di Simone Scaffidi
[Le cubane è un diario di viaggio scritto tra il marzo e l’aprile 2013 durante una permanenza di 35 giorni a Cuba in cui ho avuto modo di percorrere da occidente a oriente l’isola. Verrà pubblicato a puntate sulle pagine di Carmilla a partire da questo momento. Buona lettura].
L’Avana. Taxi. Fuori è buio ma sui muri, tra le fronde degli alberi, intravediamo facce barbute e bandiere cubane. Eloy, l’amico del nostro gancio transoceanico Camilo, ci accoglie nell’oscurità della madrugada. Il suo viso è gentile e sorridente e non mostra i segni di uno svogliato risveglio.
Notte. Il cancelletto bianco, sgualcito dai segni del tempo e dalle cicatrici della ruggine, si chiude alle nostre spalle mentre una casa coloniale bianco e azzurra, illuminata in chiaro scuro dalla luce fioca dei lampioni, si alza di fronte a noi. È una villa spoglia, come scopriremo l’indomani, arredata modestamente e dagli alti soffitti. Eloy è di poche parole, ci mostra la camera dove dormiremo. Orizzontali, godiamo di un materasso morbido, lenzuola bianca e cuscini bombati. La scomodità dei rigidi sedili della compagnia charter che ci ha portato fin qui sfuma via.
Mattino. La luce filtra dalla porta in ferro pesante, il condizionatore ronza. La stanza a piano terra ricorda casa di Silvita in Costa Rica. Il telecomando non risponde, la vecchia televisione non si accende, la radio ha il mangiacassette. Cerchiamo di sintonizzare Radio Rebelde ma il segnale è disturbato. Alcune sedie arrugginite circondano un tavolo massiccio al centro del cortiletto interno, questa notte lo abbiamo circumnavigato ma solo la luce del giorno ci consente di scoprirlo. A pochi metri di distanza, una panca in pietra grigia lo osserva. Un’enorme mangueira domina il patio cementino e una rete protegge la nostra testa dai gustosi frutti maturi in caduta libera. «È la stagione giusta». Sono le parole di un uomo robusto in ciabatte, calzoncini e maglietta. È Eloy. «In questa stagione i manghi sono secchi e dolci. Vi preparo un caffè e vi porto un po’ di frutta». Il caffè è dolce, troppo dolce. «Benvenuti ai Caraibi».
L’URSS e l’Africa. Eloy ha lavorato sette anni in Unione Sovietica come pilota di aerei, lì ha imparato il russo e un po’ di inglese. Ora è fisso a La Habana con la moglie e le sue due bambine. Ha diversi lavori per le mani: aggiusta praticamente tutto quello che gli capita, è specializzato in circuiti elettrici, è un affittacamere, fa l’operaio alla fabbrica di sigari e l’allevatore di maiali a tempo perso. Il suo amico Camilo arriva a metà mattinata, è lui il nostro gancio, lui che ci ha trovato da dormire da Eloy. Nero di carnagione, porta occhiali da sole con lenti a specchio, è alto e muscoloso e ha battuta e sorriso facile. Dimostra una trentina d’anni ma scopriremo che ne ha cinquanta. Dopo i primi convenevoli gli chiediamo che cosa fa nella vita e lui parte da lontano raccontandoci che ha partecipato alla guerra in Angola nell”86 e ha operato in Congo ed Etiopia, non specifica il suo incarico. Poi ha vissuto per qualche anno a Modena e in Austria dove ha lavorato come fisioterapista e naturopata aiutando economicamente e a distanza il Partito. Con i soldi che è riuscito a mettere da parte ha sistemato la casa dove ore abita. «Ma sono rimasto troppo poco tempo fuori da Cuba per diventare ricco» sospira con un sorriso. Anche lui, dopo le esperienze all’estero, vive a l’Avana, è maestro di arti marziali e ha due belle bambine, proprio come Eloy. Tira fuori il portafoglio e ci mostra orgoglioso le loro fotografie. In questi giorni vuole farcele conoscere insieme a tutta la sua famiglia. Non smette di ripeterci che se abbiamo bisogno di qualunque cosa, basta chiamarlo. Lui è qui per noi, una chiamata e arriva. È molto premuroso e protettivo nei nostri confronti. Troppo, pensiamo. Ingrati, siamo degli ingrati.
