di Sandro Moiso
“Soltanto il passato appare veramente necessario, perché non vi si può togliere né aggiungere nulla. Ma il passato è veramente necessario?” (Georg Lukács – L’anima e le forme, 1911)
A volte lavorando sull’immaginario si riescono a fare straordinarie ricostruzioni di come mentalità e convinzioni, pur appartenenti a contesti storici e culturali apparentemente molto diversi e lontani, vadano inconsapevolmente uniformandosi tra di loro. Per questo può rivelarsi importante procedere ad un lavoro di disincrostazione delle certezze e delle conoscenze che spesso vengono date troppo facilmente per scontate sia in ambito politico che culturale.
Così procedendo nella ricostruzione del percorso di formazione dell’immaginario di una classe operaia, quella americana, che dall’essere stata una delle più combattive, a cavallo tra XIX e XX secolo, si è trasformata in un bel serbatoio di voti e di fiducia per un presidente dalle indubbie tendenze fascistoidi, è quasi impossibile non fare incrociare la storia leggendaria di un operaio nero della fine dell’Ottocento, John Henry, con quella di un eroe del lavoro sovietico degli anni del trionfo dello stalinismo: Aleksej Grigor’evič Stachanov.
Aleksej Grigor’evič Stachanov,1 fu un minatore sovietico che lavorò nelle miniere di carbone della regione di Donbass. Nel 1935 divenne famoso per aver messo in atto un nuovo metodo di estrazione del carbone: eseguendo egli stesso il lavoro specializzato del “taglio” del carbone ed utilizzando i propri compagni per il trasporto del minerale sui carri, riuscì ad aumentare la produttività della squadra di lavoro fino a quattordici volte, arrivando a raccogliere102 tonnellate di carbone in 5 ore e 45 minuti proprio il 31 agosto di quell’anno.
Il governo sovietico diede enorme risalto al suo metodo che fu così adottato in altre miniere, mentre Stachanov fu celebrato come “lavoratore modello” e fu nominato, ancora nel 1970, Eroe del lavoro socialista ed era diventato membro del Partito Comunista dell’Unione Sovietica fin dal 1936. Da lui ebbe origine lo stacanovismo, volto ad aumentare la produttività dei lavoratori incoraggiandoli sia a livello propagandistico che tramite incentivi. Lo stesso Stachanov, infatti, intraprese una carriera che lo portò a diventare direttore e assistente capo ingegnere di impianti minerari fino al pensionamento nel 1974.
John Henry è invece un eroe del folklore operaio ed afro-americano degli Stati Uniti. Si narra che egli abbia lavorato come operaio nella costruzione delle ferrovie e che il suo compito fosse quello di scavare con il suo martello la roccia per preparare i fornelli in cui si facevano brillare le mine destinate a spaccare le rocce durante la costruzione delle gallerie. Secondo la leggenda, per misurare la sua abilità e la sua forza nello spaccare le rocce con il suo martello, egli volle sfidare in una gara una delle prime trivelle azionate a vapore per vedere chi riuscisse a scavare più roccia a parità di tempo.
Una gara che egli vinse morendo, però, subito dopo per un collasso cardiaco causato dallo sforzo eccessivo. L’immagine di John Henry morto, con la mazza di ferro ancora fortemente stretta nel suo pugno è rimasta nell’immaginario ed è stata trasposta, come tutta la sua vicenda, in una classica canzone folk che è stata tramandata in tantissime e, spesso, non poco differenti versioni.2
La sua storia è entrata tanto nella narrativa orale che nella letteratura, nel teatro popolare ed è stata anche il soggetto di numerosi fumetti e film di animazione, di cui uno prodotto dalla Disney ancora nel 2000; mentre numerose località vantano ancora, a più di un secolo di distanza, il primato di aver costituito il reale contesto in cui si svolse la sfida prometeica tra l’operaio afro-americano e la macchina. Tra queste basterà qui ricordare il Big Bend Tunnel in West Virginia, il Lewis Tunnel in Virginia e il Coosa Mountain Tunnel in Alabama.
L’operaio russo ha una data di nascita, 3 gennaio 1906, e una di morte, 5 novembre 1977, riconosciute. John Henry è vivissimo nella cultura popolare, ma non si sa nemmeno se sia davvero esistito e dove abbia realmente compiuto le sue gesta. Entrambi però costituiscono i cardini di una cultura operaista in cui il lavoratore rappresenta la forza della Nazione e di un Popolo, orgoglioso di dare tutto se stesso, anche la vita, per dimostrare il proprio valore. Valore che, guarda caso, si confonde sempre con quello che è possibile trarre marxianamente dai suoi muscoli e dalla sua intelligenza.
