di Gioacchino Toni
David Bowie, Sono l’uomo delle stelle. Vita, arte e leggenda dell’ultima icona pop, Il Saggiatore, Milano, 2016, pp. 469, € 24.00
Sul finire del 2016 l’editore Il Saggiatore ha dato alle stampe il volume Sono l’uomo delle stelle, una raccolta di interviste rilasciate da David Bowie tra il 1969 ed il 2003 selezionate da Sean Egan e pubblicate in lingua inglese col titolo Bowie on Bowie l’anno precedente.
Da questa trentina di interviste emerge un Bowie mutevole ed a tratti contraddittorio, poco propenso a lasciarsi guidare dagli intervistatori e per certi versi abile nel giostrare gli incontri con i media a proprio favore per “costruirsi-personaggio”.
Il volume, oltre a regalare ai fan di Bowie, ed agli appassionati di musica in genere, parecchio materiale interessante, offre un’idea di come è cambiata l’intervista musicale anglosassone tra gli sgoccioli degli anni Sessanta del Novecento e l’apertura del nuovo Millennio.
La prima intervista presentata dal volume, “Non scavate troppo a fondo, il bizzarro David Bowie vi implora” di Gordon Coxhill (1969) per “New Musical Express” (UK), viene realizzata quando sono giù usciti i primi due album di Bowie (1967 e 1969) ed il brano Space Oddity, presente nel secondo disco, lo ha fatto conoscere a livello internazionale. Così termina il pezzo Gordon Coxhill: «Con il suo carico di idee originali, la sua voglia di lavorare sodo, il suo odio per le droghe pesanti e per la tendenza a dividere la musica in generi, e con abbastanza buonsenso da impedirgli di montarsi la testa quando presto arriveranno fama e adulazione, David sembra essere proprio il genere di artista di cui il pop ha bisogno in questo momento. Sono certo che sarà in grado di resistere alle pressioni, e se non ci riuscirà, sarà abbastanza saggio da fuggire» (p. 6).
Di qualche anno successiva è un’intervista restata nella storia: “Oh You Pretty Thing” di Michael Watts (1972) per “Melody Maker” (UK). A tre anni dall’entrata i classifica di Space Oddity, sul finire del 1971 viene pubblicato Hunky Dory con Bowie però già totalmente proiettato verso The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars. È in tale contesto che viene realizzata l’intervista presso gli uffici della Gem Music ed è qua che il musicista se ne esce con la celebre dichiarazione di omosessualità. Si tratta di un’affermazione all’epoca di certo non in linea con ciò che il pubblico vuol sentirsi dire ma al tempo stesso utile a far parlare di sé. «L’immagine con cui si presenta attualmente Bowie è quella di un ragazzo deliziosamente effeminato, una checca smancerosa. È smaccatamente camp, con la sua mano floscia e la sua parlata cantilenante. ‘Sono gay’ dice ‘e lo sono sempre stato, anche quando ero David Jones.’ Ma nel pronunciare queste parole sfodera un’espressione maliziosa e divertita, e accenna un sorriso agli angoli della bocca. Sa bene che al giorno d’oggi è concesso atteggiarsi da checca e che, essendo un cantante pop, è quasi tenuto a scioccare e a creare scandalo. Magari a creare scandalo non ci riesce, ma di certo riesce a divertire» (p. 11).
Nel pezzo Watts afferma che nonostante la nomea di compositore intellettuale, i suoi brani gli sembrano più un prodotto dell’inconscio che non dell’intelletto e forse questo è il motivo per cui Bowie ammira Syd Barret da cui probabilmente deriva l’approccio anticonvenzionale ai testi e se è Barret ad aprirgli la strada, continua Watts, spetta a Lou Reed ed Iggy Pop il compito di incoraggiarlo a percorrerla.
