di Danilo Arona
1) Ha abbandonato il pianeta nel gennaio di quest’anno dopo avere compiuto da pochissimo 89 anni. William Peter Blatty, autore del testo forse più importante del gotico moderno (o “gotico gesuitico”, come amo definirlo). Se l’efficacia – strutturale, semantica ed emotiva – de L’esorcista va equamente divisa con William Friedkin, regista del film, le suggestioni demoniache e metafisiche stanno intatte tutte nel testo, e verranno ridistribuite pochi anni dopo l’uscita del film in due cult da riscoprire e da rivalutare, La nona configurazione del ’78 e L’esorcista III nel ’90, clamoroso capolavoro da pochi capito.
2) È doveroso che io qui mi occupi di Blatty. Per qualche motivo “sincronico” ho lavorato molto su di lui durante il 2016, avendo presentato il libro L’esorcista in due workshop a esternarne il valore in quanto testo esemplare da tener presente come (inarrivabile) modello per i neofiti scrittori di horror. Dovendo scegliere una “monografia” non ho avuto dubbi di sorta: L’esorcista è un esempio sublime di struttura (prologo in un Altrove – Iraq – e crescendo emozionale e cronologico in un contesto quotidiano, per metà una camera da letto…), corroborato da un tessuto “fantastico per esitazione” in cui viene inserito anche, quasi per rafforzare la connotazione realistica, il personaggio chiave della letteratura poliziesca, l’ispettore di polizia. Quel William Kinderman che tornerà in Gemini Killer, testo di derivazione per L’esorcista III, in un ruolo centrale per una nuova indagine ai confini del reale. Per evitare la trappola di quella che Laura Grimaldi definisce “romanzo a cinepresa fissa”, Blatty arricchisce, dinamizza la trama con sostanziosi flashback (il senso di colpa di padre Karras nei confronti della madre morta in casa di riposo), storie parallele (l’amicizia cinefiliaca tra padre Dyer e Kinderman), suggestivi esterni di Georgetown e sottotracce mitologiche (il demone Pazuzu, l’antico nemico che attende l’arrivo di Merrin accucciato dentro il corpo e la mente di Regan). Raramente l’effetto fantastico / horror è stato così efficace, così “invadente” da bucare il reale quotidiano, costringendoci a ricordare che il primo, basilare, principio di un horror riuscito – di quegli e di questi anni – riuscito è la verosimiglianza, la credibilità nei confronti di un evento per quanto sia quest’ultimo razionalmente non credibile. Plausibilità rafforzata dall’aver Blatty lavorato per tutti gli anni Sessanta nel campo della commedia brillante, soprattutto con Blake Edwards, affinando l’arte discorsiva soprattutto nel demandare ai dialoghi, fitti e serrati, quasi modellati “alla Hawks”, motivazioni e situazioni di solito “raccontate” dal regista. È anche grazie a questa tecnica di affabulazione “trasversale”, trasferita all’horror, che L’esorcista vanta una forza di penetrazione che un critico americano, Roger Elbert, così sintetizzò: «Questo film è un assalto frontale.»
3) Se mai ci fossero delle conclusioni da tirare (ammessa e non concessa la liceità dell’operazione) per quel che riguarda il senso filosofico dell’horror in senso stretto, la prima reciterebbe che il Mostro senza l’uomo semplicemente non esiste o se c’è è ridicolo. È ovvio, il mostro si accuccia quasi sempre dentro l’uomo (come Mister Hyde, antesignano di Stevenson), oppure è l’uomo stesso che lo crea, come il dottor Frankenstein. Alla fine persino il Diavolo sarebbe una produzione umana (nello stesso Esorcista la prima manifestazione del demone, Capitan Howdy – Capitan Gaio nel doppiaggio italiano – metaforizza l’assente e lontano padre di Regan, Howard). Dracula non esisterebbe senza Van Helsing. Gli spettri di Quint e Miss Jessell non esisterebbero senza l’istitutrice. E potremmo andare avanti così ancora per molte righe.
Blatty però evita, da subito, il principio di causa/ effetto, spesso precorritore di banalità concettuali. A tre pagine dall’inizio del libro, annunciato solo da un formicolio “appena percettibile” sulla nuca di Merrin, il Male entra in scena e non è affatto un prodotto dell’uomo, se non nella sua ingannevole forma iconica di manufatto da appendere al collo:
«Era una pietra verde, la testa del demone Pazuzu, simbolo del vento di sud-ovest. Suo dominio era la la malattia, qualsiasi condizione patologica. La testa era forata. Il proprietario dell’amuleto lo aveva portato al collo come uno scudo protettivo.»
