di Armando Lancellotti
Luc Boltanski, Arnaud Esquerre, Verso l’estremo. Estensione del dominio della destra, Mimesis, Milano – Udine, 2017, pp. 78, € 6,00
A questo libretto o pamphlet dei sociologi Luc Boltanski e Arnaud Esquerre – non «uno studio specialistico appesantito di note, […] né un editoriale politico, […] bensì […] un genere discorsivo trascurato da qualche decennio, ovvero quello dell’analisi impegnata» (p. 17) – si debbono riconoscere almeno tre meriti: innanzi tutto quello di essere profondamente immerso nella materia che tratta, in quanto scritto tra il febbraio e l’aprile del 2014 “sotto l’urgenza dei fatti”, da intendersi come il dilagare inarginabile dell’estrema destra francese, di quel Front National, che un paio di mesi più tardi, nelle elezioni europee del 24-25 maggio, si sarebbe affermato come primo partito nazionale con il 25% circa dei consensi. Il secondo merito consiste nel fatto di considerare la spaventosa deriva politica francese ed europea verso l’estrema destra attraverso l’analisi delle parole, dei termini, delle forme linguistiche che esprimono concetti dentro ai quali si addensano grumi di pensiero reazionario e fascista che, qualche anno fa ripescati dalla loro condizione di latenza e riemersi attraverso i percorsi carsici del pensiero politico, ormai imperano, tracotanti e sicuri al punto da essersi trasformati in un nuovo “senso comune”, in un «inquietante spirito del tempo in espansione» (p. 8). Ed infine, non meno importante è l’intento di contribuire al risveglio di una sinistra francese (e poi europea) che disorientata e tramortita non sembra in grado di resistere all’onda montante di questo nuovo “fascismo da terzo millennio”. [Per analoghi temi riguardanti l’estrema destra italiana vedi su Carmilla “Cinghiamattanza”: pensieri, parole ed opere dei “fascisti del terzo millennio”].
«Pertanto» – scrivono gli autori – «se non si vuole vedere la sinistra spegnersi e scomparire dallo spazio politico […] è urgente approfondire l’analisi della sua condizione attuale, elaborando un’autocritica paragonabile a quella che fu necessaria alla fine degli anni Cinquanta con lo stalinismo e che, attraverso i movimenti del maggio 1968 rinnovò la sinistra negli anni Settanta» (p. 16).
E nei poco più di due anni intercorsi tra l’uscita del libro e la sua traduzione italiana la situazione politica francese, europea, occidentale non pare certo essere migliorata, come dimostrano la crescita esponenziale dell’estrema destra in Austria o in Germania (dove nel 2016 gli attacchi di formazioni neofasciste contro i migranti sono raddoppiati, secondo i dati della stessa polizia tedesca) o le politiche intraprese dal governo Orbán in Ungheria o dal governo del PiS (il partito di Kaczyński) in Polonia e in generale dai paesi del gruppo di Visegrád, sempre più arroccati su logiche nazionalistiche e di ostinata e ottusa chiusura ai migranti. L’elezione di Trump alla fine dell’anno completa un quadro fosco che rischia di incupirsi ulteriormente nella prossima primavera con le elezioni presidenziali francesi, che pare abbiano già scontato l’affermazione al primo turno, precedente il ballottaggio, di Marin Le Pen.
L’intento del libro, scrivono i due autori, è «quello di reagire alla diffusione di idee, termini e temi reazionari che l’estrema destra contemporanea spacciava come cose evidenti e neutre, ma che aveva invece riesumato rivisitando le sue tradizioni» (p.7). Il riferimento è «all’Action Française, un movimento che, dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Trenta del Novecento e oltre, ha avuto un ruolo centrale nello sviluppo di un nazionalismo aggressivo e xenofobo, pretendendo, come altri fascismi europei, di sposare la causa di una cultura alta, minacciata dalla modernità cosmopolita, e un’idea ancestrale di popolo minacciato dall’immigrazione» (p.7).
