di Simone Scaffidi
Viñales. Ringraziamo Eloy per l’ospitalità, per le chiacchiere e per le due bottiglie di rum Santiago provenienti direttamente dalla fabbrica. Arrivati all’autostazione compro il Granma e un settimanale. Qui a Cuba non ci sono le edicole, il giornale lo si vende e compra per strada. Il viaggio scorre tranquillo e dopo una breve sosta a Las Terrazas, uno storico villaggio eco-sostenibile, ripartiamo in direzione Viñales. Ci stiamo addentrando nella natura dopo la bellissima esperienza urbana habanense.
Popstars. L’arrivo è scioccante. Non siamo ancora scesi dall’autobus che un’orda di donne sventolanti cartelloni assediano il mezzo. Sono lì solo per noi, l’autobus Via Azul è una cassaforte da scardinare e noi siamo dollari che camminano. Ci sentiamo popstars tra le più commerciali e in effetti siamo merce a tutti gli effetti. Carne da macello, capi che portano ricchezza a chi ha un potere d’acquisto destinato a coprire solo l’indispensabile. Qui si vive di prodotti della terra. I supermercati come li pensiamo noi non esistono, tuttalpiù ci sono piccole botteghe mal fornite. La scelta è ridotta e la spesa non si fa. I prodotti sono sempre gli stessi.
Assalto. Urlano. Alcune sillabano parole in inglese. Prendere lo zaino è un’impresa, ne abbiamo quattro addosso, non ci mollano un secondo. Una signora sulla quarantina ci assilla con insistenza e non accenna a desistere nemmeno dopo un secco rifiuto delle sua offerta. La motivazione principale della nostra diffidenza è l’intolleranza che nutriamo nei confronti di un’invadenza che percepiamo fuori dal normale. Eppure tutto è fin troppo giustificato dai simboli che ci portiamo sulle spalle, stampati sui nostri visi pallidi. Un’altra ci attacca da destra, ora ci contendono. Si lanciano occhiate. Con movimenti rapidi e nervosi sgattaioliamo via dalla folla inferocita e guadagniamo l’aria aperta. Un silenzio allietante invade le nostre orecchie, il tempo di pochi passi. Ci ha visto, ma ci lascia respirare un attimo e poi con calma si avvicina. La guardiamo esausti. È una donna in carne afrodiscendente, porta occhiali a specchio, inizia a parlarci piano, con voce pacata. Ha un altro stile rispetto alle donne che fino a pochi secondi fa tentavano di conquistarci. È più furba. Ci convince a dare un’occhiata a casa sua ma senza impegno. La sua carta vincente è sulla soglia di casa che ci aspetta: una nonnina sdentata ma sorridentissima con la faccia scavata dalle rughe. Capelli bianchi raccolti in una coda, carnagione nera. La contrattazione fa crollare il prezzo della stanza, strappiamo anche la colazione inclusa. A volte ci chiediamo come facciamo a non vergognarci neanche un po’, poi le giustificazioni arrivano a valanghe. Posiamo gli zaini a terra e ci riposiamo sorseggiando il succo d’ananas offerto dalla nonna. Siamo impazienti di scoprire le campagne di Viñales, consigliateci da Cecilia e Alberto.
Puros. C’incamminiamo lungo una strada asfaltata che si snoda tra campi di tabacco e secaderos. L’hotel Jasmin dista due chilometri in salita dal centro di Viñales, lassù dicono si goda di una vista mozzafiato sulla vallata. C’incantiamo osservando una delle immagini più belle della giornata: un signore anziano domina due buoi enormi che arano il suo campo brullo. Non avevo mai visto un aratro a mano, o forse l’avevo visto ma quest’immagine mi colpisce più delle precedenti. Il sole è cocente, la terra scura e il verde degli alberi abbraccia il pezzo di terra del vecchio. Lui porta un cappello di paglia in testa e ha la pelle bruciata dal sole. La seconda immagine degna di appunto è un coltivatore di tabacco con sigaro in bocca, anche lui cappello di paglia sulla testa. Ci viene incontro facendosi largo tra le foglie verdi del suo campo e ci invita a visitare il suo secadero. Qui centinaia di foglie di tabacco aspettano di essere lavorate con il miele per dare vita ai rinomati puros cubani. Il 90% della produzione di tabacco, ci racconta il campesino, si vende allo Stato. Il restante 10% si vende in proprio. Sappiamo benissimo, dal primo istante che ha alzato il cappello per salutarci, che vuole venderci i suoi sigari. Finalmente entriamo nella casetta di legno adibita a secadero e subito veniamo avvolti da un intenso e piacevolissimo odore di tabacco. Centinaia di foglie pendono sulle nostre teste, alcune sono più secche, altre da poco raccolte. Il campesino non esita a offrirci boccate del sigaro che tiene stretto tra i denti: fumiamo con lui il nostro primo sigaro cubano. Purtroppo non vantiamo grandi saperi sul mondo dei sigari, ci guardiamo e concordiamo senza troppa convinzione: molto buono e non eccessivamente forte. Lo comunichiamo al campesino che ci spiega come, incidendo e scartando la nervatura centrale della foglia, si privi il sigaro di quella che lui chiama nicotina, rendendolo meno aspro in gola. Non contento della sua spiegazione orale afferra due foglie di tabacco e ci da una dimostrazione pratica dell’incisione della nervatura e della rollatura di un sigaro. Pensavamo fosse un procedimento più complicato, lui in pochi secondi ne gira uno e ce lo porge, ricordandoci che le foglie che sta usando non sono state ancora trattate col miele e dunque non è ancora possibile fumarlo.