Il mix di androginia, fantascienza, sperimentalismo ed intreccio di identità che accompagna la pubblicazione di The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars nel giugno del 1972, fanno da sfondo all’intervista “David al Dorchester” di Charles Shaar Murray (1972) per “New Musical Express” (UK). All’incontro sono presenti anche Lou Reed, la sua band (gli Spiders) ed Iggy Pop. Quando Murray fa notare al cantante che funk, camp e punk sono i termini più ricorrenti tra i giornalisti rock che parlano di lui, Bowie risponde che ciò si deve alla diffusa incapacità di esprimersi dei giornalisti. Non ritiene di avere a che fare col funk pur apprezzandolo: «Mi piace il funk, è torbido. Camp… Capisco perché lo usino. Una volta, quando c’erano gli entertainer, questa parola non esisteva; ma da quando gli entertainer vecchio stampo non ci sono più, ogni volta che qualcuno cerca di fare intrattenimento gli viene purtroppo affibbiata l’etichetta di ‘camp’. Non penso di essere più camp di chiunque in scena si sia sentito a proprio agio, di chi lo era più lì che giù dal palco […] Non saprei definire la mia musica. Nei nostri pezzi rock’n’roll ci sono sicuramente echi dei Velvet; il loro rock’n’roll ha una grande influenza su di me, anche più di quello di Chuck Berry, colui che ha dato il via al genere» (pp. 17 e 19). Murray nell’affermare che a suo avviso Bowie sta a Lou Reed come gli Stones a Chuck Berry, trova il consenso da parte del musicista.
Una parte della conversazione riguarda poi quella che l’intervistatore ritiene una progressiva trasformazione del rock’n’roll in rituale spettacolare ed a tal proposito Bowie sostiene che «Se c’è un aspetto di teatralità nei nostri concerti è perché siamo noi ad avere una certa presenza scenica, senza bisogno di scenografie o di un palcoscenico […] Ci sarà da piangere e da ridere nei prossimi anni, quando un mucchio di band tenterà di fare teatro pur non avendo alle spalle alcuna esperienza […] Resteranno solo quelle poche band strambe che hanno una consapevolezza tale da poter padroneggiare la propria teatralità. Iggy ha una teatralità innata. È un fatto interessante, perché è lontano da qualsiasi canone teatrale. È un teatro tutto suo, che si è portato dietro da Detroit, direttamente dalla strada […] In quanto a me, voglio essere proprio io, nel caso, la diavoleria scenica al servizio delle mie canzoni; voglio esserne il veicolo. Vorrei riuscire a colorare ogni brano della giusta espressività visuale» (pp. 19-20).
L’intervista “Addio Ziggy, benvenuto Aladdin Sane” di Charles Shaar Murray (1973) per “New Musical Express” (UK) esce quando l’artista sta terminando Aladdin Sane, insomma è il momento della saetta sul viso. L’incontro si tiene presso i South Bank Studios della London Weekend Television. Circa i debiti nei confronti di altri artisti afferma Bowie: «Ascolto molti gruppi, ed è naturale che mi faccia influenzare da quelli che più mi piacciono. Se non fossi prima di tutto un fan, magari il mio lavoro sarebbe molto più personale, rispecchierebbe maggiormente la mia identità. Dal momento che sono profondamente immerso nella società in cui vivo, non posso fare a meno di usare gli strumenti con cui essa è stata creata dal punto di vista musicale. Ecco tutto, rubo – e poi uso – elementi di altri musicisti che ammiro e della loro musica» (p. 37).
In “Bowie riscopre il piacere di cantare” di Robert Hilburn (1974) per “Melody Maker” (UK) ci si sofferma sul disco di cover Pin Ups (1973), su Diamond Dogs (1974), sul doppio album dal vivo David Live (1974) e sulla registrazione di Young Americans. E proprio al soggiorno del musicista a Philadelphia per la registrazinoe di Young Americans risale “Bowie incontra Springsteen” di Mike McGrath (1974) per “The Drummer” (USA). A queste date l’inglese è più famoso del rocker americano che ancora non ha ottenuto il successo che arriverà con Born to Run: «Bruce era un po’ a disagio (come sempre quando non è sul palco), Bowie aveva l’aria di un marziano che cerca, senza riuscirci, di farsi passare per uno di noi» (p. 52).
Nel corso dell’intervista “Bowie: sono un uomo d’affari ora” di Robert Hilburn (1976) per “Melody Maker” (UK), il musicista inglese liquida Young Americans come inascoltabile e risulta restio a parlare del suo ultimo album, Station to Station. La conversazione si sofferma sul debutto di Bowie come attore in L’uomo che cadde sulla Terra (1976) e non manca qualche curiosa battuta sull’ipotesi di buttarsi in politica.
