di Simone Scaffidi
L’Avana. Plaza de la Revolución. Eloy ci serve la colazione: latte, caffè, goiaba, uovo con pancetta. Poi ci dà qualche consiglio per visitare il quartiere Vedado. Alla modica cifra di dieci pesos moneda nacional, ovvero meno di quaranta centesimi di euro, arriviamo fino a Plaza de la Revolución in taxi. Qui osserviamo le solenni effigi di Ernesto Che Guevara e Camilo Cienfuegos che dominano la piazza, l’una sulla parete del Ministerio del Interior e l’altra sulla facciata del Ministerio de Informática y Comunicaciones. I loro faccioni dai contorni metallici non sorridono e se per Guevara possiamo pure in parte accettarlo, per Camilo no. L’imponente monumento dedicato al padre della patria José Marti si erge altissimo davanti ai due comandanti. Ai suoi piedi un museo a lui dedicato e su lato occidentale della piazza la biblioteca che porta il suo nome. Grazie a un ascensore raggiungiamo la cima del monumento e scopriamo L’Avana da una prospettiva nuova. Le facce di Guevara e Cienfuegos si sono rimpicciolite, e da quassù ora è la piazza a dominarle. Riconosciamo l’inconfondibile architteturra dell’Hotel Nacional e col dito tracciamo nell’aria il profilo del Malecon. Ci ritornano in mente il tramonto di ieri e i pescatori. Il sole batte forte. La piazza è grigia. Il mare azzurrissimo. L’Avana dall’alto è un’esplosione di contrasti che si tuffano nell’oceano.
Università. Da Plaza de la Revolución ci spostiamo verso l’università, una delle più antiche delle Americhe. Ci arriviamo da una prospettiva inaspettata, dall’alto e di lato, non da sotto risalendo la grande scalinata. Rimaniamo piacevolmente colpiti dalla sua vivacità. Nell’edificio della facoltà di filosofia c’è un ritratto coloratissimo di Simón Bolívar donato a Cuba dal presidente venezuelano Hugo Chavez, stroncato pochi giorni fa da un tumore. Nella stanza d’ingresso sono appesi i ritratti di Fidel, Raul, Camilo ed Ernesto. Ci stupiamo, è molto raro incontrare fotografie del Lider Maximo. Chiedo a un bidello se conosce lo scrittore Daniel Chavarría e se ci sono possibilità di incontrarlo per di là. L’uomo mi guarda perplesso, si dispiace, sembra non conoscerlo. Scendiamo l’imponente scalinata dell’università e ci dirigiamo verso l’Hotel Habana Libre, ex Hotel Hilton espropriato dai guerriglieri all’indomani del 1° gennaio 1959 e diventato il quartier generale dei ribelli e di Fidel. Era stato inaugurato appena nove mesi prima della Rivoluzione. Riusciamo a entrarci, non sappiamo neanche noi bene come, prendiamo un ascensore e arriviamo all’ultimo piano. Nessuno ci ferma. E ora non so più se quello che sto raccontando è accaduto davvero. E non lo sa neppure la persona che ho accanto. C’è una stanza aperta, sembra una suite, la porta socchiusa. Sbrirciamo, esitiamo, poi entriamo. E lì li vedo seduti sui divani, sarà il 6 o 7 gennaio del 1959, ci sono i comandanti, c’è Fidel, c’è Celia. Fumano. Ridono. Ma sono risate tese. La vittoria eccita, l’impazienza regna, la paura. Sento la paura. Mi avvicino al vetro, siamo altissimi. Come possiamo restare quassù?
L’incontro con il figlio di Raul. Passeggiamo per il quartiere del Vedado, compriamo il quotidiano Granma da un signore che grida per la strada e saltiamo su un taxi colectivo per raggiungere Camilo. Ci aspetta all’incrocio tra Avenida 10 de Octubre e Calle Dolores. Insieme compriamo gli ingredienti essenziali per l’aperitivo: rum, cola e patatine. Affacciandomi dall’entrata sopraelevata del negozio, alla vista del parcheggio adiacente, gli occhi mi si colorano. Una decina di auto d’epoca color pastello sono ordinate una accanto all’altra a spine di pesce. Dentro quale film hollywoodiano mi trovo? Camilo ci tiene a farci conoscere la sua famiglia. Incontriamo sua moglie, le sue due figlie e il caro amico Socrates. Socrates è molto simpatico. Ci racconta di sua moglie, dice che lavora come infermiera ma nella vita privata è una vera e propria poliziotta, perché lo controlla sempre. Ha la battuta sempre pronta e una risata grassa e calorosa. Camilo ci racconta un po’ delle sue esperienze in Italia, della sua scuola di arti marziali por la izquierda (in nero), dei suoi incontri illegali di pugilato per farsi qualche soldo e soprattutto del suo ormai ex lavoro per lo Stato cubano. Faceva parte di un dipartimento speciale, ancora attivo, che aveva l’obiettivo di portare capitali stranieri a Cuba. Camilo lavorava quindi legalmente in Italia e in Svizzera ma convinceva i suoi pazienti a recarsi a Cuba per continuare a farsi curare da lui por la izquierda. Buona parte di quello che guadagnava in Italia e in Svizzera andava allo stato cubano. Prima di questo impiego lavorava per la sicurezza del corpo diplomatico all’estero e ha operato in Angola, Congo ed Etiopia. È un invasato di arti marziali e difesa personale. Racconta che una volta ha litigato con il figlio di Raul, e per risolvere i dissidi hanno deciso di sfidarsi in un incontro di boxe. E lui lo ha battuto. Il suo obiettivo nella vita, lo dice con orgoglio, è allenarsi, per essere sempre pronto a difendere la sua famiglia e la sua casa.
