di Fabrizio Lorusso*
A oltre due anni dalla notte di Iguala, nello Stato messicano del Guerrero, nella quale la polizia locale, con la connivenza della polizia statale e federale e dell’esercito, uccise sei persone e consegnò quarantatré studenti della Scuola Normale (magistrale) Rurale R. Isidro Burgos di Ayotzinapa a un gruppo di presunti narcotrafficanti, il caso resta irrisolto; e ciò nonostante siano oltre cento i detenuti e la procura abbia elaborato migliaia di pagine per integrare il fascicolo. Dunque non ci sono state condanne per i fatti violenti della notte del 26 settembre 2014, assimilabili a una persecuzione armata e un’operazione pianificata contro degli studenti inermi, come ha spiegato il Giei (Gruppo Interdisciplinare di Esperti Internazionali nominato dalla Commissione interamericana per i diritti umani per investigare sul caso), e non sono pochi gli osservatori delle vicende messicane che parlano di “terrorismo di Stato” e “narco-stato”, in riferimento all’evidente degenerazione e compenetrazione mafiosa delle istituzioni e delle funzioni pubbliche in Messico. A oggi la lotta dei genitori dei quarantatré studenti, che risultano ancora ufficialmente desaparecidos come altre 30 mila persone in Messico, continua per ottenere verità, castigo dei responsabili, restituzione con vita dei desaparecidos e soprattutto giustizia, grazie anche al sostegno di migliaia di attivisti, giornalisti, avvocati, persone solidali, collettivi, organizzazioni, difensori dei diritti umani e istituzioni, messicane e straniere, che li accompagnano.
D’altro canto il governo e la procura hanno cercato costantemente di manipolare le informazioni e creare ‘verità storiche’ di comodo per ridurre il ‘caso Iguala-Ayotzinapa’ a una vicenda locale, come fosse un evento eccezionale e limitato a una zona, mentre in realtà le implicazioni sono molto più ampie e strutturali e le responsabilità arrivano a toccare le alte sfere, includendo il presidente Peña Nieto e il ministro degli Interni in quanto capi delle forze armate e della polizia federale, la cui partecipazione nella ‘notta di Iguala’ è stata provata.
Nel settembre e ottobre 2014, durante le prime ricerche per trovare i quarantatré studenti nelle colline intorno a Iguala, l’organizzazione solidale Upoeg (Unione dei Popoli Organizzati dello Stato del Guerrero) rinvenne decine di fosse clandestine e di resti ossei: il Messico si stava trasformando in un’immensa fossa comune stipata di cadaveri, simbolo del contubernio tra le autorità e le mafie. Le fosse di questo tipo sono centinaia in tutto il Paese. Quando la Upoeg lasciò Iguala, un gruppo di cittadini della città decise di proseguire nelle ricerche e creò il Comitato degli Altri Desaparecidos (Los Otros Desaparecidos de Iguala), coordinato da Xitlali Miranda fino all’estate scorsa ed oggi trasformatosi in una AC (Associazione Civile).
Fino a poche settimane fa il lavoro del gruppo consisteva nel cercare le fosse e i resti umani intorno alla città, dare sostegno alle famiglie che hanno vissuto l’esperienza della perdita per ‘sparizione forzata’ di uno o più membri, coordinarsi con la procura e con le istituzioni che dovrebbero svolgere le ricerche, partecipare alle brigate nazionali con altri comitati simili che, di fronte all’inazione delle autorità, si dedicano a cercare i propri desaparecidos, e richiedere l’identificazione dei resti e le prove del DNA. Il potenziale di denuncia insito nelle attività di ricerca nelle fosse clandestine era molto alto, visto che rappresentava uno sberleffo e un’occasione di rendere più visibile la problematica delle sparizioni forzate, quelle, cioè, in cui partecipa direttamente lo stato o è connivente con la delinquenza organizzata. Le attività di ricerca sono oggi sospese e una parte maggioritaria del collettivo ha deciso di fondare un’associazione e di aderire a diversi programmi del governo per vittime, abbandonando la parte minoritaria del gruppo che, invece, vorrebbe continuare con le ricerche direttamente senza intermediazioni da parte della procura che, in passato, s’è mostrata inetta e aggressiva nei loro confronti.
