di Cassandra Velicogna
Antoine Volodine Terminus Radioso, 66th and 2nd 2016, traduzione di Anna D’Elia, 540 pagg, 20 euro
Benvenuti a Terminus Radioso, il kolchoz immerso nella taiga di cui vi innamorerete. Ma come, un kholchoz, nel 2017? La Treccani chiama kolchoz “l’azienda agricola collettiva consiederata da Lenin lo strumento del passaggio dalla coltivazione privata della terra alla socializzazione”. Lo specifico villaggio con cui abbiamo a che fare è addirittura autoregolamentato, una sorta di comune autonoma all’epoca della Seconda Unione Sovietica. Terminus, quindi sia “stazione” che confine ultimo. Radioso come il sole dell’avvenire… Potrebbe sembrare una sorta di sogno. Ma le cose non sono mai quelle che sembrano nei buoni romanzi.
Romanzo uscito in Francia nel 2014, Terminus Radieux (vincitore del premio Médicis per quell’anno) non è classificabile nel genere fantascienza. Antoine Volodine è stato molto chiaro su questo: è un romanzo post esotico e tutti i critici lo devono ritenere tale. La definizione suona bene, davvero accattivanete e, ogni tanto, come fu per la New Italian Epic, fa bene alla critica il suono di vocaboli nuovi. Peccato che il post esotismo abbia come secondo esponente Lutz Basmann e come terzo Elli Kronauer. Il primo è uno pseudonimo di Antoine Volodine (anch’esso pseudonimo), il secondo addirittura un personaggio di Terminus Radioso… Insomma un divertissement dell’autore, anche se da prendere molto, molto sul serio: questa letterartura è in effetti qualcosa di nuovo. Quindi che sia burla o narcisismo, il post esotismo è un’avanguardia interessante a cui speriamo si aggiungano presto emuli degni di Volodine.
Letto tra le righe, ma nemmeno troppo, quello che a primo sguardo sembra un western sognato da P.K. Dick (vedi pagine 372-404), si trasforma effettivamente in un manifesto programmatico: il richiamo a ragionamenti sulla scrittura, sui libri e sulla letterartura è costante. Lo stile e l’immaginario di Terminus Radioso sarebbero facilmente riconducibili a un filone, solo che quel filone va inventato: non male come sfida! Nel mondo di Volodine anche i vagabondi si trasformano in rapsodi, la “principessa” è una bibliotecaria e il grande “mostro” di tutta la vicenda innesca le sue negromanzie con congegni letterari raccolti in un corpus, di cui si citano a più riprese interi stralci. Infine è impossibile non notare che il post esotismo è un leitmotiv del libro stesso! Il successo della corrente è una profezia auto avverantesi tra le più brillanti che la lettertura abbia prodotto negli ultimi tempi, dopotutto Volodine conia la definizione “post esotismo” nel 1990 e Terminus Radioso (2014) è il suo punto più alto. Non posso che disperarmi per non essere riuscita a vedere la presentazione mantovana (Festivaletteratura 2016) e aspettare la prossima pubblicazione dell’autore: Post esotismo in dieci lezioni, lezione undici in uscita sempre per 66thand2nd.
Vale la pena di specificare la struttura del volume e lo sviluppo della trama, anche se il mio consiglio è di leggerlo e quindi cercherò di non svelare troppo. 540 pagine divise abbastanza equilibratamente in quattro parti, ognuna con un suo specifico ruolo . Il primo capitolo “kolchoz” è dedicato alla descrizione della realtà in cui ci troviamo. Alcune vibranti pennellate iniziali descrivono una Seconda Unione Sovietica in cui è giunta, dopo anni di prosperità, una (post) apocalissi a causa di una guerra controrivoluzionaria e a varie catastrofi nucleari, alla Chernobyl. La Seconda Unione Sovietica, i suoi non sense e le sue gloriose strutture ideologiche vengono tratteggiati in più punti. Tutti i personaggi hanno combattuto per questa grande nazione e il comunismo è una sorta di substrato che condividono tutti, ognuno a suo modo. E saranno i vari riferimenti, sottili e coerenti, alla cultura marxista-leninistra, che affascineranno tutti i compagni lettori.