Idee e parole vecchie, ma riproposte come nuove e rivoluzionarie in un quadro di disarmante disorientamento politico, che rende possibili operazioni ideologiche quali quelle dell’estrema destra in tutta Europa, che pretende di presentarsi come l’unico attore politico capace di elaborare ed esprimere un pensiero coraggiosamente sconveniente, sprezzantemente sincero e perciò controcorrente ed anticonformista ed incurante delle precauzioni politicamente corrette e delle cautele ipocrite dell’intellighenzia di sinistra erede della presunta “dittatura culturale sessantottina”, ma proprio per tutti questi motivi portatrice di un pensiero schiettamente ed autenticamente “popolare”.
Le parole ed il loro uso efficace sono da sempre straordinari strumenti di lotta politica, soprattutto quando si verificano fenomeni di trasgressione linguistica o di traslazione e deformazione semantiche che culminano nel capovolgimento del significato delle parole. Le trasgressioni linguistiche «rendono […] lecite espressioni fino ad allora ritenute scandalose e provocano la censura o l’autocensura per espressioni fino ad allora ritenute accettabili» (p. 9) e l’imbarbarimento linguistico-politico verificatosi nell’Italia berlusconiana con la Lega di Bossi può costituire per noi italiani un caso paradigmatico di questo fenomeno.
Lo slittamento di concetti e parole dal vocabolario della sinistra a quello della destra non è di per sé una novità degli ultimi tempi e se cent’anni fa, all’inizio del secolo scorso, la decontestualizzazione straniante dei concetti di proletariato e lotta di classe ne permise il riutilizzo ad opera di nazionalismo e fascismo, oggi l’estrema destra ha gioco facile nell’impadronirsi degli argomenti della sinistra critica contro neoliberismo e globalizzazione finanziaria, facendone i propri cavalli di battaglia, dopo averli sovraccaricati di significati di destra, cioè nazionalistici, identitari, xenofobi, in una parola sola, fascisti.
«Ciò vale innanzi tutto per l’uso nel gergo dell’estrema destra di temi presi a prestito da una sinistra critica che – dopo la scomparsa del partito comunista e di fronte alla crisi della socialdemocrazia, segnata sul piano economico dall’attenzione ossessiva al debito e sul piano elettorale dalla sua incapacità a contrastare la crescita dell’astensionismo – ha cercato di ricompattarsi designando il neoliberalismo come nemico principale. Ormai immersa nella configurazione ideologica dell’estrema destra, la critica al neoliberalismo si è caricata di significati nazionalisti. Viene soprattutto rivolta contro l’Europa, accusata di essere il cavallo di Troia della globalizzazione e della finanza internazionale, impoverendo così il “vero popolo di Francia” a vantaggio, da una parte, degli immigrati, dall’altra, delle élite cosmopolite incarnate dai “bobos”, eufemismo designante i lavoratori della cultura, vilipesi per il loro essere aperti al mondo» (pp. 10-11).
Il vizio d’origine che ha consentito il travaso di temi ed argomenti prima appannaggio della sinistra radicale nel bagaglio ideologico della destra consisterebbe, secondo Boltanski ed Esquerre, nell’aver accomunato liberismo e liberalismo con conseguente estensione della critica a neoliberismo economico e globalizzazione finanziaria al liberalismo tout court, alla democrazia e alla socialdemocrazia, prestando così il fianco all’azione di innesto, sul tronco di questa critica politica di sinistra, del comunitarismo identitario nazionalista, antidemocratico, autoritario e presto xenofobo, presentato come correttivo alla globalizzazione imperante. E così la nuova pianta ha inglobato la precedente su cui si è innestata e ha messo rapidamente radici, trovando terreno fertile nella crisi economica generale e nell’immiserimento della classe operaia e dei ceti medi, che stanno rispondendo al richiamo di utopie identitarie antimoderne e antiuniversalistiche, «di tipo vagamente heideggeriano» (p. 13), che ricercano nuove possibilità di “essere nel mondo autentico” anche attraverso la proposta o il recupero di vincoli sociali di tipo affettivo ed emotivo e non più giuridico e razionale, i quali «avevano caratterizzato la rottura storica segnata, nel XVII secolo, dal sorgere del liberalismo» (p. 13).