Questa intervista racconta le difficoltà e le soddisfazioni, le sofferenze e la tenacia di queste persone che, oltre a lottare contro l’indifferenza dello Stato, devono sfidare la negazione delle famiglie e dell’intera società nei riguardi del fenomeno delle sparizioni forzate. Le vittime e le famiglie, infatti, portano uno stigma, sono spesso identificate dai media e dai vicini come “persone di malaffare” o “membri della criminalità organizzata”, come gente che “qualcosa avrà fatto” e per questo è stata “fatta sparire”. E quindi molte preferiscono nascondersi. Gli Otros Desaparecidos e i movimenti per le vittime della narcoguerra in Messico le fanno riemergere con dignità.
Che percezione avevi della situazione del Paese prima della sparizione dei quarantatré studenti di Ayotzinapa?
Personalmente non conoscevo le dimensioni del problema che possiamo vedere adesso ed è palpabile. Prima la mia vita erano il lavoro, la famiglia e gli amici, dunque mai m’ero accorta della situazione e del pericolo in cui vivevo. Molta gente come me sentiva semplicemente voci su ciò che succedeva, ma era come vivere sotto una campana di vetro. Succedeva a molti qui. Non abbiamo avuto la disgrazia di essere toccati direttamente dalla criminalità ed era una cosa lontana.
Quindi la tua storia personale non ha a che vedere con le sparizioni forzate?
In realtà ho due cugini desaparecidos. Uno è stato sequestrato ad Apaxtla, ma la sua famiglia non ha mai detto nulla, né ha sporto denuncia. Perfino noi, comunque parte della famiglia, abbiamo saputo un anno dopo che era stato chiesto un riscatto, che era stato pagato, ma che mio cugino non era più tornato. Ne ho un altro, Jonathan, desaparecido in un blocco stradale della polizia sette anni fa a Chilpancingo, la capitale del Guerrero. È di un altro ramo della famiglia, l’abbiamo cercato a lungo, ma non l’abbiamo trovato né abbiamo avuto informazioni su dove potesse essere. Quindi ho un’idea di cosa significhi una sparizione forzata, ma in quell’epoca non ci siamo mai rivolti a un’organizzazione. Abbiamo sporto denuncia e cercato da soli. Pensiamo si trovi nei pressi della località in cui è scomparso, ma di certo non a Iguala perché qui ci sono bande criminali differenti.
Come nasce il comitato de Los Otros Desaparecidos?
La ricerca dei desaparecidos a Iguala è iniziata per via degli studenti di Ayotzinapa. Quel crimine ha mosso la coscienza di tante persone, compresi io e i miei amici. Dopo il 26 settembre sono venute qui le persone della Upoeg (Unión de los Pueblos y Organizaciones del Estado de Guerrero) perché vari degli normalisti sono originari delle comunità in cui lavora quella organizzazione, cioè della Costa Chica e della montagna. Loro sono in gran parte contadini e decidono di spostarsi a Iguala per fare le ricerche, con la speranza di ritrovare gli studenti vivi. Ma quando cercano sulle colline scoprono l’esistenza di decine di fosse con resti umani. La notizia fa scalpore in Messico e all’estero e viene confermato che non si tratta degli studenti. Ma allora nasce la domanda: chi sono?. A nessuno pare importare la questione perché sono venute le autorità e la procura statale, hanno visto le fosse, ma la risposta, assurda, che hanno dato è stata solo: «Va beh, non sono gli studenti.»