In “Addio a Ziggy e a tutto il resto…” di Allan Jones (1977) per “Melody Maker” (UK) Bowie dichiara di essersi deciso a rilasciare interviste «soltanto per dimostrare quanto io creda in quest’album. Sia Heroes che Low sono stati accolti con perplessità. C’era da aspettarselo, naturalmente. Ma Low non l’ho promosso affatto, e molte persone hanno pensato che non l’avessi fatto con il cuore. Voglio mettercela tutta per spingere le vendite del nuovo album. Vedi, credo più negli ultimi due album che in qualsiasi cosa abbia fatto in passato. Voglio dire, dei miei precedenti lavori sono molte le cose che apprezzo, ma poche quelle che davvero mi piacciono» (p. 70).
L’intervistatore ritiene che gli ultimi due album di Bowie, registrati a Berlino in collaborazione con Brian Eno, siano «tra i più audaci e stimolanti dischi che siano stati finora dati in pasto al pubblico rock. Questi due album, che non potevano che suscitare reazioni controverse, combinano le teorie e le tecniche della moderna musica elettronica con testi che vedono Bowie fare a meno delle forme narrative tradizionali in favore di un nuovo vocabolario adatto alla disperazione e al pessimismo che secondo lui dilagano nella società contemporanea» (p. 71). Di rientro dalla parentesi americana, afferma Bowie: «mi sono reso conto che dovevo sperimentare. Scoprire nuovi modi di scrivere. Di più, sviluppare un nuovo linguaggio musicale. Ecco ciò che mi sono prefissato di fare. Ecco perché sono tornato in Europa» (71).
L’intervista “Dodici minuti con David Bowie” di John Tobler (1978) per “ZigZag” (UK) è curiosa soprattutto per lo stile adottato dalla testata che all’epoca è una sorta di fanzine e riporta il colloquio quasi letteralmente, parola per parola, evitando il più possibile di strutturare il pezzo. L’incontro è organizzato nell’ambito della promozione di Heroes ed in alcuni passaggi Bowie si sofferma sulla collaborazione con Brian Eno: «ero stanco di scrivere nella maniera tradizionale come stavo facendo in America, e quando sono tornato in Europa ho preso in esame ciò che scrivevo e i contesti di cui stavo scrivendo e ho deciso che dovevo cercare un nuovo linguaggio musicale. Avevo bisogno che qualcuno mi desse una mano perché mi sentivo un po’ perso e chiuso in me stesso, così ho chiesto a Brian Eno se voleva aiutarmi ed è così in realtà che tutto è cominciato» (p. 80).
Le collaborazioni con i registi David Hemmings e Nicolas Roeg ed il ricorso alla tecnica del cut-up nei suoi testi sono al centro della lunga intervista “Confessioni di un elitista” di Michael Watts (1978) per “Melody Maker” (UK). Incalzato dall’intervistatore circa il suo essere spesso associato alla fantascienza, Bowie risponde di non aver mai considerato i propri lavori fantascientifici: «non ho mai pensato di essere futuristico, anzi, ho sempre pensato di essere una figura molto contemporanea, legata al presente. Il rock è sempre indietro di dieci anni rispetto alle altre arti, ne raccoglie le briciole. Voglio dire, non ho fatto altro che servirmi di una tecnica che Burroughs aveva introdotto in letteratura diverso tempo prima. Ma ho utilizzato uno stile che nella letteratura è morto e sepolto, non si usa più da tempo» (p. 94).
Nel corso della conversazione si torna anche sul rapporto del musicista con Eno: «Grazie a lui ho iniziato a concepire la musica in un modo completamente nuovo, e mi è tornata la voglia di scrivere. Mi ha aiutato ad abbandonare la forma narrativa, di cui ero proprio stanco […] Poi Brian mi ha aperto gli occhi sull’idea del processo creativo, inteso come forma astratta di comunicazione» (p. 98).