Secondo Boltanski ed Esquerre, oggi l’iniziativa politica appartiene alla destra che ha saputo sfruttare i pesanti cambiamenti prodottisi, a seguito della crisi economica, sulla realtà quale era venuta strutturandosi dopo la fine della guerra fredda e che prevedeva come attori principali una destra liberale su posizioni economico-sociali liberiste, verso le quali convergeva anche una sinistra socialdemocratica, che lasciava alla sinistra estrema «il compito di criticare il neoliberalismo» (p. 19). La destra estrema, ai margini di questo quadro, manteneva le proprie tradizionali posizioni ostili al liberalismo politico e conseguentemente al parlamentarismo, all’individualismo e alla democrazia, ma dandosi una veste liberista in economia, nel tentativo di attirare il consenso di piccoli imprenditori e classi medie.
La svolta decisiva, intervenuta negli ultimi anni di crisi economica, è consistita invece nel recupero da parte della destra di un cavallo di battaglia del fascismo degli anni successivi alla crisi del ’29, cioè l’antiliberismo «in difesa del popolo e invocante lo Stato», associato «generalmente a un’opposizione tra la buona economia nazionale e il capitalismo cosmopolita» (pp. 21-22).
Nell’interessante quarto capitoletto, Il popolo visto da destra, i due studiosi considerano il modo in cui viene concepito e definito quel “popolo” che l’estrema destra francese intende sottrarre al campo politico della sinistra e difendere dai raggiri del capitale finanziario globale e lo fanno denunciando un altro caso di deformazione e traslazione del campo semantico delle parole.
«L’intelligenza politica d’estrema destra ha […] saputo rimodellare nel corso del tempo il tema classico dello sfruttamento, che era servito di base al movimento operaio e soprattutto ai comunisti, riorientandolo in riferimento a un’altra figura, dall’apparenza meno tinta di marxismo e più “democratica”, quella della rappresentazione. In questa chiave, il popolo non soffre soltanto la disoccupazione e la miseria ma, prima di ogni altra cosa, lamenta un deficit di rappresentazione, un termine usato con un’accezione vaga che va dalla rappresentanza politica in senso stretto alla rappresentazione mediatica nelle forme culturali» (p. 27).
Ne consegue una categorizzazione manichea che contrappone un “popolo buono” da promuovere e salvaguardare ad uno “cattivo”, esattamente come proponeva il fascismo tra le due guerre – ancora un caso di recupero di temi ed argomenti dell’estrema destra primonovecentesca – nel tentativo di ritagliare uno spazio per la propria “terza via” nazionalistica, alternativa al cosmopolitismo del grande capitale finanziario e all’internazionalismo e al collettivismo comunisti. Solo che allora il “popolo buono” si definiva attorno ad un tipo antropologico rurale, tradizionale, antico, che non aveva ancora conosciuto gli effetti corruttori della modernità, dell’urbanizzazione, della massificazione che avevano nel frattempo fagocitato il proletariato «ridotto allo stato di folla gregaria, imbastardito da uno stile di vita depravato e confuso da idee moderniste» (p.28) e socialiste.
Oggi, invece, a seguito dei numerosi passaggi storico-politici intercorsi, delle profonde trasformazioni del modo di produzione capitalistico e della crisi del marxismo e del socialismo, il mondo operaio non ha più la carica di pericolosità di un tempo e – di nuovo un caso di “travaso” da sinistra a destra – può assurgere agli occhi della destra estrema al ruolo di “popolo buono” «a cui appartengono, per esempio, gli “uomini di quarant’anni, bianchi, eterosessuali, sposati, con figli, residenti in regioni in declino, minacciati dalla disoccupazione”, insomma la “gente normale”», da contrapporre al “popolo cattivo”, «fatto di gente che vive di forme d’assistenza sociale: froci, lesbiche, intellettuali precari, arabi, neri, sans-papiers, abitanti delle banlieues, puttane, femministe e donne col velo» (p. 29). Ed è a questi “francesi normali” che va riconsegnata la Francia, come va predicando il Front National della Le Pen.
