di Armando Lancellotti
Paolo Sorcinelli, La follia della guerra. Storie dal manicomio 1940-1950, Odoya, Bologna, 2016, pp. 223, € 16,00
La scelta dell’editore bolognese Odoya di riproporre, a ventiquattro anni di distanza, questo libro pubblicato nel 1992 dalla casa editrice Franco Angeli, ci sembra condivisibile ed apprezzabile, sia per l’argomento in sé – il rapporto eziologico tra guerra e follia – tragicamente ed inevitabilmente sempre attuale, sia per l’interessante analisi che l’autore principale, Paolo Sorcinelli, storico e per molto tempo docente di storia sociale presso l’Università di Bologna e i suoi collaboratori, Maurizio Camellini, Sabina Cremonini e Paolo Giovannini, presentano nei nove capitoli che compongono il libro.
“La follia della guerra” è il titolo ed è da intendersi tanto come indicazione del senso complessivo del saggio e della ricerca che ne sta alla base, quanto come denuncia dell’assurdità delle guerre, non solo di quelle che ci stanno alle spalle, ma anche di quelle che abbiamo davanti agli occhi quotidianamente. Come viene spiegato nella Premessa, l’idea di studiare le connessioni tra guerra e follia attraverso l’analisi delle cartelle cliniche di alcuni ospedali psichiatrici risaliva al 1984 e ad un convegno sulla Linea Gotica a cui Sorcinelli prese parte; idea poi sviluppata presso il corso di laurea in Storia contemporanea dell’Università di Bologna. E nell’area prossima tanto all’ateneo bolognese quanto alla Linea Gotica rientrano gli ospedali psichiatrici di cui furono studiati gli archivi: il San Lazzaro di Reggio Emilia – a cui appartiene il 55% delle 431 cartelle cliniche e fascicoli personali consultati – e a seguire il San Benedetto di Pesaro e il Sacchi di Mantova, a cui si aggiunge, ma solo molto marginalmente, l’ospedale psichiatrico Roncati di Bologna.
Quando il libro fu pubblicato per la prima volta costituiva di certo un lavoro innovativo, dal momento che indagava il problema dell’esperienza bellica come causa determinante e principale di malattie e turbe mentali, focalizzando l’attenzione non sulla Grande Guerra – terreno allora già più frequentato per la questione in oggetto – ma sulla seconda guerra mondiale, sul periodo 1940-1950 e con l’intenzione di allargare lo spettro dell’osservazione a tutte le categorie toccate dal problema: non solo i soldati sui diversi fronti, ma anche i civili, le donne, tanto i partigiani quanto i repubblichini di Salò, gli internati e i deportati dei campi.
Due terzi dei casi esaminati riguardano uomini, dato statistico che non sorprende, mentre stupisce forse di più quello attinente al divario, tutto sommato contenuto, tra militari e civili. In parte perché la seconda guerra mondiale, ancor più della prima, ha coinvolto completamente la popolazione civile e in parte anche perché la ricerca riguarda il decennio 1940-1950 e quindi comprende pure numerosi casi di persone che si sono rivolte alle strutture psichiatriche dopo il ’45, per procurarsi certificazioni mediche allo scopo di ottenere il riconoscimento di una pensione e che pertanto sono classificate come civili, anche se in realtà si tratta spesso di ex militari.
Interessante la lettura dei dati riguardanti il numero dei ricoveri calcolato sulla base di tre periodi: dall’entrata dell’Italia in guerra nel 1940 all’8 settembre 1943, dall’armistizio al 25 aprile 1945 e dopo la Liberazione. Solo a Pesaro il numero dei ricoveri effettuati dopo il 25 aprile supera di molto quello del periodo bellico e questo – a giudizio dell’autore – come conseguenza di un ben preciso orientamento ideologico del direttore dell’ospedale e degli psichiatri pesaresi che, contrariamente all’indirizzo prevalente nella psichiatria del tempo, non esitavano a porre una diretta relazione causale tra la guerra e le patologie psichiatriche, anche al fine, talvolta, di facilitare l’ottenimento di una pensione, «malgrado questo comportasse una limitazione dei diritti del paziente e dei suoi congiunti» (p. 16).
Fin dalle prime pagine del libro va delineandosi quindi quello che possiamo indicare come il contributo principale e più interessante fornito da questo libro allo studio e alla conoscenza dell’argomento trattato e cioè la riflessione sulla storia della psichiatria, sui suoi fondamenti epistemologici nella prima metà del Novecento, sulle sue reticenze nel riconoscere le atrocità della guerra come condizione prima e sufficiente del manifestarsi di disturbi psichici.