Poco prima che Bowie inizi a recitare a Broadway nei panni del protagonista di The Elephant Man, viene realizzata la corposa intervista “Il futuro non è più quello di una volta” di Angus MacKinnon (1980) per “New Musical Express” (UK). Inevitabilmente una parte dell’intervista si sofferma sulle sue prove di attore che lo hanno visto recitare in film come Furyo, Basquiat, L’ultima tentazione di Cristo, Absolute Beginners, Miriam si sveglia a mezzanotte, Labyrinth – Dove tutto è possibile. Terminata la trilogia berlinese, il musicista si appresta a pubblicare Scary Monsters (and Super Creeps) ed in un passaggio in cui l’intervistatore lo incalza a proposito sulla sua ripetuta insoddisfazione circa quel che ha fatto fino a quel momento e lo invita ad individuare anche qualcosa di positivo, così si esprime Bowie: «L’idea che non si debba vivere esclusivamente sulla base di un unico e definito sistema di valori e di morale, che si possano indagare altre aree e altre dimensioni percettive provando ad applicarle alla vita di tutti i giorni. Credo che sia quello che ho cercato di fare, e penso di averlo fatto piuttosto bene. Talvolta, anche se soltanto a livello teorico, ci sono riuscito. Per quanto concerne la vita quotidiana, invece, non penso… Le mie origini piccolo-borghesi rappresentano per me un impaccio di cui cerco continuamente di liberarmi […] È semplicemente come se avessi un paraocchi e la mia visione fosse sempre più limitata. Cerco di continuo di strapparlo via e ridurlo in pezzi, ed è proprio allora che le cose si fanno pericolose, immagino» (p. 141).
Il 1983 è l’anno in cui esce Let’s Dance e ciò coincide con il successo internazionale nelle classifiche di vendita ma anche con il diffondersi tra i vecchi fan di una certa delusione per la strada intrapresa. È in tale contesto che si tiene “L’intervista su The Face” di David Thomas (1983) per “The Face” (UK) conclusasi con un’affermazione che, come afferma Sean Egan nell’introdurre il pezzo, sembra uscita più dalla bocca dei Clash che da quella di Bowie. Alla domanda di David Thomas circa quale consideri il crimine che più di ogni altro gli procuri indignazione, così risponde il musicista: «Vedere un uomo che umilia le sue capacità lavorando per qualcun altro, e doverlo accettare come un dato di fatto […] Sì, penso che sia davvero un crimine, un crimine continuo, che probabilmente causa più problemi sociali di qualsiasi altra cosa» (p. 170).
Dopo Let’s Dance (1983) è la volta di Tonight (1984) e dopo un periodo di silenzio con la stampa, che in molti imputano al timore di dover rendere conto della qualità delle ultime produzioni, Bowie si concede ad un giornalista notoriamente benevolo nei suoi confronti: “Sermone dal Savoy” di Charles Shaar Murray (1984) per “New Musical Express” (UK). Nel corso della conversazione Bowie si sofferma sul ruolo politico che possono rivestire gli artisti e sulle questioni sociali che attraversano il suo paese: «ha senso che le persone che svolgono le cosiddette professioni artistiche facciano incursioni in territori dove possono far valere le proprie competenze. Di contro, senza una profonda conoscenza dei problemi sociali dei nostri tempi è molto pericoloso fare incursioni in territori dove possiamo essere influenzati da forze esterne. È essenziale non farsi trascinare, e penso che per gli artisti che come me hanno una conoscenza solo superficiale del sistema politico e sociale sia un rischio schierarsi sotto qualsiasi bandiera politica» (p. 182).
Murray chiede anche a Bowie se si vede protagonista di qualche rivoluzione musicale ottenendo come risposta: «Nel rock penso sia molto difficile… Dopo aver espresso il tuo punto di vista iniziale, a meno che non se ne possa adottare più di uno, è difficile concepirne un altro che abbia la stessa potenza del primo. Per quanto mi riguarda, i primi anni settanta sono stati la mia occasione. Non credo che potrò impormi di nuovo come allora» (p. 188).
Dopo l’uscita di Never Let Me Down (1987) Bowie entra a far parte dei Tin Machine ed insieme al gruppo rilascia l’intervista “Boys Keep Swinging” di Adrian Deevoy (1989) per “Q” (UK). Nel corso del colloquio Bowie non manca di criticare le sue ultime produzioni da Let’s Dance a Tonight e Never Let Me Down ed ha modo di dichiarare la sua ammirazione per alcune band hardcore, trash metal e speed metal che ha avuto modo di ascoltare in America.
