di Alessandro Barile
Giorgio De Finis, Fabio Benincasa (a cura di), Rome. Nome plurale di città, Bordeaux Edizioni, 2016, pp. 392, €24,00.
D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda
Italo Calvino, Le città invisibili
Ho cercato la grande bellezza, e non l’ho trovata: è tutto solo un trucco
Jep Gambardella, La grande bellezza, 2013
S’accumulano nelle librerie e dalle colonne dei giornali le più diverse invettive sul decadimento romano. Roma è ormai un luogo comune. Se ne parla solo per dirne male, salvo beninteso quel ceto medio affluente e transnazionale che ne attraversa i suoi non-luoghi da cartolina scappandone il prima possibile. Eppure è proprio così. Probabilmente per ragioni opposte a quelle indicate dal mainstream politico-mediatico, ma la decadenza, anzi: la completa rovina della città, è un fatto talmente plateale da essersi tramutato in fastidioso chiacchiericcio di sottofondo. E allora bisogna sottrarsi al chiacchiericcio, bisogna tornare a comprendere, a riflettere. Rifiutando tanto l’approccio “riduzionista” quanto quello moralistico-borghese à la “Romafaschifo”, vomitatoio delle peggiori pulsioni di chi Roma la odia davvero. Questo libro, Rome, racchiude le opinioni di cinquantasette abitanti della città, cittadini – italiani e non, romani e non – che hanno intessuto con la capitale un rapporto d’amore e d’odio. L’unico rapporto possibile con Roma, d’altronde. E’ uno strumento in più per tornare a comprendere, distante dalle vulgate liberiste imposte dai principali canali mediatici. Come ogni lavoro collettaneo, presenta accordi e dissonanze, tanto interne al testo quanto nelle riflessioni che genera. Ma nell’insieme, nell’eterogena e disorganica raccolta di impressioni, disegna un quadro oggettivo di una città malata, disfatta, come direbbe l’urbanista Vezio De Lucia, polverizzata, incattivita.
Se sulla rovina cittadina c’è un accordo di massima trasversale socialmente e politicamente, è sulle cause che si gioca la partita del futuro. Perché ca(r)pire l’origine dei mali predispone alla soluzione dei problemi. E la battaglia, in merito, è senza esclusione di colpi. Bisogna però sgomberare il campo da un equivoco ideologico, non a caso rilevato da diversi contributi nel testo, e cioè la retorica sulla bellezza della città. Ai romani di questa bellezza non frega più niente. Non la conoscono nemmeno, perché i romani e il centro cittadino sono due realtà separate, dis-organiche, escluse vicendevolmente. I romani il centro non lo conoscono, così come quel miscuglio sociale che “vive” il centro non sa cosa ci sia ai bordi del Raccordo, per non dire della sterminata metropoli che si apre fuori da esso, la vera Roma contemporanea. I romani il centro lo vivono come turisti: se ci lavorano, ci arrivano dopo ore di caos e ne fuggono appena possono; se ci escono il sabato sera, ne frequentano i non-luoghi da cartolina, senza viverli, senza capirli. Giorgio De Finis si carica sulle spalle il compito di sintetizzare egregiamente il senso di questo distacco fisico:
“Oggi nessuno stereotipo può consolare questa capitale che non è più il cuore di niente (nemmeno della decadenza[…]) e che l’Impero attraversa in tour, alla ricerca non della città ma dei patrimoni dell’umanità, il Colosseo, la Cappella Sistina, San Pietro e la Fontana di Trevi, i non-luoghi di un turismo globale che Roma evita e che evita Roma. Che è tutto quello che c’è intorno al Colosseo, alla Cappella Sistina, a San Pietro e alla Fontana di Trevi, alla città-mondo, il resto abitato e attraversato da residenti resilienti”.