Infatti, nonostante la seconda guerra mondiale sia stata non solo una catastrofe materiale ed una ecatombe per milioni di vite umane, ma anche un vero a proprio flagello psichico per l’umanità, il paradigma scientifico psichiatrico imperante nella prima metà del XX secolo e risalente alla cultura positivistica ottocentesca sostiene ancora che «la guerra non può provocare “la comparsa di psicosi in individui sani, siano pure terribilmente gravi le emozioni, gli strapazzi, le privazioni da essi subiti” e perciò è di per se stessa asettica e tuttalpiù semplice fattore casuale per quelli che sani non sono e non lo sono mai stati» (p. 35).
Dal punto di vista storico-epistemologico questo denota come la psichiatria del tempo ancora fosse saldamente ancorata ad un modello organicistico che considerava come determinati le cause patogene organiche ed endogene e come meramente concomitanti quelle esogene di carattere emotivo-traumatico. Pertanto, il soggetto che manifestava un disturbo psichico a seguito delle esperienze vissute al fronte (o in un campo di internamento o come conseguenza di un bombardamento o di violenze subite o di cui era stato testimone) era da considerarsi come organicamente predisposto alla malattia, alla follia e la guerra si riduceva a semplice e tutto sommato irrilevante causa secondaria che portava a manifestazione una predisposizione latente; insomma una sorta di casus belli che fa precipitare gli eventi pur non essendone la vera ragione scatenante.
Dal punto di visto storico-politico rivela quanto l’ideologia bellicistica, che a inizio Novecento aveva messo profonde radici nella mentalità e nell’immaginario del nazionalismo imperialista italiano, per poi trovare un momento di massima affermazione nell’interventismo della Grande Guerra e di sublimazione ideologica nel fascismo, fosse a tal punto dominante da condizionare incisivamente anche l’interpretazione medico-psichiatrica della guerra, che finiva per perpetuare l’immagine eroica del milite e positiva dell’atto bellico, immagine che avrebbe potuto essere offuscata dalla denuncia della stretta correlazione tra trauma bellico e psicosi.
Scrive Sorcinelli: «Nel dibattito sul “meccanismo di produzione” delle forme psichiche e nevrotiche di guerra, in teoria “il campo è diviso tra quanti ne sostengono l’origine prevalentemente organica, da commozione, e quanti ne affermano la genesi puramente psichica, da emozione; in realtà quella dell’origine organica svolgerà a tutti gli effetti una funzione interpretativa dominante secondo una tradizione culturale e scientifica ampiamente collaudata nel passato e che sarà alla base anche di gran parte degli studi psichiatrici e psicologici del secondo Dopoguerra» (p. 36).
Significative, a questo proposito, sono le parole del dottor Gorrieri, psichiatra presso il manicomio di Genova, che nel 1912, esaminando alcuni soldati italiani colpiti da disturbi psichici in seguito alla loro partecipazione alla guerra di Libia (1911-1912), sostiene che «cinque su sei avevano eredità psicopatica, ed erano stati in precedenza sofferenti di disturbi nervosi», per concludere poi che «non esiste una psicosi caratteristica conseguente alle emozioni di guerra […]. L’emozione di guerra non deve ritenersi di per se stessa sufficiente a produrre stati psicopatici. […] Un tal complesso di fattori (emozionali ed esaurienti) determina poi la psicosi, in quanto agisce sopra individui compromessi in via ereditaria, o nevrotici, o psicopatici in latenza» (p. 37).
Anche durante il secondo conflitto mondiale, i medici attivi presso i reparti neuropsichiatrici degli ospedali da campo riconfermano le tesi dei loro colleghi di trent’anni prima, come lo psichiatra Andrea Marri che è «a questo proposito categorico: la casistica di cui dispone lo porta a escludere […] che individui sani possano essere vittime di psiconevrosi in diretta conseguenza degli avvenimenti bellici» (p. 53).
Per insinuare il dubbio nelle granitiche certezze dello scienziato, basterebbero, con la loro disarmante semplicità, le parole «del “folle” soprannominato Mauthausen che, ancora agli inizi degli anni Sessanta, […] rivive i giorni della ritirata dell’Armir dalla Russia» e si chiede: «Dicono che sono matto. Ero matto quando sono andato a fare il soldato? Se ero matto perché mi hanno fatto abile?» (p. 41).