Durante il tour promozionale del secondo album dei Tim Machine, a Dublino viene rilasciata l’intervista mai pubblicata “Tin Machine II” di Robin Eggar (1991). Il tono della conversazione a cui partecipa la band è divertito.
L’uscita quasi in contemporanea dei dischi degli Suede e di Bowie è invece al centro di “Un giorno, figliolo, tutto questo potrebbe essere tuo…” di Steve Sutherland (1993) per “New Musical Express” (UK). Quella che doveva essere un’intervista al solo Bowie in uno studio di Camden, finisce per trasformarsi in un curioso scambio di impressioni tra Brett Anderson degli Suede e David Bowie sulla musica in senso stretto e sul mondo che gira attorno ad essa.
“Station to Station” di David Sinclair (1993) per “Rolling Stone” (USA) è invece una sorta di resoconto del “tour della memoria” che Bowie organizza a Londra alla ricerca dei suoi anni Settanta proprio in un periodo in cui quel decennio sembra essere tornato di moda. Si passa dalla visita al palazzo di Soho in cui si trovavano i Trident Studios ad un occhiata a quel che resta dei pub allora in auge nel South London, come il Thomas à Becket ove provavano Bowie ed i primi Spiders from Mars, poi è la volta di un salto nel cuore della città ad Heddon Street, dietro a Regent Street, ove è stata scattata la foto per la copertina di Ziggy Stardust, dunque un passaggio dal negozio in Charing Cross Road ove comprò il suo primo sassofono, poi la visita ai resti del Marquee Club ed all’Hammersmith Odeon (rinominato Hammersmith Apollo)… La conversazione si chiude su Mick Ronson, ormai malato terminale.
“Boys Keep Swinging” di Dominic Wells (1995) per “Time Out” (UK) è una doppia intervista che coinvolge, oltre a Bowie, anche Brian Eno e tocca soprattutto gli interessi artistici extra-musicali dei due. Anche in “Action painting” di Chris Roberts (1995) per “Ikon” (UK) la musica ha uno spazio per certi versi secondario; la conversazione tra Roberts e Bowie verte soprattutto sul postmodernismo, la recitazione e la letteratura.
In “Un geniale vecchiaccio” di Steven Wells (1995) per “New Musical Express” (UK) si salta repentinamente da un argomento ad un altro con una certa disinvoltura; si passa dalla fascinazione provata da Bowie per il misticismo nazista a metà anni Settanta, proprio quando l’estrema destra inglese sta facendo proseliti in Inghilterra, alla ricerca di spiritualità ed alla cupezza della gioventù americana… il tutto inframmezzato da qualche riferimento musicale in cui l’intervistatore ama insistere sui dischi di Bowie ritenuti peggiori.
«David Bowie è tra quei pochi che hanno direttamente influenzato il corso della musica popolare. Forse si può persino dire che Bowie è l’unico musicista che è riuscito a cambiare il volto del rock più di una volta nel corso della sua carriera» (p. 307). Da tali premesse prende il via l’intervista “Non è più A Lad Insane” di HP Newquist (1996) per “Guitar” (USA) che intende parlare soprattutto dei chitarristi con cui ha avuto a che fare Bowie: Mick Ronson, Robert Fripp, Reeves Gabrels, Adrian Belew, Carlos Alomar, Trent Reznor, Stevie Ray Vaughan…
Nel caso di “Fashion: turn to the left / Fashion: turn to the right” di David Bowie e Alexander McQueen (1996) per “Dazed & Confused” (UK), assistiamo ad una conversazione telefonica tra Bowie e lo stilista Alexander McQueen, British Designer of the Year del 1996. I due, un paio di anni prima, avevano concepito la redingote con la Union Jack indossata dal musicista anche per la foto della copertina di Earthling (1997) ed in questa chiacchierata discutono di moda evitando di prendersi troppo sul serio.