Omosessualità. La figlia di Raul Castro ha preso posizione in favore dei diritti degli omosessuali. Camilo e Socrates riconoscono con una certa umiltà di essere indietro su questi argomenti ma non accettano comunque la sua posizione. «Non è possibile che un gay valga più di un uomo che ha servito lo Stato e ha rischiato la sua vita per lo Stato, e per cosa poi..» sbotta Camilo. Sembrano ricorrere le lamentele di chi ha lavorato per il regime e non vede riconosciuto il proprio servizio dato allo Stato. Oggi Camilo ha deciso di evitare che la sua strada s’incroci con quella del regime. La sua vita, afferma, non è migliorata servendo lo Stato e quelli che non hanno mai fatto niente gli sono passati davanti. Lo dice alludendo agli omosessuali. Afferma di essere fortunato perché sua sorella è fuori, lavora in Spagna, a Murcia, e gli invia spesso dei soldi per mantenere al meglio le sue due bambine. La immagini di Fresa y Chocolate scorrono sotto le sue parole. È solo il terzo giorno che siamo sull’isola e già c’imbattiamo in una interessante conversazione sull’omosessualità con due cubani. Anche Socrates, come Eloy, ha studiato in URSS. Lui è stato cinque anni a Odessa in Ucraina, ha lavorato come ingegnere idroqualcosa e dice che il freddo e la neve gli sono piaciuti molto. La moglie di Camilo è in cucina, ci prepara delle patatine fritte buonissime. Le due bambine corrono a portarcele, scambiano qualche battuta con noi forestieri, e ritornano velocemente in casa. Siamo seduti in giardino, solo noi quattro, di giorno questo quadrato di cemento contornato dal verde si trasforma in palestra, qui Camilo allena se stesso e i suoi allievi a essere sempre pronti a difendersi dai nemici. Guardo la moglie e le figlie di Ernesto, ci conosciamo troppo bene, basta un lieve movimento degli occhi per leggerci i pensieri. Noi siamo spaparanzati a bere e chiacchierare di politica, Europa e omosessualità. Loro sono in cucina. Non si siederanno mai con noi, come nelle migliori famiglie italiane.
L’alcool scende e il rum sale. Il telefono di Socrates squilla e ho il piacere di parlare al telefono con la poliziotta, sua moglie, assicurandogli che il marito entro pochi minuti rientrerà a casa. Grasse risate. Salutiamo Socrates e lui appena arrivato a casa ci richiama. Abbiamo passato una bella serata ma non è finita qui. Ora dobbiamo conoscere la vera casa di Camilo, quella della madre. Saltiamo in macchina. Sulla soglia della porta ci accolgono sorrisi e calorosi abbracci di una donnona nera che non perde tempo ad offrirci un refresco all’arancia. Poi Camilo inizia il suo show e si mette a fare il mago. Non ha grandi doti e lo smascheriamo immediatamente. Nonostante il rum salga ai piani alti della testa ho ancora le forze di controbattere all’egocentrismo di Camilo con le stesse futili armi. I miei cavalli di battaglia sono il trucco di carte più stupido della terra e quello della moneta che entra nel gomito. La mamma di Camilo è felice, ci abbraccia, ci tocca e ride di gusto. Mentre ce ne stiamo per andare, in ingresso, ci accorgiamo dell’altare dedicato a Yemayà, la dea del mare e di tutti gli dei. Vorremmo stare tutta la notte a ridere nel bianco degli occhi di questa donna grassa e nera, ascoltare i suoi racconti sulla Santeria cubana, ma Camilo deve riportarci da Eloy. E proprio mentre apriamo la porta, un forte acquazzone tropicale ci sorprende.