Altre stelle polari della costellazione ideologica dell’estrema destra europea odierna sono la politica securitaria e l’ossessione identitaria, che tra loro si intrecciano e si rimandano.
Secondo Boltanski ed Esquerre, il tema secutitario è stato messo in relazione con quello di una “moralità popolare” che si ritiene minacciata da attacchi provenienti da più parti ed in particolare dagli stranieri (musulmani delle banlieues degradate su tutti) e dai bobos, inutili intellettuali che chiacchierano dei loro presunti valori di sinistra. Ma il concetto di morale a cui si riferisce il discorso della destra estrema francese è declinato e definito nella forma più povera e banale che si possa concepire e cioè come buon senso popolare, come decenza, buone maniere, buona educazione e rispetto dei valori di un tempo. Questa interpretazione svilente del concetto di moralità ha condotto all’equiparazione o quanto meno alla comparazione tra reati gravi ed inezie (la cosiddetta – scrive Boltanski – “teoria del vetro rotto”), che innanzi tutto «ha consentito […] l’estensione degli atti passibili di sanzione legale e, in questo modo, le misure di controllo fin quasi alla provocazione» (p. 34) ed in secondo luogo ha condotto all’attribuzione indistinta ad un intero gruppo sociale, ad una parte della popolazione o ad una categoria della patente di immoralità, cioè di inciviltà, ora a causa di costumi lassisti e troppo permissivi ed ora per motivi opposti, cioè per la «intransigenza nel trasmettere usi appartenenti ad altre “culture”, intolleranti, violente e maschiliste, quasi per definizione; e quindi, evidentemente, non solo diverse dalla “nostra”, ma anche incompatibili» (p. 34).
Il buon senso morale del “popolo buono” è messo in pericolo non solo dall’inciviltà delle periferie degradate, palestre di criminalità, ma anche «dalla hybris devastatrice dei “bobos” e di altri “liberali
acculturati” che vogliono far passare per ideali di sinistra i loro desideri sfrenati e le loro tendenze bizzarre. Per compiere finalmente una vera Rivoluzione (nazionale) conviene perciò scoprire in noi stessi, insieme (ma senza gli “altri”), ciò a cui teniamo veramente, sollevando il velo che la (falsa) critica – silenziosamente all’opera da un bel pezzo – ha gettato sui nostri (veri) valori, che invece ci permettono di stare in piedi, per nasconderne la necessità e offuscarne la dignità. Insomma, si tratta di stabilire cosa vogliamo conservare» (p. 35-36).
Del bisogno e della difesa di una identità si fa un gran parlare negli ultimi decenni, essendo questo tema uno dei più dibattuti sia sul piano politico sia su quello culturale ed intellettuale, soprattutto da parte di coloro che ne denunciano allarmati la scomparsa: innanzi tutto i nazionalisti e i cattolici, ma – ritengono Boltanski ed Esquerre – anche quelle correnti della sinistra che si richiamano alla tradizione del repubblicanesimo. Questo porta ad un forte addensamento attorno ad uno stesso tema e a rischiosi intrecci tra correnti, movimenti, orientamenti diversi e distinti, ma accomunati da una sorta di “ossessione per l’identità”. Soprattutto il repubblicanesimo, trasformato in una «sorta di mito politico» è riuscito «ad assurgere a incarnazione di un’identità francese allo stesso tempo nazionale e universale, come dovrebbe essere la cultura repubblicana, considerata tanto più universale quanto più è nazionale» (p. 40).
L’attenzione per i temi identitari è oggi particolarmente preoccupante dal momento che ha smascherato il suo lato oscuro, la sua seconda faccia, quella xenofoba che odia stranieri e migranti che pregiudicherebbero «la “povera” identità della Nazione» e sarebbero «veicolo di una “grande sostituzione” che segnerebbe il crollo della “nostra” civiltà sotto i colpi dell’islamismo» (p. 41-42). Anche in questo caso, l’archetipo di tale idea politica è da rintracciarsi nel passato dell’Action Française, con la differenza di un riorientamento soprattutto contro i mussulmani di «un’ostilità che nella prima metà del Novecento colpiva principalmente ebrei ed ebraismo, svolgendo un ruolo centrale nella costruzione di un vero popolo autoctono, schiacciato dai meteci e dagli altri “stranieri interni”» (p. 42).