“Una stella ritorna sulla terra” di Mick Brown (1996) per “Telegraph Magazine” (UK) passa in rassegna i momenti salienti della carriera di Bowie fino alle soglie del suo cinquantesimo compleanno. In chiusura il pezzo iriporta un’affermazione di Brian Eno riferita esplicitamente all’amico: «Essere un camaleonte come lo era David è quantomeno poco convenzionale […] La cosa peggiore che possa capitare a una persona è non avere una chiara percezione di sé ed esserne terribilmente preoccupati. Ma io credo che sia arrivato alla conclusione che o si ha una percezione molto chiara di se stessi oppure non ci si preoccupa di non averla. Ora pensa solo: “Chi se ne importa!”» (p. 339).
“Changes Fifty Bowie” di David Cavanagh (1997) realizzata per “Q” (UK) è un’intervista raccolta in buona parte durante un tour americano. «All’inizio del 1996 Bowie è stato inserito da David Byrne nella Rock and Roll Hall of Fame di New York. Poi ha ricevuto il premio Outstanding Contribution to British Music al Brits di Londra. A novembre ha completato il suo ventunesimo album in studio, Earthling. Quest’anno David Bowie diventerà la prima rockstar quotata in borsa con titoli azionari a suo nome per un valore tra i trenta e i cinquanta milioni di sterline. Il giorno dopo il suo compleanno Bowie terrà un concerto di beneficenza al Madison Square Garden, dove la sua band di quattro elementi si arricchirà di ospiti speciali come Lou Reed, Foo Fighters, Sonic Youth e Robert Smith dei Cure. Nelle settimane che seguiranno a quell’evento Bowie vorrebbe dedicarsi alla lettura di un paio di sue biografie pubblicate di recente, Loving the Alien di Christopher Sandford e Living on the Brink di George Tremlett» (p. 341). Questo inizio di intervista sintetizza bene lo stato del successo di Bowie alla fine degli anni Novanta. Il pezzo di Cavanagh ha un po’ il tono di chi intende tracciare il bilancio della carriera di una popstar cinquantenne ancora ostinatamente sulla breccia.
Al bilancio della carriera sembra mirare, sin dal titolo, anche “Bowie. Una retrospettiva” di Linda Laban (1997) per “Mr. Showbiz” (USA). L’incipit dell’intervista conferma l’impressione: «David Jones nasce tra le macerie di una Gran Bretagna postbellica e cresce in una tetra periferia del sud di Londra. All’inizio degli anni settanta, David Bowie scuote la scena della musica hippie con una straordinaria visione apocalittica che, da allora, ha influenzato gruppi che vanno dai Cure ai Nine Inch Nails. Incapace di fermarsi un attimo, Bowie ha portato avanti un processo di reinvenzione artistica, se non addirittura personale, che può essere vista sia come una trasformazione calcolata che come un’ambiziosa ridefinizione della propria vita e della propria arte» (p. 354). Al di là della retrospettiva non mancano però alcune domande in cui l’intervistatore chiede a Bowie del suo rapporto con l’allora giovane mondo di internet.
Nel corso della promozione newyorchese di ‘hours….’ Bowie rilascia l’intervista “E ora dove avrò messo quei dischi?” di David Quantick (1999) per “Q” (UK) ed a proposito del nuovo album afferma: «ho cercato di catturare l’idea di canzone della mia generazione, perciò mi sono dovuto calare psicologicamente in una situazione di insoddisfazione nei confronti della vita, che nel mio caso non era reale. Dovevo crearmele le situazioni. Molto gira attorno a questo tizio che si innamora e si disinnamora ed è deluso e via dicendo. Non l’ho vissuto davvero, ma è stato un buon esercizio cercare di catturare ciò che vedevo, persino tra i miei amici, quel genere di vite vissute a metà, ed è proprio triste ma non ci si può fare niente, e loro si sentono incompleti, delusi e via dicendo» (p. 369).
“Bowie: l’uomo più elegante” di Dylan Jones (2000) per “GQ” (UK) è una conversazione con il musicista che nasce dal suo essere stato eletto “uomo più elegante dell’anno” dalla rivista. Degna di nota l’affermazione in chiusura di pezzo in cui Bowie dichiara: «Ho iniziato a introdurre le vecchie canzoni nei concerti attorno al ’97, quando ci esibivamo nel circuito dei festival estivi. In un contesto del genere c’è da presumere che non tutti siano venuti per te. Devi pensare: ‘Che cazzo, meglio che gli faccia ascoltare qualcosa che conoscono!’» (p. 382).