Non si deve dimenticare, come fattore che concorre a questa lettura delle relazioni tra guerra e follia, il forte condizionamento ideologico-politico, che va ad aggiungersi a quello scientifico-culturale e che muove dalla premessa assiomatica secondo cui la guerra e le guerre fasciste in particolare sono depositarie e promotrici di valori positivi per l’individuo e per la comunità nazionale. Ne consegue l’esigenza di presentare l’immagine di un esercito forte, sano, interiormente convinto dell’incarico affidatogli dal regime; un’immagine che sarebbe uscita quantomeno imbrattata dall’associazione diretta tra guerra e caduta nella follia di chi la combatte.
Come nel caso della “fascista” guerra di Spagna, quando «i casi di psiconevrosi», osserva Paolo Giavannini, «di simulazione e di esagerazione che si notano fra i volontari in Spagna vengono fatti risalire a predisposizione congenita e a fattori di criminalità costituzionale, nell’evidente tentativo di rilanciare un’immagine dell’esercito italiano “sotto ogni riguardo perfetto”, grazie all’opera di “bonifica umana” e di “elevazione della coscienza nazionale” operata dal fascismo e di fornire contemporaneamente una lettura del “fattore guerra” nell’ottica di una funzione selezionatrice, capace di temperare i caratteri, esaltare i forti e, perché no, mettere in luce predisposizioni a malattie mentali e nervose» (p. 48). Si tratta di un paradigma lombrosiano-evoluzionistico in cui la guerra fa da fattore selettivo in funzione di una “evoluzione sociale” di impronta fascista.
Questo può aiutare anche a comprendere le cause della differenza quantitativa, tra primo e secondo conflitto mondiale, riguardo all’interesse ufficiale degli psichiatri sulle relazioni tra guerra e follia: molti sono gli studi e gli articoli nel periodo della Grande Guerra, pochissimi durante la seconda guerra mondiale. Fu probabilmente la volontà, consapevole o meno, di evitare complicazioni politiche, a cui l’approfondimento scientifico e psichiatrico del rapporto tra guerra e follia poteva condurre, a rendere gli studiosi così parsimoniosi nel redigere articoli o pubblicare studi sull’argomento.
Al contrario, le argomentazioni di uno dei più importanti psichiatri del periodo, Giorgio Padovani, il quale, «partecipando nel 1950 a Parigi al primo congresso mondiale di psichiatria, crede di poter ravvisare le cause di questa carenza nella “disposizione di ostilità” degli italiani nei confronti della guerra in generale e di tutto ciò che “la concerne”» (p. 48), non solo sembrano poco pertinenti, ma soprattutto risultano coerenti con un altro paradigma – questa volta non scientifico e medico, ma ideologico-politico – e cioè il paradigma riduzionistico ed autoassolutorio che più tardi verrà chiamato degli italiani brava gente.
Dopo la guerra si registrano una ripresa dell’interesse per la “follia di guerra” ed un miglioramento quantitativo, ma non qualitativo, degli studi, rimanendo le teorie organicistiche di fondo sostanzialmente invariate, con l’aggiunta di analisi che vanno in direzione di una lettura “classista” delle malattie psichiche, che attribuisce come tipiche le manifestazioni isteriche alla truppa, mentre agli ufficiali, considerati più “evoluti” socialmente e culturalmente, associa le sindromi nevrasteniche.
Secondo Padovani, «le motivazioni che operano nella patogenesi dei disturbi neuropsichici degli ufficiali sono dunque di carattere altruistico, contraddistinte cioè dal senso di responsabilità verso la patria e verso i subordinati, mentre nella truppa hanno il sopravvento le tensioni connesse allo spirito egoistico e al puro istinto di sopravvivenza» (p. 56).
Un passo avanti lo si compie anche nell’interpretazione e nell’individuazione delle cause delle nevrosi di guerra – simili, ma non identiche – a quelle delle nevrosi in tempo di pace; prende forma la consapevolezza della differenza tra l’Io del soldato e l’Io del civile, ma questo non comporta ancora una radicale messa in discussione del modello psichiatrico complessivo.
Maurizio Camellini considera un altro interessante aspetto del fenomeno guerra-follia, ponendo in relazione l’aumento dei casi di ricovero in manicomio per cause riconducibili alla guerra con il venir meno del consenso al regime, cioè con l’indebolimento delle capacità persuasive della sua organizzazione propagandistica proprio a seguito dei rovesci bellici e dopo l’8 settembre.
