di Fabrizio Lorusso
[Questo articolo è uscito sul numero 27 (luglio 2016) della rivista Il reportage-Le foto sono di Fabrizio Lorusso] La sala riunioni del Centro Studi sul quartiere di Tepito, nel cuore antico e dimenticato di Città del Messico, è un vero museo della memoria di una delle zone più famigerate dell’America Latina. Stigmatizzato dai mass media come covo di delinquenti, evitato da messicani e stranieri per la sua presunta pericolosità e considerato il tempio della merce di contrabbando, chiamata fayuca, Tepito è in realtà un’enclave di resistenza e creatività culturale senza pari. E’ formato da 56 isolati e cinquantamila abitanti, i tepiteños, distribuiti su un’area urbana dal tracciato trapezoidale e formalmente è parte del centro storico, dato che si trova solo a una decina d’isolati dalla cattedrale e dal zocalo, l’immensa piazza che è tappa obbligata del turismo tradizionale. Il Centro culturale si dedica a far conoscere le tradizioni, il lavoro e le peculiarità di tanti commercianti e artigiani, di cuochi sopraffini e matriarche, di mitici pugili e ballerini che hanno fatto la storia di questo pezzo del Messico antico e dimenticato. Vi si accede dall’Eje 1 Norte, una caotica arteria cittadina che collega il ponente e l’oriente della capitale, e le sue pareti raccontano la vita del barrio, del rione, in cui “tutto si vende tranne la dignità”, come si legge su un poster giusto all’entrata.
Dal mattino presto le vie brulicano di ambulanti e commercianti, staffette e commessi, compratori e cercatori d’occasioni che vivificano quello che è considerato il mercato a cielo aperto, o tianguis, più grande del continente. Senza tregua dall’alba al tramonto uno sciame di trasportatori ripartisce scatoloni e vettovaglie coi diablitos, “i diavoletti”, cioè carrellini a due ruote che svuotano magazzini e riempiono negozi in un batter d’occhio. “Attenti al diavolo!”, gridano per farsi largo nei vicoletti. I carrelli possono essere personalizzati con la filosofia di vita del proprietario. “Soffrite perché volete, son libero e di buon umore, domani me ne andrò, fate lutto, ragazze, chissà se tornerò”, dice uno.
“A Tepito siamo gente onesta e lavoratrice, c’è delinquenza, chiaro, perché ci sono i soldi, ma il quartiere è riconosciuto mondialmente perché siamo forti nel ballo e si lavora duro finché non fa scuro, dal canto del gallo al canto del grillo”, afferma don Luis, un anziano ed energico tepiteño DOC che, fiero del suo marchio di fabbrica, porta sempre un badge con la scritta Hecho en Tepito, Made in Tepito.
Negli interstizi del mercato, la via Tenochtitlan, antico nome della capitale dell’impero dei mexicas o aztechi, è nota alle frequentatrici assidue come il “bazar delle voglie”, ma alcuni uomini l’hanno invece ribattezzata come la “via delle frustrazioni”. E’ un grande sex-shop di strada dove si trova la gamma completa di strumenti per il piacere sessuale e le fantasie erotiche come vibratori singoli, doppi e circolari d’ogni dimensione e colore, sex-toys e masturbatori, vestitini e bamboline, oggetti per l’erotismo virtuale e a distanza, articoli per bondage e sadomasochismo, libretti vari e pure preservativi di Mickey Mouse con le orecchiette che si riempiono all’occasione.
Alfonso Hernández, agitatore culturale e direttore del Centro Studi su Tepito, ha inventato il Safari Tour della zona, Tepi-Town Tour in inglese, grazie a cui fa conoscere i suoi lati occulti a ricercatori, giornalisti e curiosi. “A Lione nel 1988 è stata inaugurata la Rue Tepito perché il governo di Mitterand promosse scambi artistici e culturali tra la Francia e i quartieri popolari messicani, soprattutto Tepito, e siamo stati anche in Colombia e in Cile per spiegare come sopravviviamo e non veniamo spazzati via dalla depredazione urbana o dal narcotraffico, malgrado l’opinione comune sostenga il contrario”, spiega.