La nostra ricerca in quel momento era per i normalisti, ma non potevamo lasciar passare una cosa del genere come avevano fatto loro. La Upoeg ha cominciato a convocare le famiglie di Iguala che avevano un loro caro desaparecido, ma le famiglie non s’avvicinavano. C’è stata solo una reazione solidale per cui regalavano cose, cibo, acqua e materiali, ma non partecipavano alle assemblee e alle ricerche. Io e le mie amiche andavamo a portare aiuti, così è nata un’amicizia con loro e soprattutto con Miguel Jiménez. Lui mi diceva: «Dovete venire a vedere perché quando vedrete che c’è là capirete le dimensioni del problema, perché se te lo racconto non si capisce quello che sta succedendo e noi un giorno ce ne dovremo andare, per cui voi dovete essere consapevoli che Iguala è una zona di fosse, un cimitero.» All’inizio pensavo esagerasse. Finché non ho toccato con mano non era una realtà, ma quando ci sono andata ho capito che effettivamente la collina era disseminata di fosse. Mi venne un colpo, non m’ero mai accorta del problema che vivono molte famiglie. Dunque abbiamo fatto riunioni con il parroco, Padre Óscar, chiedendogli aiuto. Abbiamo cominciato a convocare le famiglie in chiesa annunciando: «Se hai un familiare scomparso, vieni a farti l’esame del DNA e cercalo sulle colline.» Così le famiglie arrivavano perché erano attratte dalla possibilità di farsi lo studio del DNA. L’organizzazione di Julia Alonso, Ciencia Forense Ciudadana (Scienza Forense Cittadina), ci ha offerto di realizzare le prove e quindi è nato il comitato dei familiari.
Come vi siete organizzati?
La prima riunione di una ventina di famiglie è stata l’8 novembre 2014. Considera che qui siamo gente povera, senza nessuna risorsa, e con quello che racimoliamo facciamo volantini, li mettiamo su Facebook e reti sociali, chiediamo ai giornalisti che vengano. L’11 novembre la sorpresa è stata enorme perché la cantina della chiesa era piena di famiglie, circa centocinquanta. È stato paralizzante, faceva paura. Mi ricordo che Miguel mi ha chiamato quella mattina dicendo che avevano avuto un problema, cioè che avevano sequestrato uno dei loro compagni della Upoeg e quindi non potevano venire alla riunione. Immagina la paura che avevamo qui a Iguala tutti quanti, per avere osato organizzare una cosa del genere. Ho pensato di non andarci nemmeno io, ma dopo ho riparlato con lui e gli ho detto che sarei andata solo a presentarmi brevemente e spiegare cosa sapevamo fino a quel momento. Loro alla fine non sono arrivati, ma è comunque successo qualcosa d’impressionante, inatteso, quando le persone hanno iniziato a prendere la parola, ad alzarsi in piedi e a raccontare le loro storie al microfono, una dopo l’altra. Tutti piangevano perché le storie erano tragiche e parlavano di sofferenza, impunità, impotenza, di come nessuno ti ascolta e non si sa cosa fare e dove andare. Oltre a queste narrazioni resta il dolore per aver perso un familiare.
Come realizzate le ricerche?
Noi non abbiamo fatto molto perché tutto è successo spontaneamente e abbiamo fissato un’altra riunione per il martedì seguente. Poi il venerdì dopo c’è stata la prima ricerca con i familiari, in cui abbiamo trovato sette resti umani, e la domenica siamo andati nella zona delle fosse clandestine accompagnati da gente della Procura generale della Repubblica (Pgr). È stata come una palla di neve che ha accelerato tutto per via del tremendo bisogno che palesavano le famiglie, le quali non erano mai state ascoltate fino a quel momento da autorità indolenti e inerti. Allora c’è stata la possibilità di andare a cercare, scavare e trovare i propri familiari, vedere che si fa con i corpi delle fosse che non sono stati esumati.
Com’è stata la collaborazione con la Procura?