In alcuni casi, fa notare lo studioso, si trattò di tentativi di sottrarsi al reclutamento ordinato dalla Rsi attraverso il ricovero in ospedale psichiatrico, ma complessivamente si può dire che fino a quando le strutture massificanti e spersonalizzanti della propaganda del regime furono in grado di reggere e di produrre identificazione ideologica con le ragioni della guerra, meno numerosi furono i casi di malattie mentali conseguenti alla guerra stessa; mentre questi andarono aumentando quando, venendo meno il condizionamento culturale ed ideologico complessivo, la soggettività individuale si ritrovò, sola, ad affrontare le proprie contraddizioni e i traumi subiti dalla guerra.
L’apparato sanitario dell’esercito italiano si dimostra attento e solerte nel registrare e valutare l’insorgenza dei sintomi di disturbi mentali e «presso gli ospedali militari e alle dipendenze della Sezione osservazione, funzionano appositi reparti neuropsichiatrici […] con il compito di discernere, in tempi brevi, la natura e la consistenza della patologia accusata e “compito importantissimo”, di verificare i casi di simulazione» (p. 62).
Le preoccupazioni principali dei medici militari sono quelle di allontanare dalla truppa combattente elementi che potrebbero essere nocivi per la loro instabilità nervosa e scoprire i “simulatori-disertori”. A fare da sfondo a questo programma igienico-militare vi è l’ideologia – non certo prodotta per primo dal fascismo, ma da questo enfatizzata – secondo cui l’immagine dell’esercito deve restare dissociata da quella della malattia mentale e, pertanto, non è opportuno considerare la guerra come causa scatenante di un disturbo psichico.
Di vera e propria fascistizzazione della scienza medica e psichiatrica si può parlare leggendo le parole scritte nel 1942 dal tenente colonnello medico Carvaglio, docente di medicina legale della Scuola di sanità militare di Firenze, per il quale «In linea generale, tutte queste psicosi dovranno essere dichiarate come non dipendenti da cause di servizio. Abbiamo detto come si tratti di forme costituzionali o, almeno, di forme nelle quali l’elemento predisposizione ha un’importanza preminente; il fatto di servizio […] non potrà mai assurgere al valore di causa unica e diretta delle sindromi» (p. 66).
Ancora una volta si può aggiungere che alla formulazione di questa indicazione di comportamento diagnostico del tutto conforme alle esigenze ideologiche del regime concorre in maniera determinante il paradigma psichiatrico organicistico, che arriva addirittura a far sì che venga trascurata l’indicazione della qualifica di soldato nella compilazione delle cartelle cliniche e che l’attenzione sia concentrata più sulle manifestazioni e sui comportamenti anomali dovuti alla malattia che sulle cause o sul contesto particolari della loro insorgenza.
Il rapporto direttamente proporzionale tra l’indebolimento delle strutture di inquadramento ideologico, atte a produrre una soggettività collettiva spersonalizzante e l’aumento dei casi di disturbi psichici viene utilizzato anche per spiegare la maggiore quantità di casi di disturbi nervosi registrati tra i militari della Rsi, proprio nel momento di minor consenso al regime, rispetto a quelli dei resistenti partigiani, sia prima sia dopo il 1945.
Nel periodo precedente la Liberazione è molto difficile, per ovvie ragioni, per i combattenti nelle file della Resistenza rivolgersi a strutture sanitarie e psichiatriche, mentre si registrano casi di ricoveri di uomini della Rsi, che, coinvolti negli episodi peggiori di guerra antipartigiana, talvolta manifestano stati di ansia, di confusione che può sfociare nel delirio e nella psicosi e quasi sempre nella messa in atto di meccanismi inconsci di autoderesponsabilizzazione difensiva.
Con la sconfitta del fascismo e la fine della guerra, il quadro peggiora ulteriormente e se per alcuni il ricorso al ricovero psichiatrico può rappresentare un sotterfugio per sottrarsi alla giustizia, per altri e più numerosi «Essere, o essere stati, fascisti diventa una condizione di responsabilità oggettiva, particolarmente per quelli che si sono trovati più coinvolti nelle azioni repressive e nella lotta contro i partigiani. I ricoveri manicomiali documentano in modo significativo questa condizione: cadute le coperture ideologiche e istituzionali fornite dal regime, i più si trovano ad affrontare un rischio reale, la cui percezione psichica diventa insostenibile» (p. 76).
Situazione diversa, ritiene Camellini, quella dei partigiani, per i quali «lo stesso esito della guerra può in qualche modo aver agito […] come fattore di compensazione psicologica alle vicissitudini legate alla clandestinità e alle azioni militari» (p. 81).