Qui il commercio è una vocazione ancestrale. Già dal secolo XIV la zona era riservata ai galoppini e ai corrieri dei signori di Tlatelolco, territorio assoggettato agli aztechi. Proprio per la sua struttura labirintica e perché funzionava 24 ore su 24, Tepito fu scelto dall’ultimo regnante di quel popolo, il tlatoani Cuauhtémoc, come rifugio contro gli invasori spagnoli capeggiati da Hernán Cortés.
Oggi all’angolo delle vie Constancia e Tenochtitlan una targa ricorda che siamo a “Tepiqueuhcan [nome indigeno di Tepito], dove iniziò la schiavitù e fu fatto prigioniero Cuauhtémoc la sera del 13 agosto 1521”. L’assedio degli iberici e dei loro alleati indigeni tlaxcatlecas durò ben 90 giorni alla fine dei quali Tenochtitlan cadde in mano ai conquistatori e il Cuauhtémoc fu sottoposto al supplizio della bruciatura dei piedi. Da allora Tepito è un rione di indios e mercanti in resistenza.
Per questo motivo e per la pervicacia dei suoi abitanti l’alias di Tepito è “el barrio bravo”, quartiere selvaggio, indomito. Ma il soprannome vale anche perché è sempre stato anche un vivaio di campioni di box, oltre a uno snodo di traffici, fortune e miserie, e un luogo in cui la polizia tende a non entrare. Comunque i locali, stufi delle etichette negative, tendono a rigirare l’espressione e dicono piuttosto “¡Bravo el Barrio!”, ossia “che forte il quartiere!”
“Dopo il massacro della conquista la capitale azteca puzzava tanto che Cortés stabilì più a sud la sua dimora, nell’area di Coyoacán, e da lì ordinò la costruzione della chiesa di San Ippolito, che oggi è il patrono di Città del Messico e si celebra il 13 agosto, per cui si decise di fissare una festa religiosa proprio nella data in cui caddero gli aztechi”, narra Alfonso.
A Tepito le tradizioni indigene non si sono spente del tutto e il dio precolombiano Xipe Tótec, “Nostro Signore Scorticato”, una divinità senza pelle che propizia il rinnovamento e la fertilità, protegge ancora le strade del barrio: metaforicamente la gente ricostruisce lo scheletro del dio con tubi di metallo e scaffali di legno, i tendoni e gli ombrelloni formano la sua seconda pelle e completano l’ossatura del mercato, giorno dopo giorno. “L’operaio lavora per mangiare, il commerciante per vivere bene”, è la filosofia del tianguis, l’anima del commercio.
Una bancarella in affitto costa sui 2-300 pesos al giorno, circa 15 euro, e gli spazi disponibili sono suddivisi al 50% tra gente della zona ed esterni. L’unico giorno di riposo è il martedì. Dopo il terremoto del 1985, che distrusse mezza città e fece oltre 10.000 vittime, si scelse questo giorno per svolgere le attività di rimozione delle macerie e di ricostruzione, quindi da allora il martedì si riposa, il mercato è sospeso e le strade, sgombere e silenziose, paiono spente, estranee.
“Al contrario di quanto si pensi, il commercio qui genera una ricchezza sufficiente perché i figli vadano a scuola e si laureino in università private di prestigio come il TEC o la Iberoamericana”, sottolinea Alfonso. “Ci sono i cosiddetti Marco Polo di Tepito che viaggiano in Cina costantemente per portare in Messico le novità e sono tanti quelli che parlano inglese o mandarino e a volte convincono i loro genitori a seguirli in Oriente, facendogli da guida turistica da Pechino a Shangai”.
Hugo Bautista aggiusta orologi, ha una bancarella in via Tolteca, proprio affianco al ristorante de “La Bionda”, La Güera, che è un must per i palati avidi di emozioni speziate. Nessuno lo direbbe, ma grazie al suo mestiere Hugo ha potuto viaggiare tre volte in mezza Europa. “Da questa mio piccolo banchetto ho guadagnato abbastanza da poter fare dei corsi di alta orologeria e conoscere vari Paesi, poi ho anche incontrato mia moglie che è spagnola, ma viveva in Svizzera”, racconta mentre mostra una sua foto scattata al Salone Mondiale dell’Orologeria Baselworld di Basilea.
