di Simone Scaffidi
G. Beltran, B. Segui, Storie del barrio, trad. D. Fiocco, Tunué, 2016, pp. 304, € 24,90
Casa. L’adolescenza dello sceneggiatore e disegnatore Gabi Beltran viene rievocata dal segno grafico di Bartolomé Segui. L’opera racconta le avventure di un gruppo di amici di un quartiere popolare della Palma di Maiorca degli anni ’80. Sia sceneggiatore che disegnatore sono nati e vissuti a Maiorca, ma Bartolomé Segui, come ha dichiarato alla sua prima presentazione italiana dell’opera (a Bologna al Bilbolbul 2016), da ragazzo non ha mai oltrepassato il muro invisibile che separava il quartiere cinese di Palma di Maiorca (il barrio) dal resto della città. Nonostante Segui non abbia vissuto le storie e i luoghi che descrive, la sua mano, grazie a un tratto definito e colori calmi, restituisce l’ordinarietà della vita nel barrio attraverso un’operazione interessante. Il disegno normalizza la violenza, l’abuso di droga, il furto, la prostituzione e in un certo senso rassicura il lettore. Segui ha trovato la maniera efficace di rappresentare lo sguardo interno, il punto di vista dei ragazzi del barrio. Il barrio è un quartiere difficile per chi sta fuori, per chi sta dentro il barrio è casa. Se si è nati lì è facile che si finisca male ma dopo, non durante, non in questa narrazione. Il futuro sarà inquieto ma ora non siamo vittime, ce la caviamo, e ce la caviamo bene, forse meglio di voi, non compatiteci, non potete, la piazza, le puttane, le droghe rassicurano noi e rassicurano anche te lettore. Il racconto prende forma grazie all’intreccio di due voci, con due differenti registri. Una è la voce fuoricampo e intimista di Gabi Beltran, una voce che si vorrebbe onniscente, che conosce le morti, che conosce il presente e che cerca di comprendere la violenza e i silenzi familiari, saggiarne il peso, scaricarne il dolore. Incontenibile, al punto da strabordare dalla gabbia e riversarsi sulla pagina bianca tra un capitolo e l’altro. L’altra invece è la voce disegnata del barrio, un vociare dinamico e vitale, che comprende anche la voce adolescente di Gabi Beltran. Quello che stupisce è l’equilibrio che i due autori riescono a trovare tra parola e disegno, a dispetto di un doppio-testo corposo, il volume si legge senza fatica.
N. Van Sciver, Saint Cole, trad. S. Sacchitella, Coconino Press, 2015, pp.120, € 16.00
Distruzione. Il tratto distorto e tremolante di Van Sciver è esattamente quello che serve per questa storia. Joe lavora in un ristorante, abusa di alcool e si lamenta per la vita d’inferno che fa. Due donne sono parte della sua vita, la compagna sedicenne che accudisce il figlio e la suocera rimasta a corto di soldi e trasferitasi in casa loro. Entrambe riconoscono il suo spaccarsi la schiena, uscire la mattina, tornare la sera, i suoi sacrifici. Ma per cosa sacrifica la sua vita Joe? Lui è il primo a non saperlo. E allora prima di tornare a casa Joe affoga una vita di straordinari e sfruttamento al bar del ristorante in cui lavora, cercando nell’alcool risposte che non arrivano, aspettando invano una promozione. Van Sciver racconta la subalternità, la disintegrazione nel fisico e nello spirito di un giovane lavoratore precario, l’annullamento di ogni speranza di salvezza. I ruoli di genere sono ben definiti, forse fin troppo. Ma lo stereotipo è stereotipo perché si afferma, perché è reale, e in questa storia manca lo spazio e il tempo per combattere il patriarcato. Il maschilismo è vita. È dato culturale non giustificabile, ma vivo. Lei sta a casa, è responsabile, bada al figlioletto. Lui lavora, beve, si lamenta, molesta una collega. Eppure Van Sciver trova il modo di far esplodere la norma servendosi di un personaggio, questo sì, che evade con violenza lo stereotipo a lei attribuito. La suocera di Joe disintegra infatti l’ordinario, fugge il ruolo di madre e di nonna. Non è un caso se sarà proprio lei a scrivere il finale trasgressivo e provocatorio di questa storia.