“Vale più di un mucchio di album di successo, questo. Grazie mille” di John Robinson (2000) per “New Musical Express” (UK) è un’intervista a Bowie fresco della coraggiosa, quanto (decisamente) opinabile, nomina da parte della rivista di “artista rock più influente di tutti i tempi”. Il tono proposto dall’intervistatore è dunque all’insegna della celebrazione e, per stemperare un po’ il clima, Sean Egan, introducendo il pezzo pubblicato da “New Musical Express”, afferma: «quest’intervista confermerà la principale obiezione dei detrattori di Bowie, ovvero che l’artista è spesso sembrato motivato non dall’amore verso il rock o il pop ma verso il proprio ego. O per dirlo con parole sue: ‘Ero sempre più interessato a cambiare ciò che io percepivo come musica pop…’» (p. 384).
All’insegna della ricostruzione della carriera è anche “Contatto” di Paul Du Noyer (2002) per “Mojo” (UK). Nonostante la recente uscita di Heathen (2002), l’intervistatore concede al nuovo album poco spazio preferendo passare in rassegna le tappe principali della carriera di Bowie dagli esordi sino alla “trilogia berlinese”. Così Bowie sintetizza la sua decisione di intraprendere, in giovane età, la strada musicale: «Amavo l’arte, il teatro e i tutti modi in cui ci si può esprimere con la cultura, e pensavo davvero che il rock fosse un ottimo modo per non dovervi rinunciare. Si possono infilare i mattoncini quadrati nei fori rotondi: incastrandoceli a forza finché non entrano. È un po’ quello che cerco di fare: un po’ di fantascienza di qui, un po’ di kabuki di qua, un filo di Espressionismo tedesco di là. È come se fossi circondato da amici […] Non sapevo scrivere una canzone, non ero particolarmente portato. Mi sono sforzato di essere un bravo cantautore, e sono diventato un bravo cantautore. Ma non avevo predisposizioni naturali. Ho lavorato tantissimo per diventare bravo. E l’unico modo che avevo per imparare era osservare gli altri» (pp. 396-397).
Nichilismo, esistenzialismo e fine del mondo sono al centro di “David Bowie: una vita sulla terra” di Ken Scrudato (2003) per “Soma” (USA). «Ma non ero andato lì per parlare delle sonorità della chitarra o di produttori e sprecare un’opportunità. Che siano le riviste musicali a occuparsi di certi argomenti […] Volevo sapere questo: David, in questo nuovo mondo postmoderno, così sconcertante e deludente, perché e come diavolo fai a farlo ancora?» (p. 407). Così inizia il pezzo di Scrudato per “Soma”, rivista che si autodefinisce “voce e visione influente di arti avanguardistiche, moda, cultura e design”. Questa è, in definitiva, la risposta di Bowie circa cosa diavolo lo spinge a continuare per la sua strada: «Non so quante altre cose ancora mi restano da fare, sai? Ma fare musica è senz’altro in cima alla lista. Mi diverte moltissimo; adoro scriverla, adoro crearla. E penso che ognuno di noi abbia una passione che lo assorbe, della quale possiamo nutrirci: una storia d’amore con la vita. Penso che sia una sensazione che sta diventando sempre più difficile da accendere, ma cos’altro potrei fare se non questo?» (p. 413).
Sulle note di The Loneliest Guy, una ballata al piano piena di tristezza e nostalgia, si apre l’intervista “Un giorno perfetto” di Mikel Jollett (2003) per “Filter” (USA) e le prime tre considerazioni che il giornalista annota sul taccuino sono: «Pensiero 1: Questa canzone la sentiremo spesso alla radio. Pensiero 2: La sua sarà una rentrée niente male. Pensiero 3: Amo il mio lavoro» (p. 416).