Mogotes. Gli compriamo una ventina di sigari che avvolge con gesti rapidi in foglie di palma. Usciti dal secadero sediamo con la sua famiglia in una delle onnipresenti sedie a dondolo che invadono Viñales. Ogni casa, anche la sua, ne vanta tre o quattro, poste all’ingresso che guardano l’esterno. Intorno a noi galline, cani e pulcini. Un amico del campesino prende un pulcino tra le mani e ce lo porge sorridendo, commentando la rapidità del battito cardiaco. Chiacchieriamo con loro e accarezziamo il cane, visibilmente provato dalla giornata afosa. Provano a venderci anche un tour a cavallo ma rifiutiamo la proposta, li ringraziamo per l’ospitalità e per i sigari e proseguiamo il cammino in salita. La strada è asfaltata e di tanto in tanto sfreccia qualche autobus di turisti. L’asfalto ci dà noia ma tutto quello che si apre ai suoi fianchi non può che spingerci a dimenticarlo. Più saliamo e più la vallata si apre. Arrivati in cima assistiamo allo spettacolo silenzioso della Valle di Viñales, prontamente interrotto dal vociare dei turisti, cappellini bianchi e reflex al collo. Sono appena scesi dall’autobus e un magnetismo degno di Metallo Urlante li attrae in massa verso il piccolo mercatino mangia-gringos al lato dell’hotel. Non contenti di comprare magliette del Che, scatolette di legno e sigari quaranta volte più cari di quelli del campesino che abbiamo incontrato qualche centinaio di metri più a valle i gringos d’assalto pagano per farsi fotografare in sella a una vacca tenuta al lazzo da un guajiro locale. Risate fragorose condiscono la scena anche se le loro eco non rimarranno impresse nella buffona istantanea. Il panorama è incredibile, ci sediamo sotto il sole ad ammirarlo. I mogotes, dominano la verde piana e i loro profili morbidi e tondeggianti proiettano ombre sinuose sui campi colorati. Avevano ragione Cecilia e Alberto, Viñales ha qualcosa di speciale.
A casa ci aspetta la cena di Nanà, la mamma di Mabel, la nonnina che ci ha conquistato al nostro arrivo. Ha fama di essere una cuoca provetta. La tavola, imbandita per noi, presto si colora di tortillas di patate, pomodori e cetrioli freschissimi, congrí – riso e fagioli rossi –, zuppa di verdure, patate dolci, banane, ananas e succo di mango. Le porzioni sono davvero abbondanti, rimaniamo soddisfatti della cena anche se avremmo voluto mangiare in compagnia di Mabel e Nanà. Mabel insiste per preparaci un mojito, accettiamo. Dopo cena ci stravacchiamo sulle immancabili sedie a dondolo di ferro battuto o legno. Queste, poste proprio davanti alla nostra camera, sono dipinte di bianco e arrugginite dal tempo. Siamo distrutti, quasi ci addormentiamo cullati dall’arietta fresca che tira. Davanti a noi scorre la vita quotidiana di una strada secondaria di Viñales: si alternano carretti trainati da cavalli a ragazzine agghindate dirette alla piazzetta centrale. Accendiamo il primo sigaro del nostro viaggio cubano. «Più naturale di questo non ce n’è» ci ha assicurato Ramon, il campesino che ce l’ha venduto. Il gusto è buono e intenso come quello provato nel secadero. Ci rilassa fumare, dondolare e guardare il fumo che esce dalle nostre bocche. Il fumo si confonde con le nuvole che rapidissime sfrecciano davanti a una luna luminosa e incompleta. Il corpo su una sedia e i piedi sull’altra. Intrecciati. Aria fuori, aria dentro. Espira, inspira.