di Maurizio Marrone
Cormac McCarthy può senz’altro essere considerato uno dei più lucidi e visionari cantori dell’epopea americana contemporanea. Obiettivo di questo articolo è rendere visibile il nesso che lega i suoi due ultimi romanzi, vale a dire Non è un paese per vecchi (Einaudi 2006) e La strada (Einaudi 2007). Tale nesso prende forma grazie alla riflessione sulla figura controversa e contraddittoria dei due eroi tragici che attraversano le pagine delle due opere.
La strada riproduce uno scenario post-apocalittico piuttosto classico nel quale un padre morente e suo figlio si aggirano in cerca di cibo e di riparo, tra le ceneri maleodoranti di un mondo devastato da una catastrofe evocata e mai pienamente disvelata. Entrambi sono aggrappati al massimo che la vita concede loro, vale a dire: legame familiare e lotta per la sopravvivenza. Si tratta del grado zero di un’umanità che ha distrutto se stessa. L’eroe, il protagonista del romanzo, consuma se medesimo nel ripetersi identico di un unico gesto: quello di svegliasi la mattina e di resistere.
In Non è un paese per vecchi, la vicenda è molto più complessa ma sembra rappresentare un lungo prologo che avrà nel romanzo successivo il suo epilogo tanto drammatico quanto ineluttabile. In un Texas sperduto e inospitale ai confini col Messico, Llewelyn Moss, un classico bifolco del Southwest, s’imbatte casualmente nella scena di uno scontro a fuoco avvenuto tra trafficanti di droga. Tra furgoni crivellati di colpi, cadaveri in putrefazione e un uomo in fin di vita che chiede dell’acqua, trova una valigetta piena di denaro che, ovviamente, ruba. Durante la notte, tuttavia, mosso a compassione, torna sulla scena del massacro per portare dell’acqua al moribondo. La dinamica tragica del meccanismo narrativo si mette in moto. Moss incontra i trafficanti superstiti che erano tornati sulla scena per recuperare droga e denaro: comincia in questo modo la sua fuga e la relativa caccia che vede come predatore lo spietato Anton Chigurh, un killer sociopatico che ammazza la gente per il semplice gusto di farlo. Questo tuttavia è molto più di un sicario. È come un angelo sterminatore che uccide chiunque incontri lungo il proprio cammino (un poliziotto, tutti trafficanti di droga, un altro killer assoldato per fermarlo, il suo presunto datore di lavoro, diversi malcapitati e, infine, lo stesso Llewelyn Moss e sua moglie). Chigurh non è solo l’antagonista per definizione; è un buco nero anti-mondo che lacera ogni possibile relazione, metafora e messaggero di un’apocalisse a venire.
Su tutta la vicenda indaga lo sceriffo Bell, un brav’uomo che cerca disperatamente di ricomporre la ferita mortale inferta dal killer al corpo vivo della comunità e del mondo. È lo sceriffo il vero o presunto eroe del romanzo: pur non essendo narrato in prima persona, è contrappuntato da ricordi e riflessioni che ci restituiscono il suo punto di vista. È l’eroe che racconta sé stesso e la sua storia; e che sostanzialmente, affida ad essa (all’epica) e alle proprietà taumaturgiche del racconto e della verità, le sorti di una battaglia ritenuta già persa. Bell, infatti, è sempre un passo indietro rispetto a Chigurh e non può far altro che osservare impotente l’empio spettacolo dei suoi massacri. Solo una volta gli si avvicina e potrebbe catturarlo, ma decide di non affrontarlo, perché ha paura e sa di non poter vincere contro un avversario la cui ferocia è al di la della sua capacità di comprensione. Sente dentro, “più amaro della morte”, il sapore della sconfitta e quindi si arrende; abbandona le indagini e si dimette. I buoni hanno perso e il cattivo se ne va indisturbato.
La resa, tuttavia, non è generata solo dalla consapevolezza di una sconfitta certa, ma anche e soprattutto, dalla presa di coscienza di un’impossibilità: Bell ha di fronte a sé qualcosa che non è più in grado di comprendere, forse neanche di nominare ed è per questa ragione che smette di lottare. È il soggetto che rinuncia a sé stesso e quindi alla possibilità di dare un senso al rapporto tra sé e la realtà.