Economia. Con Eloy e Camilo discutiamo un po’ della situazione economica e politica del paese. Eloy critica il regime che non ha saputo rinnovarsi, l’accomodarsi di alcuni politici e l’incapacità di fare uscire il paese da una crisi economica che dura da più di 54 anni. Sa benissimo che le cause dell’instabilità economica non sono riconducibili soltanto a fattori endemici al regime, ma è stanco e disilluso della crisi perpetua che lo Stato non riesce a fronteggiare. Sostiene che negli ultimi anni alcune politiche di apertura portate avanti da Raul Castro hanno contribuito ad aumentare la diseguaglianza sociale a Cuba, che prima era più contenuta e meno tangibile. Non c’è contraddizione nelle sue parole, la realtà è contraddittoria.
Monete. La loro compagnia è piacevole, rimarremmo ad ascoltarli per ore ma fuori il nuovomondo, quello con la “n” minuscola, ci aspetta. Camilo ci “scorta” per il quartiere 10 de Octubre, vuole accompagnarci fino alla strada dove passano i taxi e insegnarci qualche trucco che ci farà sentire un po’ più cubani e meno gringos in balia dei cubani. Durante il cammino ci riempie le tasche di preziosi consigli e ci avverte di prestare molta attenzione alla differenza tra CUC e pesos, le due monete vigenti a Cuba. In un negozio cambiamo molti CUC in pesos e Camilo ci spiega che la prima è la moneta dei gringos e degli amici dei gringos e vale molto di più, mentre la seconda è la moneta dei cubani e vale molto di meno ma ci permette di comprare più cose a prezzi inferiori. Se useremo i pesos, dunque, spenderemo meno, a patto di conformarci in toto agli usi e costumi cubani, dal mangiare ai trasporti e a tutto il resto.
Colectivos. L’Avenida Santa Catalina è ampia e lunga, non riusciamo a vederne la fine. Per le strade la gente passeggia tranquilla, gli alberi ai lati dei marciapiedi reggono folte chiome verde intenso che rendono meno traumatico l’impatto con il grigio dell’asfalto. Tra le fronde spuntano in serie edifici coloniali dai colori pastello sbiaditi. Il verde qui, quello degli alberi non dei semafori, è verde per davvero. Di tanto in tanto qualche auto d’epoca interrompe la pace borbottando o sfrecciando sull’Avenida. Senza nemmeno accorgercene passiamo dalla tranquillità e dal fischiettio degli uccelli di Avenida Santa Catalina alla caoticità e ai tubi di scappamento delle macchine d’epoca, che ora invadono prepotentemente le strade. Giungiamo all’incrocio tra Avenida Santa Catalina e Avenida 10 de Octubre, il punto dove si concentrano masse di persone intenzionate a raggiungere il centro della città. Camilo ci indica quali macchine dobbiamo fermare: non i taxi ordinari e statali – che pagheremmo in CUC – ma i colectivos. Assordati dalla confusione proviamo timidamente ad alzare il braccio ma nessuno si ferma. Prendiamo coraggio, ci sporgiamo di più dal marciapiede, scendiamo in strada e saltiamo su un colectivo scassato. Sediamo sul sedile posteriore compressi tra un finestrino rotto e un signore col cappello bianco. In tutto, compreso l’autista, siamo in otto nel colectivo, tre seduti davanti, due nei sedili intermedi e tre in quello posteriore. Ne manca uno soltanto per formare una squadra di baseball. E il nono giocatore non si fa attendere, dopo una brusca frenata, salta a bordo: equipo al completo. Davanti a noi una signora afrodiscendente regge un portaoggetti metallico dipinto di bianco e sul cruscotto due bandierine sventolano ad ogni accelerata del conducente. Sono la cubana e la venezuelana che s’intrecciano sospinte dal vento, a sancire un’alleanza politica che potrebbe essere compromessa dalla morte di Hugo Chavez, avvenuta soltanto pochi giorni fa.
Por la izquierda. In serata quando il tassista ci accompagnerà a casa, sottolineerà l’assenza di un’ industria pesante a Cuba e di una fabbrica di automobili. La situazione – ci dice – è aggravata anche dal blocco delle importazioni: «È per questo che abbiamo le auto degli anni ’50, sono quelle che c’erano prima della Revolución e quelle sono rimaste. Ora che c’è Raul le cose stanno gradualmente cambiando, Cuba si sta aprendo». Poi ci racconta che un medico, una delle professioni più pagate a Cuba, guadagna circa 20 dollari al mese mentre lui che non lavora per lo Stato ma come privato – por la izquierda (in nero) – può arrivare a guadagnare quella cifra in un solo giorno. Ha studiato informatica e per un breve periodo ha fatto anche il professore ma guadagnava troppo poco e così tre anni fa ha deciso di fare il tassista. La sua auto, una delle più nuove in circolazione, è del 1988 e ha 24 anni, proprio come lui e come noi.