La bellezza è uno stereotipo usato contro i romani e contro uno sviluppo civile della città. E’ la toppa ideologica che favorisce lo svuotamento del centro dei ceti popolari (espulsione portata a compimento già da un trentennio abbondante); è la giustificazione “di buon senso” attraverso cui vengono permesse le peggiori opere di speculazione edilizia dentro al città consolidata; è la maschera che assume il senso di uno sviluppo senza progresso, per dirla con Pasolini. La scrittrice Igiaba Scego coglie il senso di questa bruttezza celata dalle retoriche sulla bellezza:
“Potrei dire che voglio gli autobus in orario, accoglienza per i rifugiati, marciapiedi puliti, meno buche per strada, più teatri, più cinema, una vita culturale in periferia, biblioteche più rifornite di libri, meno locali che vendono alcol scadente, ristoranti più controllati. Vorrei davvero tante cose. Vorrei una città abitabile, con affitti che non sono alle stelle, vorrei aiuto per i senza tetto. Si vorrei tutto questo e vorrei altro. Ma ecco, quello che voglio più di tutto, e che contiene tutto quello che ho detto in precedenza, è bellezza. Vorrei una città bella. Ora qualcuno mi potrà contraddire. Ma che dici? Roma è già bella, vengono da tutto il mondo a vederla. Siamo l’invidia d’Europa, abbiamo il Vaticano, il Colosseo, cosa vogliamo di più? Roma si è bella, lo è in teoria. In pratica però questa bellezza è per pochi. Non certo per i suoi cittadini che dalla sua bellezza si stanno allontanando sempre di più”.
Ci era dunque arrivato, con rara capacità profetica, Italo Calvino, citato in esergo: di una città non contano le meraviglie, conta la capacità che ha di rispondere ai propri bisogni. E Roma non risponde più ai bisogni della sua popolazione. Ma c’è anche un’altra narrazione equivoca che andrebbe sottoposta a verifica. Quella della “grandezza” o “importanza” perduta nella sua attuale fase decadente. Anche questo si presenta come mito acritico, reiterato per interesse e per ragioni di governo, ma che mal si accorda con la realtà storica. Prima del fascismo, Roma era in buona sostanza un borgo d’impianto medievale, piccolissimo, attraversato al suo interno da vasti pezzi di campagna, con una popolazione ridotta nel numero e immiserita dalla condizione di regresso parassitario e nella quale sopravviveva un potere clericale pre-moderno. Una condizione, questa, più che millenaria, non contingente. Lo straordinario sviluppo cittadino è da ricercarsi nel tentativo, avviato dai Savoia, implementato dal fascismo e proseguito negli anni Cinquanta, di trasformare in capitale del regno quello che era un pittoresco borgo medievale, composto di stradine tortuose e non asfaltate, formato da baracche, senza centri di potere civile, senza palazzi di governo. Gli sventramenti del centro romano, sebbene costituissero un attentato alla bellezza e alla razionalità, rispondevano a uno scopo comprensibile. D’altronde Napoleone III e il suo Prefetto Haussmann avevano già provveduto a devastare il centro parigino per adattarlo alle necessità della capitale dell’Impero. Perché non farlo anche a Roma? Ed è in tal senso che va inquadrata la perdita inestimabile di valore artistico che il fascismo produrrà nel suo mastodontico e irrazionale tentativo di costruire la città fascista nel cuore della città antica. E’ nel quarantennio tra il 1920 e il 1960 che Roma viene rifondata, e questa rifondazione vivifica una cultura cittadina che porterà la città a competere con le grandi capitali europee e soprattutto con il suo costante riferimento: Parigi. E’ in questo quarantennio che Roma ha qualcosa da dire al mondo: dal cinema alla letteratura, dall’arte all’architettura, dall’urbanistica alla politica. Roma si impone come centro internazionale politico e culturale. Ma è una parentesi che dura poco. Con La dolce vita si chiude l’apogeo romano, a cui segue una nostalgia esistenziale sulla Roma sparita (che non è più quella del Piranesi o del Franz, ma quella ormai degli anni Cinquanta). Terminata la spinta propulsiva del suo sviluppo in qualche modo “pianificato” – parola da prendere con le molle vista la storia dei piani regolatori cittadini – alla città non resta che la sua speculazione.
Sono molte le cause del disastro cittadino. Le racchiude Paolo Berdini – oggi assessore all’urbanistica della giunta Raggi:
“Il debito consolidato della città è pari a 12 miliardi…Il commissariamento del bilancio di Roma è iniziato nel 2008…la capitale è una città fallita. Secondo i parametri fissati dalle leggi varate nel periodo del governo Monti, infatti, i governi centrali potrebbero in ogni momento decretare il fallimento di Roma…è indubbio che la città in dissesto smette di pensare al suo futuro e vive di espedienti mediatici finalizzati esclusivamente a perpetrare il sistema di potere dominante. Roma è una città abbandonata a se stessa, senza un orizzonte da perseguire”.