Tanto celebre è questo passo che si poteva pure evitare di riportarlo. Ma ho scelto di farlo per rimandare da un lato la memoria di ciascuno al magistrale incipit archeologico iracheno del film e dall’altro per ricordare un un particolare non da poco: che nel film il demone Pazuzu mai è nominato – per quanto “visto” – , mentre nel libro lo è con una certa precisione come abbiamo appena riscontrato.
Una scelta rigorosa. Pazuzu è il Male, un Male antico quasi in senso lovecraftiano, un male che contamina e che fa ammalare, e a suo modo L’esorcista è configurabile pure come un medical thriller. Alla stregua di un virus mutaforma, Pazuzu si nasconde e si modifica: da Capitan Howdy a Legione, da diavolo fornicatore a madre defunta di Karras. Una scelta che rimanda alla primaria ispirazione di Blatty.
In una fase particolare e stressante della sua vita, lo scrittore non era forse in grado di fronteggiare l’irruzione nel suo inconscio di contenuti archetipici. Vide una grande statua simile a un demone e ne restò colpito al punto da iniziare subito un’elaborazione mentale al suo riguardo. Quando scoprì la vera immagine di Pazuzu in un libro dei “Padri del Deserto”, considerò immediatamente di avere trovato il “contenuto” per quella “forma” psicoide, ed ecco così nascere il personaggio, niente affatto frutto di fantasia, che “Merrin ha già fronteggiato in un precedente esorcismo avvenuto in Africa”. Un demone sfuggente e irraggiungibile, con il quale ogni tentativo di dialogo è destinato a fallire. Perché alla fine si tratta di un’alterità disumana che opera un attacco incomprensibile all’umano raziocinio. Come abbiamo già scritto, il Male.
4) Edoardo Nesi, nella prefazione all’edizione Fazi (2009), ha scritto belle e importanti righe che s’inseriscono alla perfezione in queste note:
«…Come una malattia. Come se anche al demonio occorresse tempo per infestare un’anima, e ogni giorno l’infezione fosse più forte e ogni giorno presentasse un sintomo nuovo e orribile: ed è così che, pian piano, noi lettori facciamo conoscenza con una malvagità infinita e potentissima e incontrollabile che agisce sulle persone e le cose con una forza selvaggia, con un’oscena determinazione ad apparire e manifestarsi perché quello e soltanto quello sembra volere; una malvagità che ci convince perché fa compiere alla bambina atti innominabili, così orribili da sconvolgerci, ancora oggi. E mentre si legge, avvinghiati alle pagine, si diventa vittime di un meccanismo perfetto e poderoso che fa dipanare la storia in un lento, inesorabile crescendo che non ci lascia nessun punto di riferimento: non c’è niente di ovvio, niente di telefonato, niente di già letto nella catena di eventi che ci porta infine davanti all’incubo, all’orrore supremo. Per quanto si cerchi di non precipitare nella storia, non ci si riesce. Siamo in una carrozza coi vetri oscurati, e corriamo nella notte, senza sapere dove stiamo andando.»
5) Il grande personaggio in sottotraccia sarà destinato a diventare un assoluto mito (in sottotraccia). Volerà, in ossequio al suo essere “simbolo del vento”, ne L’esorcista 2 – L’eretico, il sequel del ’77 firmato da John Boorman, primo e ultimo film in cui il Nemico è chiamato per nome (e lo fa testualmente Padre Lamont, quando Regan posseduta gli dice: «Chiamami col nome del mio incubo»), caratterizzato da una strumentale delocalizzazione della sceneggiatura del demone dell’Iraq al continente nero, spostamento geografico e temporale ispirato da Blatty – nonostante la sua totale estraneità al sequel – tramite la generica battuta di Padre Merrin di cui sopra su un certo esorcismo effettuato in Africa dodici anni prima gli eventi di Georgetown.