Se queste ed altre analoghe idee, che i due sociologi francesi esaminano nelle poche pagine di questo breve ma denso saggio, sono ormai divenute “senso comune”, “spirito del tempo odierno”, se hanno già conquistato lo status dell’”ovvio”, del “ciò che va da sé” perché sottinteso dai più, quale ruolo e quale spazio rimangono alla disponibilità delle altre forze politiche francesi e della sinistra critica in particolare? Come quasi sempre accade ed è accaduto in casi di questo genere, la reazione immediata e più semplice, per non dire semplicistica, consiste in un generale slittamento verso destra di tutte le forze politiche, quasi a volere «attutire il colpo accompagnandolo» (p. 61). Ma se questo è più facilmente comprensibile per una destra liberale che per opportunismo elettorale mutua dalla destra estrema alcuni punti programmatici, più difficile da comprendere e giustificare risulta l’analoga operazione compiuta dal Partito socialista francese, tutto intento a «compiere grandi sforzi per occupare il posto, ritenuto vuoto, del centro, o piuttosto del centro-destra, a seguito del declino imbarazzato di una destra “moderata” e “sociale” (che a lungo si è rifatta al gollismo). […] Ne è una dimostrazione l’ultima trovata di un “socialismo” ormai alla frutta, giunto al governo senza altro progetto se non quello di una gestione esemplare, secondo i criteri delle banche, delle agenzie di rating e delle autorità di Bruxelles; ridotto al soccorso di imprese capitaliste – cioè di coloro che le possiedono – invece di occuparsi prioritariamente della riduzione delle diseguaglianze» (p. 62 ).
Ma ancora più preoccupante è – a parere di Boltanski ed Esquerre – quanto accade nel campo dell’estrema sinistra e proprio con le considerazioni allarmate che i due autori propongono sul disorientamento rinunciatario della sinistra radicale concludiamo la presentazione di questo interessante libretto tradotto e pubblicato in Italia dall’editore Mimesis.
«Ma ciò che accade nell’estrema sinistra è ancora più preoccupante. In questo caso gli spostamenti […] dipendono […] da una sorta di sudditanza nei confronti di una base che tende a sfuggirle nel suo progressivo spostarsi quasi impercettibilmente e quasi innocentemente, se non inconsapevolmente, verso destra. […] Ma ciò che colpisce, nell’estrema sinistra attuale, è […] l’assenza quasi totale di ideologia e, allo stesso tempo, non il compimento di azioni dettate da analisi sbagliate, ma l’assenza di analisi e quindi di orientamento consapevole da cui far discendere delle azioni. L’ondata altermondialista di inizio anni Duemila e quella, dieci anni dopo, degli indignati e dei movimenti di occupazione contro l’1% dei più ricchi (ispirati da “Occupy Wall Street”) si sono esaurite senza riuscire a impedire alle società europee di finire in balia di una destra sempre più tirata verso l’estremo. […] Ma perché le posizioni di sinistra possano distinguersi nettamente da quelle dell’estrema destra bisognerebbe almeno che poggiassero su analisi innovative. Da una parte in grado di connettere la situazione politica attuale ai grandi cambiamenti che hanno coinvolto le classi sociali, le forme di proprietà, la distribuzione dei vantaggi e del potere, ossia le forme di dominio nell’Europa occidentale […]. Dall’altra in grado di rinnovare un internazionalismo che, in condizioni non meno difficili di quelle che stiamo conoscendo attualmente, ha rappresentato la forza e il vertice del movimento operaio. Inoltre, non dovrebbero trascurare le trasformazioni ecologiche in corso. Infine, converrebbe riflettere sulle condizioni di estensione della democrazia, anzitutto nelle sue forme elettorali che, a prescindere dalle modalità in cui si svolgono le consultazioni, sono proprie all’esigenza democratica» (pp. 62-64).