federici-calibano-strega[Pubblichiamo la Prefazione al libro di Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2015, pp. 343, € 30,00. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.

Passando in rassegna le vicende delle lotte contadine e delle eresie medievali, la stagione della caccia alle streghe in Europa e nel Nuovo Mondo tra Cinque e Seicento, Silvia Federici offre, da un punto di vista femminista, un’analisi dell’avvento del capitalismo dando risalto ad eventi e soggetti sociali assenti nella visione marxista della “transizione”. Tale saggio, oltre che fornire un’importante ricostruzione storica, offre un contributo fondamentale alla lettura degli attuali processi della globalizzazione.

Silvia Federici è attivista femminista, scrittrice e docente universitaria tra le protagoniste, negli anni Settanta del secolo scorso, del movimento internazionale per il Salario al Lavoro Domestico. Negli anni Novanta, dopo un periodo di insegnamento e di ricerca in Nigeria, Federici ha partecipato ai movimenti no global e contro la pena di morte negli Stati Uniti, dal 1987 al 2005 ha insegnato politica internazionale, women’s studies e filosofia politica alla Hofstra University di Hempstead (New York). Autrice di numerosi saggi di filosofia e di teoria femminista, recentemente Federici si è impegnata contro i processi di globalizzazione capitalista tenendo conferenze in ogni parte del mondo.

In coda alla Prefazione sono disponibili i link ai video di due interessanti interviste a Silvia Federici: la prima è stata realizzata dal Laboratorio Sguardi sui Generis in occasione della sua presenza in Val di Susa, la seconda (in lingua inglese) è stata effettuata da Gender Links all’uscita del saggio S.   Federici, Revolution at Point Zero, Housework, Reproduction and Feminist Struggle (2012), uscito successivamente in lingua italiana S. Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Ombre Corte, Verona, 2014, pp. 159, € 15,00 –  ght]


Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria

di Silvia Federici

Calibano e la Strega presenta i temi principali di un progetto di ricerca sulle donne nella “transizione” dal feudalesimo al capitalismo che ho iniziato a metà degli anni ’70, in collaborazione con la femminista italiana Leopoldina Fortunati. I primi risultati sono apparsi in un libro che abbiamo pubblicato qui in Italia nel 1984: Il Grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale.

Il mio interesse per la ricerca era motivato all’inizio dai dibattiti all’interno del movimento femminista negli Stati Uniti, vertenti sulle origini delle particolari forme di oppressione di cui le donne sono state storicamente l’oggetto e sulle strategie politiche che il movimento avrebbe dovuto adottare per la nostra liberazione. Le principali posizioni teoriche e politiche con cui ci dovevamo confrontare a questo proposito erano quelle avanzate dalle due aree più importanti del movimento delle donne: le femministe radicali e le femministe socialiste. Tuttavia, dal mio punto di vista, entrambe non fornivano una spiegazione soddisfacente sulle origini dello sfruttamento sociale ed economico delle donne. Non condividevo la tendenza delle femministe radicali a far risalire la discriminazione sessuale e il potere patriarcale a strutture culturali transtoriche che si presumevano indipendenti dai rapporti di produzione e di classe. Per contro, le femministe socialiste riconoscevano che non si può scindere la storia delle donne dalla storia dei vari sistemi di sfruttamento e nelle loro teorie analizzavano la discriminazione sessuale a partire dal lavoro che le donne svolgono nella società capitalistica. Ma il limite della loro posizione era di non riconoscere la sfera della riproduzione come fonte di sfruttamento e creazione di plusvalore e quindi di attribuire l’origine della differenza di potere tra donne e uomini all’esclusione delle donne dallo sviluppo capitalistico – un assunto che ancora una volta ci obbligava a ricorrere a schemi culturali per dar conto della sopravvivenza del sessismo nell’universo delle relazioni capitalistiche.

È in questo contesto che ha preso forma l’idea di tracciare la storia delle donne nella transizione dal feudalesimo al capitalismo. La tesi che ha ispirato questa ricerca era stata articolata da Mariarosa Dalla Costa e da Selma James, oltre che da altre attiviste del movimento per il salario al lavoro domestico, in una serie di documenti che negli anni ’70 apparivano molto controversi, ma che col tempo hanno riformulato il discorso su donne, riproduzione e capitalismo. Fra questi, i più influenti furono Potere femminile e sovversione sociale (1972) di Mariarosa Dalla Costa e Sex, Race and Class (1975) di Selma James.