Supermercati. Per tutto il pomeriggio non facciamo altro che camminare per Habana Vieja. Bellissima e colorata, decadente e vivissima. Si ha la sensazione di essere in un altro mondo, l’impatto è forte come il primo con Rio de Janeiro ma qui sembra che ci sia qualcosa che vada oltre lo shock culturale. Nei supermercati troviamo solo l’essenziale, pochissimi prodotti, pochissime marche, le più potenti: Nestlé e Del Monte. Si percepisce la decadenza guardando gli edifici coloniali abbandonati e tremolanti, sembra che debbano crollare da un momento all’altro e mi fanno tornare alla mente le macerie portoghesi di Porto, Coimbra e Lisbona, i confini d’Europa più vicini alle Americhe. Le strade sono affollate, dicono che in quattro chilometri quadrati si concentrino circa sessantamila persone, forse il dato è un po’ pompato ma sono comunque tante quelle che l’occhio umano scorge. Neppure l’orecchio rimane indifferente alla moltitudine di voci che si accavallano e si confondono nelle piazzette: squarci tra una via stretta e l’altra, affollati di carretti ricolmi di frutta, dove piacevoli folate di vento tiepido si mischiano alla quotidianità cubana.
Baseball e pallone. Non sappiamo bene come ci siamo arrivati, ma ci ritroviamo nel quartiere cinese. Sappiamo però di aver camminato molto perché siamo sfiniti. Decidiamo di fermarci nell’ennesima piazzetta a riposare e sediamo su una panca di pietra insieme a una signora dallo sguardo perso ma gentile. Proprio davanti alla nostra panchina un gruppetto di bambini gioca a calcio, alcuni sono scalzi, altri hanno le scarpe sfondate, la maggior parte sono a petto nudo. Un altro gruppo s’infila nelle mani guantoni da baseball più grandi del loro petto e si scambia battute da una parte all’altra della strada secondaria che lambisce la piazza. Il pallone da calcio finisce costantemente nella via principale dove auto d’epoca – che continuo a chiamare così, ma che chiaramente qui non sono d’epoca – sfrecciano sicure senza sosta. Contemporaneamente la palla da baseball attraversa rapida, da una sponda all’altra, la strada secondaria meno trafficata. Gli automobilisti al loro passaggio suonano ai ragazzini e alla palla da baseball – senza rallentare troppo – e questi prontamente evitano le coloratissime Chevrolet Bel Air, Cadillac Eldorado o Pontiac Star Chief. Saltano sul marciapiede e interrompono, senza lamentarsi troppo, le azioni di gioco.
Libri. Riprendiamo il cammino e arriviamo in una piazza piena di libri usati di cui non ricordo il nome. Mi fermo a una bancarella e faccio amicizia con una signora molto disponibile e sorridente. Lo sguardo si posa immediatamente su un libro con la copertina illustrata che dal formato sembra un album. Non è né un saggio, né un romanzo, né un fumetto ma è effettivamente un album che racconta la storia della Revolución dal ’52 al ’59. E per di più è un album di figurine: disegnate e corredate da didascalie. Ho sempre avuto un’attrazione particolare per le figurine e per la socialità che costringe al baratto e alla condivisione per completare l’opera. Mi esalto, è una pubblicazione che mi piace da morire ma non la compro. È solo il primo giorno – mi dico – ci saranno altre occasioni. Continuo la piacevole conversazione con la signora, lei non cerca pedantemente di convincermi a comprare e così sfogliamo insieme la biografia di Camilo Cienfuegos commentata dall’anziana venditrice. Credo di starle simpatico. Ho già nostalgia della mia prima amica cubana, mi informo sugli orari della bancarella, la saluto e continuo il tour per la piazza alla ricerca – invano – del terzo volume di Memoria del fuoco di Eduardo Galeano. Mi ero illuso di trovarlo qui a Cuba. Sembra introvabile in italiano e in Italia. Fallisco anche qui e mi consolo sfogliando i romanzi di Daniel Chavarría e alcuni scritti di Fidel e Guevara.
Cibo. Oggi abbiamo pranzato benissimo, bevuto un buonissimo succo fresco al mango e un’ottima Pina Colada in un bel posticino in Plaza del Cristo. Un posto caldo e accogliente dal nome simpatico: El Chanchullero. Il barista è cordiale. Unica pecca: troppi gringos urlanti per i nostri gusti.