Sarà per questo motivo che, nel 1996, le poste degli Stati Uniti hanno dedicato a John Henry un francobollo da 32 centesimi, insieme ad altri tre dedicati ad altrettanti eroi del folklore americano: Pecos Bill, Paul Bunyan e Mighty Casey. Rispettivamente un cow-boy, un boscaiolo e un ferroviere. Come dire: la nostra epica si fonda sul lavoro e sui lavoratori.
Senza essere, tra l’altro, neppure troppo distanti dall’ex-nemica URSS-Russia. In cui per ricordar Stachanov nel 1936, nella città sovietica di Donec’k fu fondata una squadra calcistica con il nome di Stachanovec’ in suo onore, mentre ancora nel 1978 la città ucraina di Kadievka prese il nome di Stachanov. Sempre negli anni Trenta il settimanale Time gli dedicò una copertina indicandolo come il grande eroe dello stakanovismo, mentre la miniera Tsentralnaja-Irmino, in cui Stachanov aveva compiuto le sue gesta, fu a lungo segnalata su tutti i libri di storia delle scuole sovietiche.
“Lavoratori eroici” entrambi, Stachanov e John Henry portano indelebile le stimmate della schiavitù salariale; stimmate che, come nei peggiori oggetti di culto cattolico-romani, testimoniano la santità di chi le porta e, per riflesso, del lavoro coatto. Se, però, la figura di Stachanov è tutta compresa all’interno dell’immagine di “Stato operaio” e di socialismo “in un solo paese” che l’apparato staliniano voleva trasmettere nell’immaginario proletario russo e mondiale proprio negli anni delle grandi purghe, nel mito di John Henry è ravvisabile anche qualcosa di peggiore.
Dei quattro eroi americani celebrati dalla serie di francobolli dedicata ai “folk heroes”, John Henry è l’unico afro-americano. Come tale però si trova a metà strada tra lo schiavo e il proletario. Una figura di transizione che affonda le sue radici in quel momento di passaggio dell’economia statunitense tra una funzione eminentemente esportatrice di materie prime (cotone e tabacco) ancora basata su un’organizzazione del lavoro basata sullo schiavismo e il latifondismo ed una preminentemente industriale e, poi, finanziaria. In cui il plusvalore si estrae principalmente dalla forza lavoro operaia.
Questo passaggio avviene nei decenni successivi alla Guerra di Secessione, che tutto fu tranne una guerra di liberazione degli schiavi africani. Sono gli anni in cui si situa la leggenda di John Henry, a metà strada tra schiavo e proletario,3 in cui la coscienza dell’essere popolo americano deve essere diffusa tra le masse, indipendentemente dal colore della pelle e dalla collocazione di classe. In fin dei conti proprio la guerra civile aveva costituito l’ultimo passaggio per raggiungere l’indipendenza economica definitiva dall’ex-madre patria inglese.4
In questo modello immaginario lo schiavo nero deve passare dal lavoro nelle piantagioni a quello nelle ferrovie, nelle miniere e nelle fabbriche senza modificare troppo le sue pretese. Deve essere soddisfatto di non dover più fornire obbligatoriamente il suo sudore ad un unico proprietario, ma di poter vendere la sua forza lavoro in libertà ad imprenditori diversi. Punto e fine. La libertà degli ex-schiavi inizia e finisce lì. E possono essere contenti quando, ammazzandosi letteralmente di fatica, possono raggiungere l’empireo del folklore americano.
D’altra parte l’andamento della canzone riportata precedentemente in nota è ancora quello della work song più che del blues. Le stesse work song che per decenni, e forse ancora oggi, erano cantate nelle chain gang di detenuti neri condannati ai lavori forzati.5 Il più famoso interprete e testimone di quella memoria popolare trasmessa attraverso il canto fu proprio Huddie William Ledbetter, in arte Leadbelly, che, rinchiuso nel Penitenziario di Stato della Louisiana fin dal 1930, fu qui scoperto, nel luglio 1933, da John Lomax, etnomusicologo, e suo figlio Alan.
Viaggiando attraverso il sud per conto della Library of Congress per raccogliere e registrare le ballate tradizionali, tramandate fino ad allora solo per via orale, i due scoprirono che le prigioni del sud degli U.S.A. costituivano i luoghi più fertili per reperire canzoni di lavoro, ballate, spiritual e canti tradizionali. Grazie a loro Leadbelly riuscì ad uscire dal carcere e ad incidere successivamente numerosissimi dischi di musica folk (bianca e nera), spesso in compagnia di artisti militanti quali Woody Guthrie e Cisco Huston, mentre proprio la sua versione di John Henry può essere considerata di riferimento per molte altre.