Pensiamo per un attimo a uno degli archetipi simbolici dell’eroe tragico, vale a dire a Edipo. Egli è costantemente determinato a conoscere e, a dispetto di tutti coloro che tentano di dissuaderlo, non arretra nemmeno di fronte alla possibilità che la scoperta della la verità sia così potente da renderlo cieco. Tale ostinata determinazione è metafora di una soggettività che si spinge fino ai limiti delle proprie possibilità, anche a rischio di venire annientata, cosa che peraltro, come è noto, accade. È chiaro che questo atteggiamento può essere oggetto di diverse interpretazioni. Da una parte infatti Edipo può essere considerato come un eroe in senso illuministico: un paladino della ragione e dell’intelligenza umana, sempre volto alla ricerca della verità. La sua smania di conoscenza però potrebbe essere letta anche come hybris, cioè come la protervia dell’uomo che, incapace di accettare i propri limiti, cercando di oltrepassarli, ne viene travolto e annichilito. In ogni caso non vi è traccia di un soggetto che abdica al proprio ruolo.
Lo sceriffo Bell, al contrario, abbandona la scena e compie la più radicale delle rinunce, cioè proprio la rinuncia alla comprensione e alla conoscenza. L’eroe di McCarthy non è in grado di mettere in moto alcun processo antagonista perché sacrifica l’azione e ogni possibilità di tessere in prima persona le fila del proprio rapporto col mondo. La conoscenza come compito, l’assunzione responsabile della propria soggettività sono demandate interamente all’io narrante perché l’io che agisce è impotente. L’eroe abdica al proprio ruolo e si trasforma nel narratore delle sue stessa gesta fallimentari, perché questa sembra essere l’unica forma di resistenza possibile. Come se nel corso della tragedia, Edipo, invece di lottare per la verità, abbandonasse il proscenio e si unisse al coro. La ricerca di senso non accade più nel rapporto col mondo ma è affidata al racconto che spera di custodirne la verità.
L’effetto di questo slittamento è devastante: il mondo viene spazzato via dall’apocalisse di cui Chigurh è incarnazione maledetta e La strada è l’istantanea di quel che ne rimane: un luogo freddo e inospitale dove l’unico elemento tramandabile è il legame tra un padre e suo figlio.
Eppure questa metafora escatologia trova, proprio nel rapporto di continuità tra i due romanzi, anche una possibilità di lettura differente. Come se tutto si riducesse, in ultima analisi, a un semplice monito. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi, ma guai all’eroe che si arrende perché dopo di lui regnerà il nulla. Un padre, un figlio e un mondo in frantumi pronto a divorarli. Guai a rinunciare a cercare un senso nel rapporto tra sé e il mondo (non è forse questo l’autentico compito dell’eroe?), guai ad abbandonare la scena, perché la sola testimonianza non è sufficiente a fermare l’apocalisse.
E infatti ne La strada il rapporto tra narrazione e azione risulta completamente invertito. Padre e figlio che si aggirano tra le ceneri, in costante pericolo di vita, non possono abdicare al loro ruolo. A un certo punto l’uomo dice al figlio: «È così che fanno i buoni, continuano a provarci. Non si arrendono mai». Il bambino più di una volta chiede al padre se loro siano i buoni e se lo siano proprio perché portano il fuoco. Il padre risponde di sì. Il fuoco può senz’altro essere visto come l’essenza stessa della testimonianza, ma, al contrario di ciò che accade in Non è un paese per vecchi, qui quella potenza è evocata come mera chimera consolatoria che permette all’eroe di svolgere il suo compito, cioè continuare a lottare e a svegliarsi ogni mattina per proteggere suo figlio: «Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto? L’uomo sputò un grumo di catarro e sangue sulla strada. Alzarmi stamattina, disse.»
[Il tema dell’eroe è già stato affrontato su Carmilla da Luca Cangianti, Fabio Ciabatti (qui e qui) e Mazzino Montinari]