La vicenda descritta si svolge in una zona limitrofa, che immaginiamo quindi situata in piena Siberia − esiste un Levanidovo su Google Maps, ma sarà quello che intendeva l’autore? − ed ecco uno degli indizi del significato di post esotismo: questa regione è estremamente rigogliosa. Una menzione particolare va alle erbe della steppa e della taiga radioattiva che contornano e compongono Terminus Radioso: Volodine è un mirabile inventore di nomi. La “bella dama, la regrinella, la mortaccina dal gran ciuffo, la godifoglia, la spingistorta, la sterpafina, la majdahara, la soffisplendida, la barbafeccia pellegrina, la madre dei lebbrosi, la sciaquorina, la biattola degli errabondi e la puzzolente aldenga campanulata” compongono così un originalissimo erbario che giustamente 66thand2nd mette in copertina. Ora, io non sono mai stata a studiare botanica in Siberia (anche se a volte qualcuno mi ci avrebbe mandato volentieri), però posso affermare con un certo grado di precisione che queste erbe in un universo come il nostro non esistono. E qui va fatto un inciso doveroso. Non solo la copertina e il progetto grafico di Silvia Amato sono molto raffinati, ma la traduzione stupisce per accuratezza e leggibilità: Volodine sarà anche un favoloso inventore di nomi, ma il lettore italiano dovrà anche ringraziare Anna D’Elia per l’eccellente traduzione.
Ma veniamo alla trama: la guerra è persa, benché i generali abbiano tentato di riconquistare l’Orbisa (leggi capitale Seconda Unione Sovietica) con forze “demoniache, extraterrestri e kamikaze”. Reduci della grande battaglia finale, i tre soldati Elli Kronauer, Iliuchenko e Vassilissa Marachvili, in fin di vita dopo l’ultimo combattimento e in cerca di riparo, sono il primo contatto con questa realtà. Kronauer, mandato in avanscoperta, trova Terminus Radioso e così scopriamo che non tutto è perduto e che alcune comunità di persone sopravvivono alle radiazioni. Un piccolo villaggio in una radura tra i boschi in cui una piccola comunità nutre (nel vero senso del termine) la propria fonte di energia, ovvero una pila atomica che un bel giorno ha deciso di affondare per chilometri nel terreno.
Nel villaggio oltre alla coltivazione e la cura della pila atomica, esiste un’importante biblioteca da cui vedremo uscire solo testi femministi, opuscoli propagandistici e romanzi post esotici! Il personaggio più umano di tutto questo libro compare ora: Nonna Udgul è una bonificatrice della Seconda Unione Sovietica, scoperto che le radiazioni su di lei non hanno effetto, il governo dell’Orbisa la spediva nei vari teatri delle catastrofi vedendola sempre tornare vittoriosa. Ma un’eroina che non muore per la patria, a lungo andare diveneta scomoda, così, acquisita ormai l’immortalità grazie al suo particolare rapporto con le radiazioni, Nonna Udgul si è auto confinata a Terminus Radioso, dove si è ritagliata l’importante ruolo di vestale della divinità ktonia radioattiva (ovvero la pila). Il vero monstrum (alla latina, prodigio) del kholchoz è Soloviei, un enorme mugicco, stregone e letterato, che governa la piccola comunità in base a una propria interpretazione anarchica delle regole dell’Orbisa. Tutti svolgono i compiti per il bene della comunità e tutti si aiutano a vicenda, anche se i gradi di parentela e la situazione fisica dei vari abitanti guasteranno il desiderio di andarci a vivere stabilmente che per alcune pagine coglierà irrefrenabile il lettore più appassionato di vita egalitaria.