La ragione di tale dissesto, che è un dissesto in primo luogo urbanistico e che riflette un modello gestionale del territorio in senso liberista, è l’assoluta mancanza di pianificazione pubblica dello sviluppo urbano. La forma della città, le sue molteplici funzioni, la direzione del suo sviluppo, non vengono decisi a livello politico, ma sono subiti dalla politica che delega al privato – al costruttore privato – l’edificazione della città. In una recensione al libro Roma disfatta scritto da Vezio De Lucia e Francesco Erbani, così definivo il senso della contraddizione originaria romana:
“Per dare l’idea della devastazione territoriale da cui originano molti degli insoluti problemi cittadini, basti pensare che la città «abusiva», quella costruita illegalmente da costruttori e piccoli proprietari, copre un territorio di 15mila ettari, più dell’intera dimensione del Comune di Napoli, che di ettari ne copre «solo» 12mila: non solo la città diventa un insieme di brandelli, ma questi sono talmente poco compatti, occupano tanto suolo e sono distanti fra loro al punto da non rendere possibile la fornitura di servizi adeguati. La città polverizzata non è più una città, perché non garantisce a tutti eguali diritti”.
Dagli anni Sessanta Roma si trasforma in una città abusiva, e questo abusivismo risucchia ogni energia, qualsiasi finanziamento pubblico, tutto il patrimonio culturale della città moderna. Ancora Berdini svela sinteticamente il senso della speculazione:
“Nel passaggio al nuovo millennio, dunque, Roma implode su se stessa perché non sa più declinare un progetto pubblico e si accontenta di costruire grandi eventi[…]Questa amministrazione [di Walter Veltroni] porta in approvazione il più scellerato piano urbanistico che Roma abbia mai conosciuto: si prevedono nuovi insediamenti per oltre 500mila nuovi abitanti di fronte a una città che non cresce più dal 1991 e nel contempo si allentano tutte le regole del governo pubblico del territorio. Chiunque possiede un terreno, dovunque sia ubicato, riesce ad ottenere la trasformazione urbanistica perché ciò che più conta agli occhi di questa nuova sinistra è la facilitazione agli investimenti”.
A questa condizione cronica di disfacimento latente si è innestata la crisi economica internazionale, che non ha più consentito alle finanze pubbliche di tamponare le falle costantemente aperte dalla gestione privatistica del territorio. Quei servizi essenziali, dal trasporto pubblico agli asili nido, dalla manutenzione delle strade al decoro urbano e via dicendo, già precari, venivano progressivamente ridotti fino a scomparire. L’abbandono delle periferie è il frutto di questo processo a catena. La periferia è però la città in tutta la sua interezza. Il minuscolo (nel complesso urbano) e spopolato centro storico si trasforma così in non-luogo ad uso e consumo del turismo globale; la città reale, quella della periferia, vive in uno stato di abbandono senza soluzioni politiche che non prevedano la spesa in deficit di miliardi di euro. Nella condizione di insolvenza in cui versa Roma, un orizzonte impraticabile tramite le normali vie della politica. Questa la frattura insanabile, che genera il mostro di una periferia molto oltre le minime condizioni di civiltà.
Chiudiamo ancora con Giorgio De Finis, in grado di individuare il nodo politico di fondo che caratterizza il declino cittadino:
“Il malgoverno è diventato l’unica forma possibile di governo della città[…]Con la crisi la festa è finita. Non per mancanza di soldi…La festa è finita quando si è capito che, nell’era della politica asservita alla finanza, dove di fatto tutti eseguono lo stesso mandato non era più necessario inseguire il consenso. La questione si riduce tutt’al più a contenere il dissenso, quando questo si dovesse manifestare. Con i prefetti, i questori e le forze dell’ordine munite di idranti”.
Questa è Roma oggi. Ma attenzione: è la condizione tipica della metropoli (post)moderna. Roma ne racchiude simbolicamente tutti gli orrori, mediati da una bellezza utilizzata come arma di distrazione. Ma questa traiettoria pervade anche altre e ben più celebrate città. E’ un destino comune, che altrove può manifestarsi in forma meno eclatante, ma che non ne modifica la sostanza. Roma è allora un monito. Conserviamone il presagio inquietante, ma attrezziamoci per la sua Liberazione.