Fra contadini, Ortica, 2011, p.17. ↩
Cfr. George Sorel, Scritti politici e filosofici, Einaudi, 1975; in particolare, le note introduttive di Giovanna Cavallari, p. XVII. ↩
Cfr. Mario Alighiero Manacorda, Il principio educativo in Gramsci. Americanismo e conformismo, Armando, 2015, passim. ↩