Ma per quel che riguarda la complessa questione dell’internamento manicomiale dei partigiani dopo la Liberazione (i “pazzi per la libertà”), rimandiamo al libro molto più recente, estremamente informato ed accurato di Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano, Un’odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio, Feltrinelli 2015 [si veda l’intervista a Mimmo Franzinelli su Carmilla]
È importante anche ricordare che nel caos in cui l’Italia precipitò dopo l’8 settembre, il manicomio talvolta funse da luogo di fuga per coloro che ricorsero, come estremo rimedio, al ricovero volontario. «Si tratta in massima parte», scrive Sorcinelli, «di persone che cercano nel manicomio una via di scampo a situazioni per loro pericolose: sono di volta in volta ebrei, disertori o renitenti alla Repubblica sociale, partigiani, fascisti. Non sempre l’ospedale psichiatrico si rivela indenne dai rastrellamenti e dalle rappresaglie; da quello di Trieste, il 28 marzo 1944 reparti di SS prelevano 24 internati ebrei e li caricano su dei camion “per destinazione ignota”» (p. 112).
L’attenzione e le analisi di Sabina Cremonini si concentrano in particolare sulle donne e le sue considerazioni si aprono con le parole – sconcertanti, ma in linea con il modello psichiatrico dominante – della dottoressa Maria Del Rio del San Lazzaro di Reggio Emilia, che nel 1916, studiando la relazione tra salute psichica delle donne e il conflitto in corso, arriva ad attribuire al corpo femminile il ruolo, attraverso l’atto generativo, di «tramite fisiologico tra la guerra e la follia» (p. 83). «Non si può accusare la guerra» – scrive la dottoressa Del Rio – «di aumentare da sola il numero delle malate di mente. Le si può attribuire, per il tramite della donna, una ripercussione sull’avvenire. Le generazioni concepite negli anni di guerra pagheranno un maggior tributo alle malattie mentali, tarda manifestazione delle sofferenze e delle angosce subite dalle madri» (p. 83).
L’opinione della psichiatra non cambia nel corso degli anni e nel 1950 conferma la sua impostazione tardo-positivistica, organicistica e maschilista in una recensione ad un saggio di uno studioso inglese, in cui è portata a «negare alla donna uno spazio psichico indipendente dalla sua funzione materna» (p. 85). Pertanto, conclude Sabina Cremonini, «Se ai soldati sono riconosciute le psicosi di guerra, pur facendole rientrare nella teoria della predisposizione, e se per i figli concepiti in periodo bellico può scattare il meccanismo della tara ereditaria, la donna sembra invece dover uscire necessariamente indenne dai guai psicologici della guerra» (p. 85), o meglio, anche in questo caso per la donna è ritagliato un ruolo esclusivamente secondario e strumentale rispetto al mondo maschile.
Degli effetti sulla salute psichica dei civili tratta Paolo Giovannini, in modo particolare soffermandosi sulla traumatica esperienza di coloro che sono sottoposti, via via sempre più frequentemente, ai bombardamenti e che, trovando riparo nei rifugi antiaerei, assumono comportamenti ed atteggiamenti anomali, disturbati, come quello che viene chiamato dalla letteratura psichiatrica del tempo “sonnolenza di attesa”, «che viene classificata come ”espressione più o meno camuffata” di una paura” che costringe molti individui a rimanere “per lo più in disparte, in un angolo del rifugio” […] senza scambiar parola con alcuno, con gli occhi chiusi, quasi “come pietrificati”» (p. 132).
Certamente tra le più traumatiche e quindi più frequenti cause di disturbi psichici c’è l’esperienza di deportazione ed internamento nei campi di prigionia, ma la scienza medica di quegli anni, nonostante alcuni psichiatri (Giorgio Padovani e Furio Martini) siano loro stessi reduci dai campi tedeschi ed abbiano potuto constatare direttamente e personalmente gli effetti dell’internamento, continua a riproporre il paradigma della predisposizione o della personalità già precedentemente disturbata, insomma il modello secondo cui le cause acquisite o esogene hanno effetto solo su antecedenti cause costituzionali o endogene. Con qualche interessante eccezione, che però sostituisce l’idea della predeterminazione organica con quella del condizionamento sociale, “di classe”: i casi di nevrastenia colpirebbero prevalentemente gli internati acculturati e di estrazione sociale medio alta, cioè gli ufficiali, che, anche senza segni di predisposizione organica e costituzionale, sembrano risentire e patire più degli altri delle condizioni di prigionia.
Per concludere questa presentazione de La follia della guerra, riteniamo che si tratti di un libro che a più di vent’anni di distanza valga la pena rileggere ed integrare con altri studi e ricerche sull’argomento che nel frattempo si sono aggiunti.