È nata per un colpo di fortuna. Una giornalista ci ha messo in contatto con la signora Eliana García che ha una lunga carriera da attivista ed è responsabile dell’ufficio per i diritti umani della Procura. Sono venuti alla riunione con le famiglie e hanno promesso di cominciare i lavori insieme a noi. È difficile la collaborazione con loro perché è un’istituzione che ha un meccanismo che non va avanti, dunque ci sono molti vizi non solo in quest’istituzione ma in tutte, per cui è complicato che facciano qualcosa anche se sanno essere di loro competenza. Non lo fanno. Quindi hanno cominciato a lavorare da quando noi facciamo riunioni. Senza le famiglie tutto questo sarebbe già finito. Se quelli della Procura escono a cercare soli, non trovano niente, ma con la pressione delle famiglie qualcosa si muove nel meccanismo, per forza, a denti stretti, ma si muove. Perché ci sono lì i familiari che gli dicono che c’è qualcosa e che si deve continuare a scavare, e così trovano. È una lotta costante, logorante per noi e magari pure per loro, ma se non si facesse così non si otterrebbe niente.
Che strumenti avete per le ricerche?
Va beh, abbiamo solo pale, picconi, piccole sbarre e prima avevamo delle aste metalliche che però si sono piegate e non le abbiamo sostituite. Da quando abbiamo iniziato, siamo andati in giro senza risorse, dicevamo soltanto alle famiglie di portarsi dietro quello che avevano lì, oggetti rudimentali. Non abbiamo attrezzi sofisticati.
Che tipo di sostegno e ostacoli avete avuto?
Come richiesto, ora andiamo a cercare sotto protezione della polizia federale e a volte della Marina. Ciononostante questo aiuto è limitato, minimo, si può trattare magari solo di una pattuglia con tre/quattro federali, ma va beh, in qualche modo facciamo finta di sentirci protetti, altrimenti già avremmo bloccato le ricerche. E infatti sono state sospese in certi momenti, quando qui era diventato molto pericoloso per una serie di omicidi che stavano colpendo l’intera regione, nella speranza che poi la situazione della sicurezza tornasse a migliorare. Anche se questo non è accaduto, abbiamo deciso di continuare. Da due mesi il governo statale manda un camioncino per gli spostamenti delle famiglie. Abbiamo chiesto altri aiuti all’amministrazione statale e comunale, ma più che altro mostrano indolenza. Le famiglie non hanno bisogno solamente di andare avanti con le ricerche, ma anche di altri aiuti perché sono molto umili e sfavorite, economicamente parlando. Quasi sempre la persona scomparsa all’interno del nucleo familiare rappresenta il sostento economico e quando sparisce le finanze familiare cadono in picchiata, senza contare gli altri aspetti dolorosi. Perciò abbiamo avviato pratiche presso gli enti statali. Quando c’era il governatore ad interim Rogelio Ortega, nel 2015, è venuta sua figlia e sono stati dati alcuni aiuti… Siamo un gruppo di 400 famiglie e alle riunioni di solito ne vengono 200. Loro hanno mandato diciotto progetti produttivi. Figurati, non toccano neanche il 50% del totale e poi portavano 300 ceste di alimenti per 400 famiglie. La risposta dello Stato è stata molto scarsa.
Ma non dovrebbe essere operativa la Legge delle Vittime?