Nella via Díaz de León si trovano a prezzi stracciati tutte le novità dell’elettronica, originali e clonate. Alcuni negozianti sono così all’avanguardia che la Sony li considera “pionieri del mercato” e li invita ogni anno a Las Vegas alla Fiera Internazionale dell’Elettronica di Consumo.
A Tepito vige il matriarcato. Si dice che qui gli uomini portano i pantaloni, ma solo in tintoria, perché in tanti nuclei familiari e anche nel commercio sono le donne che se la giocano fino all’ultimo e devono essere “più stronze che carine” (más cabronas que bonitas) per sopravvivere, indipendentemente dalla presenza o buona volontà degli uomini che eventualmente le accompagnano.
In quest’ambiente nasce il progetto di storia orale e diffusione culturale delle 7 Cabronas e Invisibles de Tepito che racconta le vicissitudini di sette donne ammirevoli e decise, sette cabronas che prima erano invisibili e ora rappresentano il lato femminile del barrio. Assomigliano a madonnine inginocchiate, sul modello dell’osannata icona religiosa della Vergine di Guadalupe, ma in realtà sono maestre nell’arte d’arrangiarsi, di procreare, educare, lavorare e sostenere una famiglia o un business da sole nelle situazioni più difficili.
Per favorire uno sviluppo urbano di tipo speculativo il sindaco di Città del Messico, Marcelo Ebrard, nel 2007 ordinò l’espropriazione una serie di edifici di Tepito annunciando in pompa magna: “Abbiamo espropriato, sgomberato e demolito la Fortezza di Tepito per restituire al quartiere la sua dignità con modernità e legalità”.
Ma il politico non sapeva che il vero condominio “La Fortezza” si trova a tre isolati da quello sgomberato e dal 2009 ospita l’opera di street art murale e la stele commemorativa delle sette cabronas. Non sono stati scritti i loro nomi e cognomi perché le loro storie s’intendono come universali e valgono per tutte le donne, “quelle di ieri e quelle che verranno”, come indica la targa. L’inaugurazione è stata ripetuta per tre martedì consecutivi in cui le registrazioni dei loro racconti hanno risuonato nei cortili della Fortezza per poi essere immortalate in un documentario.
A duecento metri da qui, in via Alfarería 12, c’è la statua della Santa Muerte più famosa del Messico. E’ un’icona popolare, rappresentata dalla morte con il saio e la falce, di un culto proibito dalla Chiesa praticato da milioni di devoti. Nell’estate 2001 la guardiana dell’immagine, doña Enriqueta Romero, la collocò sull’atrio di casa perché non c’era spazio al suo interno. Da allora il flusso di fedeli che vengono a visitarla non s’è mai fermato e i rosari pubblici in suo onore attirano ogni primo del mese migliaia di persone, giornalisti e studiosi. Santa border line, ultima risorsa per i marginali in un contesto di crisi e precarietà, la chiamano affettuosamente Niña Blanca o Flaquita, la bimba bianca o magrolina, e il suo unico rivale è San Giuda Taddeo, santo cattolico delle cause disperate. “Ho 7 figli, 57 nipoti e 38 bisnipoti”, riferisce orgogliosa la settantenne Enriqueta, “e quando ero piccola ho ereditato la devozione da una zia che portava un’immaginetta della Santa Muerte sempre con sé”.