Il mito del lavoratore nero che si riscatta, operaio o schiavo che sia, attraverso il lavoro più che attraverso la rivolta giunge a noi, quindi, attraverso il carcere e il lavoro ultra-coatto delle chain gang. Ancora una volta il cerchio si chiude adeguatamente e l’ordine costituito non è messo né in discussione né, tanto meno, in pericolo. Anche se, per intima contraddizione di una cultura popolare e proletaria che non sempre si lascia così facilmente ingabbiare, per decenni gli studiosi del folklore americano confusero la ballata di John Henry con quella dedicata a John Hardy (il tema e gli accordi sono gli stessi) in cui si parla, però, di un ferroviere bianco che uccide a colpi di pistola un suo rivale o, ancor più probabilmente, di un fuorilegge della West Virginia.
Addirittura, se lo sguardo e l’udito si facessero soltanto un po’ più attenti, nelle strofe di John Hardy in cui si parla di un “Desperate, little man”, ci si accorgerebbe che allora la memoria potrebbe andare ad un altro John Henry, questa volta piccolo e bianco: John Henry Holliday detto “Doc”, giocatore d’azzardo, assassino di ranger, tenutario di case da gioco e bordelli,compagno di Wyatt Earp nella, a sua volta leggendaria, sfida dell’O.K. Corral avvenuta a Tombstone nel 1880 e morto di tisi a trentasei anni nel 1887. Armi, denaro, violenza fai da te finiscono così col rivelarsi, ancora una volta, come l’altra faccia del mito americano. Proletario o borghese che sia.
Stachanov finì la sua esistenza, depresso e semi alcolizzato, in un ufficio di Mosca con una lunghissima targhetta d’ottone: “Capo del settore per l’emulazione socialista presso il commissariato del Popolo per l’estrazione del carbone”. Dopo l’impresa del 31 agosto 1935, gli erano stati consegnati 220 rubli, che corrispondevano a più di due stipendi mensili; una casa di tre stanze, ammobiliata con tappeti e un pianoforte a coda; un buono per una vacanza al mare con la moglie in Crimea; due abbonamenti a vita a tutte gli stadi, cinema e teatri della sua città.
Le rivelazioni, mai smentite, di giornali statunitensi che parlavano di bluff, di record costruito con intere squadre di minatori che lavoravano per l’eroe, furono bollate come “invidia dei capitalisti”.
”La propaganda stalinista sfruttò al meglio il personaggio con l’obiettivo dichiarato di sconfiggere la proverbiale indolenza del lavoratore russo. E con lo scopo, più nascosto, di scoraggiare ogni sorta di lamentela sul posto di lavoro: solo sacrificio e produzione per la causa del Socialismo”6
John Henry finì rappresentato in numerose immagini che lo ritraevano morto, con il martello ancora in pugno. Una sorta di semi-dio7 immolatosi per il lavoro più che per la salvezza di una razza o della specie. Ritratto in una posizione a braccia aperte, con qualche imprenditore e redneck ai suoi piedi, che lo avvicina di più allo zio Tom di Harriet Beecher Stowe,8 il cui abolizionismo rimaneva relegato alla pietà cristiana e all’azione dei “buoni” padroni bianchi più che all’azione diretta degli schiavi sfruttati,9 che alla figura dell’autentico liberatore.
La sua lotta con la macchina non ha nulla dell’odio dei luddisti per le macchine che riducevano forza e salario dei lavoratori, incrementandone la produttività. No, è una lotta arcaica che non emancipa il lavoro e che, sposandone l’etica del sacrificio, al contrario lo imbestialisce, caratterizzandolo soltanto in termini di rivalità con la macchina che, tutto sommato, potrebbe liberarlo davvero. Una lotta in cui l’orgoglio operaio non è di classe, ma di mestiere e il lavoro è ridotto a semplice strumento per la valorizzazione del capitale. Senza alcuna speranza di riscatto finale.
Valeva la pena narrare e ricostruire tutto ciò ancora una volta? Basti guardare ai risultati della presidenza di Barack Obama la cui unica eredità sembra essere costituita dal premio Oscar assegnato a un film come “Moonlight”. Una storia di “diritti umani” più che di classe, in cui la pregiudiziale anti-razzista è fortemente minata dal fatto di rendere ancora una volta le vicende degli afro-americani sufficientemente digeribili e patinate per un pubblico bianco e borghese bicolore. Ignorando del tutto le ragioni che hanno spinto anche una parte dell’elettorato operaio “nero” a votare per Trump e contribuendo così a far sprofondare ancor di più ogni rappresentazione dei conflitti di classe e razziali nel folklore più convenzionale.