C’è un’altra istituzione, la Comisión Ejecutiva de Atención a Víctimas (Commissione Esecutiva di Supporto alle Vittime – Ceav), che ha l’obbligo secondo la Legge generale delle Vittime di fornire alle famiglie il supporto economico, giuridico e psicologico, ma anche questa non si muove. Stavano dando 100 pesos (7 euro) alle famiglie per i biglietti del bus. Glieli hanno tolti dal novembre 2015 con varie scuse: primo, perché dicevano che si stava chiudendo l’anno fiscale, poi perché non c’erano ancora le risorse, adesso perché gli chiedono una tesserina… Da novembre a gennaio hanno fatto firmare documenti alle famiglie come se stessero ricevendo il denaro, promettendo loro che sarebbe presto arrivato. Ma a gennaio hanno smesso di firmare perché abbiamo girato un video di quando firmavano senza ricevere i soldi e allora s’è fermata questa pratica abusiva delle firme, ma alla fine non hanno dato più niente alle famiglie. Adesso gli viene data della frutta e l’acqua durante le riunioni. In teoria avrebbero diritto, quando partecipano alle riunioni con la Procura, al rimborso del vitto, dell’alloggio, del trasporto. Convochiamo questi incontri il martedì per aggiornare sulla situazione e ci vengono la PGR, duecento persone delle famiglie e la CEAV, sostanzialmente a portare l’acqua… Ma il gruppo di coloro che vanno a fare le ricerche s’è ridotto gradualmente. Eravamo settanta, cinquanta, quaranta e ultimamente andiamo in venti.
Quante fosse e corpi avete rinvenuto e identificato?
Sono stati esumati 145 resti umani dalle fosse. Ne sono stati identificati ventiquattro e, di questi, ne abbiamo consegnati quindici alle famiglie. Gli altri restano in attesa. Non ho il dato esatto delle ‘fosse positive’ e neanche le autorità lo saprebbero dare con precisione, ma stiamo parlando di più di 100-120 fosse. Vi sono anche fosse clandestine con più di una persona dentro, alcune addirittura ne contenevano sei.
Hai ricevuto minacce?
Personalmente non ho mai ricevuto intimidazioni né molestie da parte del crimine organizzato o dalle autorità. Però ci sono altri membri del gruppo, come Mario Vergara, che hanno denunciato le minacce di morte che hanno ricevuto. Hanno minacciato anche la famiglia di Mario e ci sono varie persone che si sono ritirate dal comitato. Non conosciamo la causa o se abbiano ricevuto minacce. C’è stato l’assassinio di Jimena, che ha un familiare desaparecido e ha partecipato alle ricerche nel febbraio dell’anno scorso. Però non consociamo il motivo, non s’è aperta un’indagine al riguardo. C’è un altro ragazzo assassinato il dicembre scorso e non sappiamo se abbia a che vedere con il fatto che aveva un fratello desaparecido. Miguel Jiménez, che è stato fondatore del comitato, è stato ucciso vicino ad Acapulco e non si sa perché, visto che non hanno indagato… Faceva parte di molti movimenti, era un militante sociale. Infine ci sono molti modi di minacciare o impedire alle persone di fare quello che fanno.
Siete legati a qualche struttura che difende i diritti umani?
C’è un’organizzazione, la Idheas (Litigio Estratégico en Derechos Humanos) che sarebbe la rappresentante legale del gruppo. Loro sono a Città del Messico, ma qui a Iguala non c’è nessuna organizzazione per i diritti umani non governativa o sociale. C’è solo la commissione statale del Guerrero, la Coddhum (Comisión Derechos Humanos de Guerrero).
Cosa ha significato per voi la partecipazione di Mario Vergara alla prima Brigata Nazionale di Ricerca dei Desaparecidos (Primera Brigada Nacional de Búsqueda de Desaparecidos) ad Amatlán, Veracruz?
