di Mazzino Montinari
Riflettere sull’eroe all’interno della più ampia questione dello spettatore e dell’attore, significa indagare sulla nostra doppia condizione di individui: da un lato, come attori, siamo continuamente coinvolti nell’agire quotidiano, in un’incessante dinamica che non permette di risalire al senso dell’esistenza in comune con gli altri; dall’altro, come spettatori, proprio per risalire a quel senso, avvertiamo la necessità di un distacco per osservare dove e con chi siamo. Queste due figure che dimorano presso di noi, sono in grado di comunicare e di riconoscersi? E possono abitare nella stessa persona?
Sollecitati da queste domande prendiamo in considerazione due film con protagonisti supereroi: uno più noto e raccontato in una storia dai toni cupi; l’altro invece immaginato nel momento della sua presa di coscienza.
Il cavaliere oscuro (The Dark Knight, 2008) di Christopher Nolan
Batman e il Joker, l’uno opposto all’altro, sono “eroi” che agiscono e che, al tempo stesso, comprendono il mondo a distanza. Si perdono entrambi nel caos provocato anche dal loro agire e, però, riescono ad allontanarsi per osservare, per comprendere ciò che accade, per risalire di volta in volta, mai definitivamente, il senso di quel mondo.
Sia Batman che il Joker hanno uno sguardo sul mondo e non agiscono per un interesse strettamente personale ma per uno collettivo, il primo a difesa della città, il secondo invece per distruggerla. Questa specularità non è fine a se stessa, non è semplicemente tesa a teorizzare l’identità dei poli opposti, ma sta a indicare che nel mondo delle vicende umane non esiste uno sguardo giusto in quanto tale. Ossia, non è prendendo le distanze e osservando fuori dagli interessi personali che si percorre automaticamente la retta via. L’attore e lo spettatore vivono nello stesso mondo e hanno a che fare con la contingenza e la fragilità connaturata all’esistere.
Sia Batman che il Joker, nonostante questa capacità di sguardo, non riescono a essere “cittadini del mondo”, cioè non possono stare ovunque, forse non hanno proprio alcun diritto di residenza. E se per il Joker questo è abbastanza comprensibile, dal momento che il suo obiettivo è dar fuoco alla città, per Batman è meno giustificabile, almeno in apparenza. Il cavaliere oscuro da questo punto di vista è un film radicalmente pessimista. Non c’è spazio per gli eroi, non c’è ricompensa per chi sa dove guardare. Nel mondo degli affari umani, e Gotham ne è una rappresentazione, nessuno è fuori dalla contesa e può porsi al di sopra degli altri, nemmeno chi ha una visione chiara delle cose, perché è con la pluralità dei punti di vista che ci si deve inevitabilmente confrontare.
La congiunzione di attore e spettatore poteva trovare nell’uomo pipistrello la sua realizzazione, ma le cose sono andate storte, Batman è costretto al sacrificio, a farsi da parte per consegnare alla collettività un’altra figura di eroe, quella del martire, del procuratore Harvey Dent, che non vede e non agisce più, che da morto non è più sottoposto alla fragilità degli accadimenti umani, alle debolezze che in vita lo avevano portato a stretto contatto col male. È lui, l’esempio da seguire, l’eroe designato, almeno fino al giorno in cui qualcuno non deciderà di ridisegnarne il profilo. Ma fino a quel momento e forse anche oltre, Batman, nell’invisibilità dell’esilio per essersi assunto delle colpe non sue, non sarà più d’esempio per gli altri.
Il Joker nella sua mostruosità a volto scoperto, invece, porta alla luce l’inconsistenza del mondo fondato sulla ricchezza e le vane ambizioni di dominio. E anche se alla fine sembra essere stato sconfitto, in realtà è riuscito a incendiare la città e quindi a interpretare la radicalità del caos.
Unbreakable – Il predestinato (Unbreakable, 2000) di M. Night Shyamalan
È il 1961 a Philadelphia, un bambino afroamericano è appena nato. C’è un problema però, le sue gambe e braccia sono rotte, fratture procurate prima ancora di uscire dal grembo materno. Un dottore lo visita e dichiara di non aver mai visto una cosa simile.