Valeva la pena di rispolverare Stachanov e trarlo fuori dall’oblio? Si pensi alla proposta di Matteo Renzi per uno stipendio di cittadinanza legato, molto probabilmente, ad un lavoro sottopagato in stile cooperativistico, in cui i riferimenti alla dignità del lavoro e all’articolo primo della Costituzione sono da leggere in chiave puramente strumentale all’abbassamento della spesa di ciò che rimane dei servizi destinati ai cittadini e del costo del lavoro. Oppure alla straordinaria promessa di Calenda per ventimila nuovi posti di lavoro in Italia: tutti nei call center, una volta che le compagnie interessate avranno ridimensionato quelli aperti in Romania, Albania, Polonia e in altri paesi dove il valore dei salari è ormai prossimo a quelli pagati nel sud italiano. Tutte le risposte arriveranno da sole.
(2 – continua)
In realtà il suo vero nome era Aleksandr, ma nel giorno del record il corrispondente locale della Pravda aveva scritto per sbaglio Aleksej. In pochi giorni la complessa burocrazia sovietica cambiò tutti i suoi documenti per adeguarli alla svista del giornale. Pravda vuol dire verità e per questo non ammetteva smentite ↩
Se ne presenta qui un estratto da una versione ricostruita che le riassume un po’ tutte:
“ […] John Henry disse al capitano*:
«Capitano, andate in città
Portatemi due mazze di quelle da dieci chili
Vedrete come batto la trivella, Signore, Signore
Vedrete come batto la trivella»John Henry disse alla sua gente:
«Sapete che uomo sono io.
Posso battere ogni tappola che è mai stata inventata
O morirò con la mazza stretta in pugno, Signore, Signore
O morirò con la mazza stretta in pugno»La trivella era messa sulla destra:
John Henry sul lato sinistro.
Disse: «Batterò la trivella a vapore
Oppure mi ucciderò a mazzate, Signore , Signore
Oppure mi ucciderò a mazzate»John Henry buttò la mazza da cinque chili
E prese quella da dieci;
Ogni volta che batteva sulla mazza
Il ferro trapassava la roccia, Signore, Signore
Il ferro trapassava la rocciaJohn Henry aveva appena cominciato
E la trivella era già a metà;
John Henry le disse: «Adesso sei avanti, trivella
Ma all’ultimo vedrai che ti batto, Signore, Signore
All’ultimo vedrai che ti batto»[…] L’uomo che aveva fabbricato la trivella
Pensava fosse buona assai;
Johnn Henry avanzò per più di quattro metri
La trivella ne fece a stento tre, Signore, Signore
La trivella ne fece a stento tre.[…] John Henry era uno spaccapietre,
In tante squadre lavorò;
Adesso è tornato all’inizio dei binari
Per scavare ancora più lontano, Signore, Signore
Per scavare ancora più lontano”.
Questa versione rielaborata si trova in Colson Whitehead, John Henry Festival, Minimum Fax 2002, pp. 108-113 *Capitano, captain in ambiente di lavoro sta per caposquadra, ma poteva anche essere colui che dirigeva il lavoro degli schiavi oppure i condannati al lavoro forzato. ↩Si veda a proposito di questa transizione: C.L.R. James – H. M.Baron – H.G. Gutman, Da schiavo a proletario, Musolini Editore 1973 ↩
Fondamentali, in questo senso, sono da ritenersi le riflessioni di Marx ed Engels scritte a caldo in quegli anni. Si vedano in: Marx – Engels, La guerra civile, Silva Editore 1971 e Hosea Jaffe, Marx e il colonialismo, Jaca Book 1977 ↩
Si ascoltino, solo come esempio tra i tanti, i due cd pubblicati dalla Rounder nel 1997: Prison Song. Historical recordings from Parchman Farm 1947-48, Volume 1: Murderous Home e Volume 2: Don’tcha Hear Poor Mother Calling? ↩
cfr. http://www.repubblica.it/esteri/2010/08/13/news/stkanovista_super-6257615/ ↩
Cosa fu Gesù Cristo se non l’incarnazione di un ennesimo semi-dio? ↩
Autrice nel 1852 dell’omonimo Uncle Tom’s Cabin or Life Among the Lowly ↩
Protagonisti di infinite rivolte e azioni violente contro i proprietari e i loro cacciatori di schiavi, come si può leggere in George P. Rawick, Lo schiavo americano dal tramonto all’alba: la formazione della comunità nera durante la schiavitù negli Stati Uniti, Feltrinelli 1979 ↩