Pian piano Kronauer ci introduce (e viene introdotto) al cospetto del kolchozniko “più uguale degli altri” ovvero Soloviei indiscusso regolamentatore, anche culturale, della piccola comunità. La sua capacità di riportare in vita i morti con una non meglio precisata manipolazione ne fa l’esponente principale di quella parte di realismo magico che è un ingrediente del post esotismo. I morti camminano, ma, anche se immaginiamo simili le temperature di quell’area a quelle beyond the (Martinian) wall, questi non sono White Walkers. Sono esseri umani a tutti gli effetti, solo “espletano i bisogni corporali solo per un avito istinto” e fanno parte di un altro insieme di creature. I morti che camminano per queste steppe fanno parte di una sorta di diagramma di Venn: da un lato i morti morti, che partecipano dei segreti propri di questo stato, dall’altra parte i vivi che grazie alle radiazioni sono spesso strani esseri mutanti e nell’intersezione i morti che camminano che sono un po’ gli uni e un po’ gli altri. L’altra categoria più volte citata in un ricorrente elenco accanto ai vivi e i morti sono i cani, come a voler specificare che l’uomo è un animale, partecipa anche di quel regno lì, ma il cane è cosa diversa, come lo sono i vivi con i morti, anche quelli che camminano.
Volodine descrive i morti come parte del Bardo, chiaramente il rimando è al Bardo Todol, il libro tibetano dei morti che anche Philip K. Dick apprezzava e saccheggiava di spunti (alla faccia del rapporto tra post esotico e post post moderno). Soloviei non solo è un vero e proprio essere magico, ma è il padre che, tramite il proprio potere di controllare i sogni, non dà tregua alle proprie figlie/amanti: Myriam Umarik , Samiya Schmidt e Hannko Vogulian. L’arrivo del soldato Kronauer, un uomo maschio e incredibilmente vivo, rompe le uova nel paniere del padre padrone: un pattern edipico innestato su una situazione sovrannaturale, comunista e post atomica, questo è tra le altre cose, quello che ci offre Volodine. Capitolo due un po’ a sé stante, lo straordinario, cupo, nietzchiano “elogio dei campi di lavoro” tratteggia il percorso dell’ultimo treno dell’umanità, in cui prigionieri e soldati (tra cui Iliuchenko) si danno continuamente il cambio e la sera si ritrovano davanti al fuoco per cantare o ascoltare dei carmi in cui descrivono come la più ambita realtà della post apocalissi sia appunto il campo di lavoro: un paradiso a cui tutti vogliono giungere tra i cumuli di neve, gli incontri fortuiti e il non senso esistenziale e mistico di quel viaggio…
Mi sto interrogando però su quanto raccontarvi di questa incredibile storia che, non contenta (o meglio, non contento il suo autore) di aver regalato già pagine di pura bellezza estetica molto riuscite (vedi la descrizione dellla flora postatomica) e what if politici incredibilmente immaginifici, arriva a un altro piatto fortissimo: gli spari, la caccia e l’azione. Nell’invito a partecipare (capitolo 3, “amok”) a questa meravigliosa caccia all’uomo che assume tratti altamente cinematografici, mi metto a disposizione del lettore e lo incentivo con uno strumento utile ovvero la definizione della Treccani di amok: “Condizione psichica particolare, osservata tra i Malesi, che si instaura indipendentemente da qualsiasi affezione psicopatologica. Insorge improvvisamente, per lo più in seguito a shock subitanei provocati da eventi eccezionali. Il soggetto corre e salta all’impazzata colpendo chiunque incontri, senza distinzione; a crisi risolta non vi è memoria alcuna della crisi stessa”.
Non è favoloso un romanzo che vi faccia prendere in mano il vocabolario? E che vi rimandi alla cultura malese, da parte di un russo francese che descrive una realtà magica nella steppa dopo la fine della Seconda Unione Sovietica? L’ultimo capitolo in cui la postapocalissi assume toni di eternità, diventando una post post apocalissi (lo so, passatemelo), è la ciliegina sulla torta. La delicatezza con cui si affrontano tematiche quali la morte, l’eternità, la scrittura, la vendetta, lo scibile, l’umanità in genere è propria della grande letteratura. Ma non ricorda nulla, questo capitolo. È davvero qualcosa di nuovo, di eccezionale. Terminus Radioso, capolavoro di Volodine (ma non ci stupirebbe abbia ancora frecce al suo arco), è una sorta di vaso di pandora che contiene gioie che una volta evocate non possono essere rimesse al loro posto: la letteratura occidentale ci dovrà fare i conti. Non fosse chiaro, ne consiglio la lettura ai vivi, ai morti e anche ai cani.