Ai giorni nostri, sempre a Philadelphia, un uomo è su un treno. Ha un momento d’inquietudine apparentemente immotivata. Il treno ha un incidente, muoiono tutti tranne lui che esce illeso senza un graffio. Ancora un dottore che non può fare altro che ammettere di non aver mai visto una cosa simile.
Il bambino è cresciuto. Elijah Price è l’uomo di “vetro” a causa delle sue ossa che si rompono al minimo contatto con la realtà circostante. Elijah cerca di capire quale sia il suo ruolo nel mondo. È diventato un esperto di fumetti e di supereroi. Non si accontenta di fantasticare, quello che legge vuole trovarlo nella vita. David Dunn, il sopravvissuto, è invece una guardia in uno stadio di football, rassegnato a una vita modesta, e anche per questo in crisi con se stesso, con la moglie e il figlio.
Unbreakable permette uno sguardo originale sul tema del supereroe. Alla questione del rapporto tra attore e spettatore, relazione che nel corso della storia si trasforma in modo significativo, si aggiunge quello della domanda intorno alla propria destinazione, al ruolo da interpretare. E in questo processo di formazione, Elijah, il fragile, è il mentore che sta all’esatto opposto di David, l’indistruttibile. È l’uomo di vetro a far scoprire a David quello che da sempre era senza che ne fosse a conoscenza, un eroe dotato di superpoteri.
Fino a questo punto sembra chiaro che Elijah è lo spettatore e David l’attore. Uno pare essere consapevole della realtà circostante, delle minacce e dei miracoli che si annidano nel mondo, l’altro si muove alla cieca insieme a una moglie che ha paura di perderlo e che interpreta l’incidente del treno come una seconda opportunità per la loro relazione, e a un figlio che invece vorrebbe tanto credere alla figura del padre come supereroe. Poi accade qualcosa e tutto si ribalta.
David acquista consapevolezza dei suoi poteri. Non solo con la sua forza può proteggere le future vittime, riesce a percepire il destino di chi tocca accidentalmente. Anche lui ha la sua kryptonite, il suo tallone d’Achille è l’acqua. Non è più un semplice attore inserito in una trama che non comprende. Ora può essere d’esempio per gli altri e soprattutto è in grado di osservare il mondo.
E come tutte le storie di supereroi, anche questa ha il “cattivo” per eccellenza. Si manifesta alla fine ed è Elijah che rivela il suo ruolo di attore e non di osservatore imparziale. È lui ad aver provocato gli incidenti al treno e in precedenza l’esplosione di un aereo e l’incendio di un hotel, al solo scopo di scoprire l’esistenza di un supereroe. E alla fine trovandolo si pone definitivamente agli antipodi di David.
«Sai qual è la cosa più spaventosa? – rivela Elijah -. Non sapere qual è il tuo posto nel mondo. Non sapere perché sei qui. È una sensazione terribile. Quasi non ci speravo più. Ho dubitato di me talmente tante volte. Ma ti ho trovato. Così tanti sacrifici solo per trovarti. Ora che sappiamo chi sei tu, so chi sono io. Non sono uno sbaglio».
Il sodalizio tra i due protagonisti si rompe perché le domande esistenziali che Elijah e David si pongono, seppur simili, hanno motivazioni profondamente diverse. Il primo vuole conoscere il suo ruolo nel mondo prescindendo dal mondo stesso. La ricerca forsennata del supereroe lo ha portato a compiere atti disumani, il suo potere si risolve nell’essere il negativo di David. È una risposta che cerca esclusivamente per sé. Mentre David, indossato il mantello, consapevole dei suoi poteri, al contrario di Batman, può calarsi tra le persone per comprendere i loro atti e proteggerle, invisibile, senza ostentazione, a parte un piccolo strappo alla regola quando mostra al figlio ciò che ha fatto e forse farà in avvenire. Il poter essere “per” e “tra” gli altri, questa la risposta che David cercava per sconfiggere la sua tristezza e che oggi come ieri in questa terra sembra un miraggio sbiadito.
[Il tema dell’eroe è già stato affrontato su Carmilla da Luca Cangianti e Fabio Ciabatti (qui e qui)]