di Mauro Baldrati
Blue and Lonesome, il nuovo disco dei Rolling Stones – che sono tornati a incidere dopo un decennio, durante il quale si sono esibiti perlopiù in faraonici concerti – è uno straordinario, impudico ritorno al blues classico. E’ stato inciso in studio in modalità live, ovvero tutto il gruppo in azione, senza sovraincisioni né interventi digitali, in tre giorni. Tutto, insomma, è stato come ai vecchi tempi, una sorta di ritorno alle origini. Il risultato è un blues energico, generoso, con tutti i crismi: l’armonica, il piano, la chitarra (con l’intervento in due pezzi di uno dei grandi chitarristi del white blues, Eric Clapton) e il canto negro di Mick Jagger. L’ascoltatore bluesman si esalta, anche lui torna alle origini. Nessuno potrebbe ipotizzare che i musicisti, che imprimono una tale energia nei pezzi, siano dei settantenni. D’altra parte i padri del blues ancora in piena attività non erano settantenni e anche ottantenni? Il blues non ha età.
I nostri quattro musicisti conoscono a fondo lo stile e l’ispirazione del blues. E’ stata la musica dei loro inizi: frequentavano i club dove si esibivano i bluesman provenienti dall’America, ascoltavano Buddy Holly ma anche, e soprattutto, Charlie Parker; imitavano i maestri, si entusiasmavano con lo skiffle, un genere molto di moda negli anni Cinquanta, un jazz contaminato di blues, finché fondarono, nel 1962, il gruppo Rollin’Stones (ispirato al pezzo omonimo di Muddy Waters), che esordì il 12 luglio al Marque di Londra in sostituzione di Alexis Corner. In seguito hanno eseguito numerose cover di blues classico, hanno suonato in jam session coi maggiori maestri, e hanno avuto nel gruppo uno dei più raffinati chitarristi del british, Mick Taylor, che sostituì Brian Jones.
Insomma, il blues è stata la genesi, l’energia originaria. Il disco è composto da 12 cover del Chicago blues classico, tra gli altri Howlin’ Wolf, Memphis Slim, Willie Dixon, Jimmy Reed, Little Walter. Su tutto campeggia, come una forza che tutto unisce, che tutto potenzia, il canto estroso e “sporco” di Mick Jagger, che come cantante ha sempre avuto pochissimi competitor nell’ambiente rocking, ma soprattutto ha dimostrato di essere un bluesman purissimo.
Questo disco è anche un perfetto esempio di come il tempo, passando, consumando il destino di ogni uomo e di ogni donna, possa trovare un suo riscatto nell’evoluzione dei segnali dell’arte, che solo dopo un lungo percorso accettano di rivelarsi. Dopo cinquant’anni di successi e di crisi, di ritmo ultraveloce, di svolte e anche di silenzi, si arriva al punto della fatidica svolta. Da più parti è stato detto che un artista dopo i 65 anni vede inesorabilmente il proprio potenziale creativo spegnersi. Ma non significa morire. Semplicemente l’energia primigenia si indebolisce, anche perché quasi sempre tutto ciò che si era in grado di dire è stato detto. A quel punto ci sono varie possibilità: ritirarsi a vita privata, spesso con più di un rimpianto; continuare usando il mestiere, illudendosi di essere ancora innovativi e sgargianti (talvolta col sostegno di un pubblico dopato da un marketing ossessivo), oppure brancolare alla ricerca di spunti confessionali che risultano abbastanza patetici. Due esempi sono il nostro Vasco Rossi, che dopo una vita passata all’insegna di “figa, pilla, coca e rock’n roll” si ingobbisce nello stucchevole Un mondo migliore, e Bob Dylan, che impigliato senza scampo nella ragnatela di un trasformismo ormai fine a se stesso, incide un disco dedicato al melodico mafioso Frank Sinatra.
I Rolling Stones non fanno nulla di tutto questo. Dopo una vita di musica, di viaggi artistici e di scoperte hanno usato tutta la loro esperienza per tornare all’inizio della storia. Perché questo, forse, è proprio il senso dell’arte, il suo fine non dichiarato. Tutta la formazione, la ricerca, ma anche i pericoli, i successi e i fallimenti, mirano al più importante dei segni dell’arte: ritrovare ciò che si è.