Quando la conversazione si sofferma su Andy Warhol, artista a cui spesso, forse troppo ed a sproposito, è stato associato Bowie, così liquida bruscamente la questione il musicista inglese: «Non l’ho mai conosciuto. Voglio dire, cosa c’era da conoscere? Andy era difficile da inquadrare. Ancora oggi mi chiedo se nella sua mente passasse qualcosa. A parte le cose superficiali che diceva. Non so se facesse dei pensieri profondi, davvero non lo so. O se invece era solo un’astuta checca che aveva centrato lo Zeitgeist, ma non con l’intelletto. Diceva solo cose come (imitando perfettamente la parlata effeminata e strascicata di Andy Warhol): ‘Wow, hai visto chi c’è lì?’. Non andava mai, dico mai, più a fondo di così. (Adottando nuovamente la parlata strascicata.) ‘Accidenti, ma ha un aspetto fantastico. Quanti anni avrà ora?’. Di certo Lou [Reed] conosceva Andy molto, molto meglio di me. E lui dice sempre che nella sua testa ne passavano di cose. Ma io non ho mai avuto questa impressione» (p. 418).
Nell’ultima intervista proposta da Sean Egan, “Te la ricordi la tua prima volta?” di Paul Du Noyer (2003) per “The Word” (UK), il giornalista «ci fa capire come il rapporto tra un fan e un artista possa cambiare quando il primo diventa un giornalista professionista che si ritrova spesso vicino il suo vecchio idolo» (p. 425). Così scrive Paul Du Noyer: «La mia fedeltà verso Bowie non è mai vacillata nel corso degli anni settanta. Se mi rifiutai di vedere il magnifico tour di Ziggy Stardust è perché, da adolescente snob quale ero, non sopportavo i nuovi fan, quelli che lo avevano appena scoperto. E benché amassi Aladdin Sane e Diamond Dogs non riuscivo a tollerare le zazzere cremisi, le calzamaglie e la generale sgradevolezza dello stile glam rock. Quando si trasformò nel soul boy di Young Americans iniziai finalmente a considerare il look di Bowie accettabile, e nel 1976 decisi di seguire il suo nuovo grande tour, quello in cui nelle vesti del Sottile Duca Bianco promuoveva Station to Station […] In seguito andai a vederlo tutte le volte che si esibì a Londra: prima accanto a Iggy Pop nel 1977, poi all’Earls Court e infine nel 1983, quando fece tappa in città con il Serious Moonlight Tour, quello che promuoveva l’album della svolta commerciale (Let’s Dance) […] Negli anni ottanta un David più solare si mise a passeggiare lungo i boulevard del pop. Ma io non vidi in ciò un miglioramento. Mentre gli eccessi fisici e i disordini mentali degli anni settanta furono almeno accompagnati da album meravigliosi (Ziggy Stardust, Low e così via), il decennio successivo lo vide andare avanti per forza d’inerzia e pubblicare dischi mediocri come Never Let Me Down. Ero in preda alla disillusione […] Oggi Bowie considera quello un periodo di crisi creativa» (p. 439).
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L’ultima intervista pubblicata dal volume si tiene nel novembre del 2003, successivamente escono The Next Day (2013) e l’antologia Nothing Has Changed (2014). L’ultimo album di David Bowie viene pubblicato l’8 gennaio 2016, un paio di giorni prima della morte, inevitabilmente accolto come una sorta di testamento recante come titolo una semplice blackstar.
Su Carmilla, il nostro Dziga Cacace, in un pezzo intitolato “David Bowie, ecco”, steso di getto a ridosso della scomparsa del musicista, nel gennaio del 2016, scrive «giusto due righe sulla parentesi musicale che tutti stanno dimenticando e che invece è paradigmatica di come Bowie sia stato un artista geniale, capace di reinventarsi ogni volta. Mi riferisco a quando ha deciso di far parte di una band, con identici diritti e doveri dei compagni di squadra: i Tin Machine, esperienza non solo sottovalutata ma anche apertamente osteggiata da tantissima critica dell’epoca e mai pienamente rivalutata dopo». A conferma di quanto scritto dal nostro, in diverse interviste tra quelle selezionate e pubblicate da Sean Egan, l’ostilità della critica musicale anglosassone nei confronti dell’esperienza di David Bowie con i Tin Machine è esplicita e ripetuta.