I saggi del barrio narrano che prima c’erano spazi abitativi “mediterranei”, tipo case di ringhiera, silenziosi e protetti, con un cortile centrale e tutt’intorno le case di mattoni crudi con un’entrata su una via e un’uscita nell’isolato successivo. Il terremoto del 1985 ha sconvolto il centro della città per cui da allora il modello è cambiato secondo i dettami del Banco Mondiale: abitazioni più compatte, palazzi più bassi e con fondamenta solide che, però, rappresentano un terzo dei costi totali di costruzione. Così s’è risparmiato sulle altre parti delle case. Per Tepito il problema è evidente: è provato che l’architettura “standard”, più economica, nel giro di 10 anni frattura i nuclei familiari e riduce la qualità di vita. “E’ come comprarsi delle scarpe mal disegnate di pessimo materiale”, ammonisce Alfonso. “Ricorda che siamo nella zona B del centro storico, molto esposta alle speculazioni perché i terreni e i negozi hanno assunto un valore enorme e sono ambiti dal gran capitale, è un problema che non si vede ma c’è”.
Negli anni ’50 l’antropologo americano Oscar Lewis visse nella Casa Blanca, una tradizionale casa di ringhiera di Tepito che occupa un isolato intero, e documentò la vita di una famiglia nel suo libro Los hijos de Sánchez (I figli di Sánchez). Coniò anche il termine “cultura della povertà”, contraddicendo di fatto la propaganda dell’allora presidente Miguel Alemán, che dipingeva il Messico come una nazione moderna e industriale. Tepito diventa allora una questione di Stato, una vergogna da nascondere.
“Le abitazioni si ricostruirono dopo il sisma, ma prima ogni famiglia si raccoglieva intorno a un mestiere e a un’officina e ora non più, le persone tendono a stare fuori dai cortili, per le strade, e il mercato è diventato un’ancora di salvezza”, spiega Alfonso.
“Non hanno cacciato via la gente, ma l’hanno lasciata al proprio destino, così la criminalità e l’abbandono delle autorità fanno di Tepito un santuario d’impunità, i ragazzi si fottono da soli con le droghe e le persone s’ammazzano tra loro per cui il governo, quando parla male del lavoro informale e dei venditori ambulanti, non sa che per noi è una modesta fabbrica sociale contro la potente industria del crimine”, precisa.
Nel 1970 Lewis, che intanto era stato espulso dal Paese, pubblicò Una muerte en la familia Sánchez, in cui descrive la morte di una zia della famiglia che viveva in Panaderos, la vicina via dei Panettieri. Oggi questa strada è famosa per due motivi: di giorno si vendono prelibatezze culinarie messicane, la sera si popola di spacciatori di crack. Sotto il tendone della signora Elvia ribollono pentoloni, fritture e passioni. Paffuta, di pelle chiara e sorriso generoso, doña Elvia mostra con orgoglio la copertina del numero di Playboy in cui c’è un reportage sulle sue migas. Si tratta del piatto tipico che preparavano le nonne in tempi di penurie: una zuppa di pane condito con l’aglio e di ossa di zampe di maiale, arricchite da carni e cartilagini recuperate da scarti delle coscione di prosciutto. Proviamo anche una gordita de piloncillo, una pasta simile allo gnocco fritto ma a base di un dolce ricavato dallo sciroppo della canna da zucchero.
Girato l’angolo in via dei mineros, c’è il Murale degli Assenti che ritrae Gesù Cristo su un trono portato da leoni e un corteo di “uomini d’onore” genuflessi. “E’ un graffito che ha 25 anni e raffigura i caduti del narcotraffico mentre sulla gran croce di legno, posta di fronte, ci sono scritti i soprannomi dei giovani morti di recente”, spiega Alfonso. L’iniziativa, emblematica delle realtà dure e contraddittorie del quartiere, è nata dall’idea di un pittore che, quando la violenza ha cominciato a rifarsi sentire, s’è accordato con le famiglie per ricordare così i caduti di ciascuna.
Il viaggio volge al termine. Alfonso ci lascia una riflessione: “Le parole Me-xi-co e Te-pi-to sono simmetriche nella successione delle vocali e chi, in Messico, mostra disprezzo verso il barrio, descrivendolo magari come un territorio di indios, pirati e criminali senza regole, forse non sa che all’estero, specialmente negli Stati Uniti ai tempi di Donald Trump, sono in tanti a considerare il Messico semplicemente uno dei tanti Tepito del mondo”.