di Gioacchino Toni
Ezio Sinigaglia, Eclissi, Nutrimenti, Roma, 2016, pp. 112, € 15,00
«Il suo progetto puntava dritto all’oscurità per cogliervi una luce. Era inesplicabile a lui stesso. Eppure era il progetto più forte e preciso che avesse mai formulato in vita sua» (p. 7).
Con queste parole si apre il romanzo Eclissi di Ezio Sinigaglia, pubblicato nel 2016 dall’editore Nutrimenti, e con esso l’avventura che porta l’architetto triestino Eugenio Akron, nell’imminenza del suo settantesimo compleanno, a decidere di assistere ad un’eclissi totale di sole nel giorno di equinozio di primavera in un’isola sul Mare del Nord «grossomodo equidistante dalla Scozia, dalla Norvegia e dall’Islanda e il cui nome nessuno sapeva di preciso come scrivere né tantomeno pronunciare» (p. 56). Quello sarebbe stato «l’ultimo vero viaggio, si era detto, l’ultima occasione di estrarre dalla reticenza del mondo una domanda» (p. 8).
L’anziano parte dunque nella speranza di poter trovare nell’eclissi quel che andava cercando da tempo, da quando era rimasto vedovo ed aveva ceduto l’attività al figlio, e quel che cercava era “una domanda”, quale fosse non sapeva dire, ma «restava convinto che, se gli fosse riuscito di formulare al momento giusto la giusta domanda, la domanda perfetta, penetrante e temprata come una punta d’acciaio, ripulita da tutti i suoi peli superflui dal rasoio di Occam, allora la risposta a tutte le domande possibili sarebbe subito rimbalzata a lui come un raggio dallo specchio del mare» (p. 82).
Giunto sull’isola le strade ed i pensieri di Akron finiranno per incontrarsi con una presenza femminile che si rivelerà decisamente importante al fine di «estrarre dalla reticenza del mondo» quella domanda di cui il triestino è alla ricerca. L’incontro catartico è con Mrs. Clara Wilson, un’anziana vedova americana giunta sul posto per assistere allo spettacolare sovrapporsi dei due astri. La donna è una vera appassionata di eclissi, tanto da poter vantare di averne già osservate sedici e, trovandosi a dover motivare tanto interesse, ammette che forse in quella sorta di sospensione temporale è ravvisabile un’esperienza vicina alla morte. Sarà grazie all’immediata e profonda empatia che si viene a creare tra i due, che il protagonista troverà la chiave per richiamare alla memoria il suo passato; a volte è la moglie perduta che vede nell’americana, altre è una storia di amicizia terminata anzitempo ad affiorare.
Sinigaglia pone particolare cura nel descrivere i piccoli movimenti compiuti dai corpi dei personaggi, ad esempio le mani, e struttura i dialoghi in maniera ricercata, ricorrendo anche all’inglese, non di rado trascritto nella sua pronuncia, ed all’italiano venato dall’evidente accento americano con cui Mrs. Wilson si ostina a voler parlare con Akron. Non manca, inoltre, il ricorso a qualche termine triestino che affiora insieme ai ricordi più lontani del protagonista.
Il romanzo è davvero ben scritto ed è con indubbie abilità narrative che, ad esempio, viene descritta la visita della coppia alla cattedrale dell’isola privata della copertura da una tremenda, quanto improvvisa, tromba d’aria che in un lontano passato ha praticamente raso al suolo l’intero paese di pescatori seminando morte. «Il gotico della Mikkelkrike, molto tardo e dalle ali tarpate, come se le punte aguzze di quelle ardenti fiamme di pietra che aspiravano al cielo fossero state incappucciate e smorzate una per una da un sagrestano prudente, era in sé di modesto interesse. Eppure l’antica cattedrale di Storbygd entrò subito a far parte del breve e sceltissimo elenco degli edifici più emozionanti che l’architetto Akron avesse mai visto. I segreti del suo fascino non erano per nulla segreti ed erano due: il paesaggio nel quale era immersa e la catastrofe che l’aveva colpita. La chiesa sorgeva su una piccola altura di nero e nudo basalto a strapiombo sul mare, o per meglio dire l’oceano, e aveva l’abside curiosamente orientata a est-nord est, che nella rosa dei venti è il petalo della bora triestina, guardava quasi dritto negli occhi il suo vento creatore, quell’aliseo di sud ovest, grandioso e continuo, che teneva legata l’isola all’aspra dolcezza di un inverno quasi perenne ma mite e, insieme, a un visibile nulla. Non c’era una terra emersa, in quella direzione, per migliaia di miglia, di modo che la cattedrale sembrava interrogare l’elusiva lontananza di Dio, la sua tenace resistenza a mostrarsi, nella sua proiezione verso il vuoto orizzonte non meno che nel suo gotico slancio verso un cielo raramente sereno: cioè, per così dire, lungo il deserto totale delle ascisse così come lungo il silenzio assoluto delle ordinate. Sopra quella terrazza di basalto nero e nudo, creato dai vulcani e scolpito dal mare e dal vento, sorgeva il nero e nudo basalto modellato dagli uomini, quasi che la terra avesse partorito la chiesa. E, nel mezzogiorno insolitamente luminoso, il nero della pietra si stagliava contro il grigio fangoso del mare cavandone fuori l’azzurro» (pp. 65-66).
La chiusura del romanzo spetta a quei tre minuti scarsi di eclissi attorno ai quali ruota il desiderio del protagonista di “trovare la domanda” ed a quel breve lasso di tempo arriviamo, insieme ad Akron e Mrs. Wilson, a bordo dell’imbarcazione che guadagna il largo per permettere alla coppia di assaporare lo spettacolo naturale. «Il peschereccio rosso e azzurro di Kurtil avanzava lentamente, tra le due alte pareti di basalto nero che serravano il fiordo, come un lungo canale. Il vecchio diesel batteva implacabile la sua percussione uniforme, aureolata come di un vapore di scoppi per effetto non soltanto dell’eco leggermente diseguale che rimbalzava in barca dalla riva sinistra e dalla destra, ma anche della diversa percezione che Akron aveva dei suoni da un orecchio all’altro. Il motore era, fra tutte le insidie del viaggio, la sola che si mostrasse superiore alle attese. All’orizzonte, invece, al di là dell’imboccatura del fiordo e dell’oceano color fango appena biancheggiante di croste, l’azzurro aveva già vinto sul grigio e splendeva insieme pallido e ardente, riscaldato sul alto orientale da un frastagliato continente di rosa, che si sarebbe lasciato invadere presto» (p. 89).
In balia della «tenebra in pieno giorno» regalata da quei «due minuti e quarantasette secondi» di eclissi totale nelle acque del Mare del Nord, ad Akron tornano, nuovamente, in mente le parole di Beniamino, l’amico fraterno tragicamente scomparso, quando, una cinquantina di anni prima, durante un’altra eclissi, aveva inaspettatamente descritto quel momento di buio assoluto come «una notte straordinariamente luminosa». Il ricordo dell’amico, inevitabilmente, aveva riportato la memoria anche a quell’ultimo momento in cui i due, prendendo decisioni e strade diverse, finirono per perdersi di vista definitivamente.
Al lettore il compito di scoprire se quella manciata di minuti di «tenebra in pieno giorno» si rivelerà capace di far affiorare nel protagonista la domanda in grado di significare almeno quella parte dell’esistenza più reticente. Riuscirà quell’ultima eclissi a compiere un fulmineo montaggio della vita di Akron?
Eclissi di Ezio Sinigaglia è un romanzo che merita assolutamente di essere letto.