Credo ci siano varie organizzazioni per le ricerche di persone scomparse in varie località della regione, ma quando viene qui la Upoeg e ci insegna a cercare le fosse sul terreno e incominciamo a farlo, capiamo che era proprio qualcosa che mancava. Puoi stare in una disputa continua con le autorità, ma loro fanno qualcosa solo se vogliono, altrimenti niente. Perciò l’esistenza del movimento delle famiglie di Iguala significa che qualcosa si può fare, perché non abbiamo praticamente nulla, siamo in una situazione economica pessima, ma anche così i genitori salgono sulle colline e come possiamo ci spostiamo, compriamo quanto necessario o lo chiediamo. L’idea è condividere con altre organizzazioni, che a volte hanno molta esperienza e fanno progressi in altre direzioni, il fatto che a volte percorrendo le colline e le strade si ottengono più risultati, è come quando si appicca il fuoco. Siamo orgogliosi di aver messo il nostro granello di sabbia al riguardo. Mario, che cerca suo fratello con tutto il coraggio e l’energia del mondo, ha imparato molte cose sulla ricerca delle fosse ed è stato uno dei principali ispiratori per la realizzazione di questa Brigata Nazionale.
Che impatti avete provocato nelle famiglie e nella società?
Iguala è una città in cui si dice che non succede niente, quindi la società ignora il movimento dei desaparecidos, non c’è una vera solidarietà verso le famiglie. Piuttosto queste vengono criminalizzate non solo dalle istituzioni ma anche dalla società, e vengono escluse perché hanno dei desaparecidos e, secondo l’opinione comune, sicuramente avevano a che fare con la delinquenza organizzata. È un mondo a parte quello dei desaparecidos, è triste ma è molto reale e si sente perché non abbiamo organizzazioni qui che li accompagnino, per esempio se c’è una manifestazione o per altre questioni. Forse abbiamo un impatto a livello nazionale e internazionale, come si è visto con la Brigata, ma a livello locale non si muove niente. Insomma, nulla cambia e i familiari delle vittime si sentono addirittura segnalati, come se avessero una malattia o qualcosa da nascondere.
Che sviluppi vedi per il futuro?
Siamo in una fase complicata, visto che nei gruppi grandi sorgono tante idee e abbiamo bisogno di più unità per andare avanti. Abbiamo appena inviato una richiesta alla Pgr, al funzionario addetto alla ricerca delle persone scomparse e al viceprocuratore per i diritti umani, affinché vengano a Iguala e si inizi a fare l’esumazione dei cadaveri nelle fosse comuni dello Stato del Guerrero per identificare i corpi. Ci sono tante famiglie che cercano i loro cari sulle colline qui intorno, ma nessuno può garantire che questi non siano stati già trovati e portati al SeMeFo (Servicio Médico Forense), e quindi che lo Stato non abbia adempiuto alle sue funzioni. Infatti succede che spesso mandino i corpi alla fossa comune pubblica senza troppe verifiche, lasciandoli lì come rifiuti nell’oblio. Stiamo chiedendo che vengano riesumati e si confronti il DNA con quello dei familiari. Non ci sono banche del DNA e questa è l’unica cosa che possiamo fare, del resto deve farsene carico lo Stato.
Che succede alle famiglie che trovano i resti dei loro desaparecidos?
Non tutti i corpi identificati sono di Iguala, ce ne sono di altre regioni. Le persone identificate che formano parte del comitato continuano ad assistere alle riunioni in chiesa. A una signora che ogni domenica viene con noi nelle ricerche sono stati consegnati i resti del figlio, ma lei dice che proseguirà finché gli altri non avranno recuperato i loro cari perché c’è un patto e lei è stata aiutata dagli altri. Quando viene consegnato loro un familiare, ho visto che per le famiglie è un sollievo. È difficile per me pensarci in questi termini perché io desidererei che fosse vivo e sentirei un gran dolore, ma loro no. È stato tanto il loro logoramento, il loro cammino e la sofferenza che, quando gli viene restituito qualcosa del familiare scomparso, sentono sollievo e, soprattutto, pace.
*[Questo testo, aggiornato ora per Carmilla, è uscito sulla rivista Pagina Uno n. 49 e, in spagnolo in versione breve, sul sito dell’agenzia peruviana di notizie Noticias Aliadas. E’ anche un estratto del libro Messico invisibile. Voci e pensieri dall’ombelico della luna, ed. Arcoiris, Salerno, 2016]