Poi lo stesso Blatty ne L’esorcista III accenna soltanto a un più che generico “Maestro”. Invece nei due film “gemelli diversi” del 2004, L’esorcista – La genesi di Renny Harlin e il giammai doppiato per l’Italia Dominion – Prequel to the Exorcist di Paul Schrader, Pazuzu c’è e come, solo che nessuno ha l’ardire di chiamarlo con “il nome dell’incubo”. Val la pena di ricordare l’incredibile esistenza di due film molto analoghi, per quanto diversi. Alla base del tutto la decisione della Morgan Creek che fece in fretta e furia rigirare il prequel de L’esorcista di Friedkin a Renny Harlin, regista di action senza poche sottigliezze, dopo avere giudicato non presentabile sul grande schermo la versione appena ultimata di Paul Schrader. Il risultato pratico è che abbiamo, caso forse unico nella storia del cinema, da un lato il fracassone e citazionistico Exorcist – The Beginning, uscito al cinema, e dall’altro il raffinato quanto gelido Dominion di Schrader, disponibile solo in DVD originale, a nostro parere quanto mai preferibile al primo. In ambedue assistiamo all’identico passaggio, quanto mai solare e “iracheno” (anche se ambientato in Africa), con un giovane Padre Merrin intento a scoprire le vestigia di un’antica chiesa cristiana e sotto di essa una cripta dedicata a tutt’altro genere di culto, una sorta di camera della morte di un’antica e sanguinaria deità. Indovinate chi? Basta guardare la statua appositamente ricostruita per i due film. Anche se mai nominato per nome (e anche in questo caso si fa un po’ il verso a Friedkin), non esistono dubbi. Stesse ali, stesso muso ferino, identici artigli. Ma già durante la lavorazione lo stesso Schrader aveva ammesso che quel diavolo era proprio Pazuzu. Anzi, in una sequenza onirica eliminata dal montaggio appariva addirittura la faccia di Capitan Howdy, l’alter ego demoniaco di Pazuzu nel primo film.
6) Mentre si tenta vanamente di seppellirlo nelle varie derive de L’esorcista, il demone di Blatty dilaga in altri luoghi e tempi della cultura di massa. Nella musica come protagonista di diverse canzoni di band alternative e come “nome dell’incubo” di almeno due gruppi, uno black metal finlandese e l’altro austriaco. In più di un fumetto e di un videogioco. Nei libri italiani La maschera di Pazuzu di Vito Introna, Il volo di Pazuzu di Mauro D’Angelo, Pazuzu di Yon Kasarai. Ne L’ombra del dio alato e nei racconti Jay-rtf e Il ritorno di Jay da me scritti. Come gigantesca statua di sei metri, ancor più di quella “finta” vista nel prologo de L’esorcista, montata nel castello di Rivoli nell’estate del 2008, come “guardiana” dell’allestimento sonoro di Roberto Cuoghi, Suillakku, una orgiastica miscelazione di rumori, musica e canti, che l’autore ha ipotizzato essere lamentazione collettiva in una profusione di suoni, versi animali e musiche da altre dimensioni, che definire “demoniaca” sarebbe assai riduttivo. Della durata totale di dieci minuti, ma trasmessa ad libitum senza stacchi intermedi, Suillakku ti afferrava nelle viscere e ti trascinava in un universo lisergico e antico, dove malasorte e spiriti maligni sono tutt’uno con le tempeste di vento e le distese di sabbia a perdita d’occhio. Paesaggi della mente che forse ci portiamo dentro, come un’impronta nel DNA a ricordare che i primi grandi contrasti della storia dell’umanità, quelli tra noi e l’Altro Demoniaco, avvennero proprio in questi set primordiali.
E forse proprio qui sta l’enorme intuizione di Wlliam Peter Blatty a proposito di Pazuzu.
7) Forse consacrazione definitiva:
«… afferrai le cartelle di sinistra e le aprii sulla scrivania. L’antichità con i primi demoni della storia umana, scaturiti dalla tradizione sumera e da quella babilonese. Mi soffermai su una delle principali creature di questa mitologia: Pazuzu, di origine assira, signore delle febbri e dei flagelli. Ai tempi dell’università avevo seguito un corso di demonologia. Conoscevo quel mostro, con le sue quattro ali, la testa di pipistrello e la coda di scorpione. Personificava i venti malefici, portatori di malattie e infermità. Osservai il suo grugno rincagnato, i denti caotici. Aveva ispirato secoli e secoli di tradizione diabolica. E quando si girava un film importante sul diavolo, come L’esorcista di William Friedkin, era ancora Pazuzu, angelo nero dei quattro venti, che veniva riesumato dalle sabbie dell’Iraq.»
Scritto da uno dei più attenti “Rabdomanti del Male”, il francese Jean-Christophe Grangé, autore del celeberrimo I fiumi di porpora e i cui testi, solo in apparenza polizieschi, sono sempre percorsi in sottotraccia da un brivido metafisico profondamente horror. Non fa eccezione, anzi scava nel demoniaco più degli altri, l’adrenalinico Le serment des limbes (in Italia, Il giuramento, Garzanti, Milano, 2008), serratissima indagine sul Male e sul satanismo durante la quale il ghigno di Pazuzu torna più volte a tormentare i sonni (e la veglia) del protagonista io narrante. Un grande omaggio a Blatty.