Contro l’ortodossia marxista che spiegava l’“oppressione” delle donne e la loro subordinazione agli uomini come un residuo dei rapporti feudali, Dalla Costa e James affermavano che lo sfruttamento del lavoro femminile ha giocato un ruolo centrale nel processo di accumulazione capitalistica, in quanto le donne sono state le produttrici del bene più essenziale per il capitalismo: la forza-lavoro. Dalla Costa sosteneva che il lavoro domestico non retribuito svolto dalle donne è stato la colonna portante su cui si è costruita la “servitù del salario” nonché il segreto della sua produttività (Dalla Costa 1972, p. 31). La differenza di potere tra donne e uomini nella società non poteva quindi essere attribuita né all’irrilevanza del lavoro domestico per l’accumulazione capitalistica – irrilevanza contraddetta dalle strette regole a cui la vita delle donne è stata soggetta – né alla sopravvivenza di atavici schemi culturali. Doveva invece essere letta come l’effetto di un sistema sociale di produzione che non riconosce la produzione e la riproduzione del lavoratore come un’attività socio-economica e perciò come fonte di accumulazione capitalistica, ma al contrario la mistifica come risorsa naturale o servizio personale, approfittando nel contempo della mancanza di retribuzione per il lavoro svolto. Facendo derivare lo sfruttamento delle donne nella società capitalistica dalla divisione sessuale del lavoro e dal lavoro domestico non retribuito, Dalla Costa e James hanno dimostrato che è possibile superare la dicotomia tra classe e patriarcato e hanno dato a quest’ultimo un significato storico specifico, aprendo così la strada a una reinterpretazione della storia del capitalismo e della lotta di classe da un punto di vista femminista. È in questa prospettiva che, alla metà degli anni ’70, con Leopoldina Fortunati ho iniziato a studiare quella che solo eufemisticamente possiamo definire la “transizione al capitalismo”, cominciando a ricostruire una storia che non ci era stata insegnata a scuola, ma che si è dimostrata decisiva per la nostra formazione teorica e politica. È una storia che non solo ci ha permesso una comprensione teorica della genesi del lavoro domestico nelle sue principali componenti strutturali – la separazione della produzione dalla riproduzione, l’uso specifico che il capitalismo ha fatto del salario per comandare il lavoro dei non salariati e la svalutazione della posizione sociale delle donne con l’avvento del capitalismo – ma che ci ha anche fornito la genealogia dei moderni concetti di femminilità e mascolinità, permettendoci così di invalidare l’assunto postmoderno di una predisposizione quasi ontologica da parte della “cultura occidentale” a imbrigliare il genere in schemi binari. Abbiamo infatti scoperto che le gerarchie sessuali sono sempre al servizio di un progetto di dominio che si autosostiene solo dividendo, su basi continuamente rinnovate, coloro che intende dominare.

Il libro che è nato da questa prima ricerca, Il Grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale (1984), si proponeva di ripensare l’analisi dell’accumulazione originaria di Marx da un punto di vista femminista. Ma nel corso di questo lavoro le categorie marxiane si sono rivelate inadeguate. Anzitutto, si è visto che l’identificazione da parte di Marx del capitalismo con l’avvento del lavoro salariato e del lavoratore “libero” contribuisce a nascondere e a naturalizzare la sfera della riproduzione. Il Grande Calibano criticava anche la teoria del corpo di Michel Foucault. Abbiamo infatti rilevato che l’analisi di Foucault delle tecniche del potere e delle discipline a cui il corpo è stato assoggettato ignora il processo di riproduzione, riduce le storie delle donne e degli uomini a un tutto indifferenziato e si disinteressa a tal punto della “disciplina” imposta alle donne da non menzionare uno degli attacchi più orrendi al corpo perpetrato in era moderna: la caccia alle streghe. La tesi principale sostenuta dal Grande Calibano era che, per comprendere la storia delle donne nella transizione dal feudalesimo al capitalismo, si devono analizzare i cambiamenti che il capitalismo ha introdotto nel processo della riproduzione sociale, soprattutto nella riproduzione della forza-lavoro. Il libro prendeva quindi in esame la riorganizzazione del lavoro domestico, della famiglia, della cura dei bambini, della sessualità e dei rapporti tra uomo-donna e tra produzione e riproduzione nel XVI e nel XVII secolo in Europa. La stessa analisi è riproposta nel Calibano e la strega, ma lo scopo di questo volume è diverso da quello del Grande Calibano in quanto risponde a un diverso contesto sociale e alla crescita della nostra conoscenza della storia delle donne.

Poco dopo la pubblicazione del Grande Calibano, ho lasciato temporaneamente gli Stati Uniti per insegnare all’Università di Port Harcourt in Nigeria dove, a periodi alterni, ho lavorato per quasi tre anni. Prima di partire ho sepolto i miei libri in cantina, pensando che per un po’ di tempo non mi sarebbero serviti. Ma le circostanze del mio soggiorno in Nigeria non mi hanno consentito di dimenticare questo studio. Gli anni tra il 1984 e il 1986 sono stati decisivi per la Nigeria, come per la maggior parte dei paesi africani. Erano gli anni in cui, in risposta alla crisi del debito, il governo nigeriano avviava con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale accordi che risultarono nell’adozione del programma di aggiustamento strutturale, la ricetta universale imposta dalla Banca Mondiale, nel nome della ripresa economica, ai governanti di gran parte del pianeta.

Lo scopo dichiarato di questo programma era di rendere la Nigeria competitiva sul mercato internazionale. Ma si è reso subito evidente che questo programma era lo strumento di una nuova fase di accumulazione originaria e di una razionalizzazione della riproduzione volta a distruggere le ultime vestigia di proprietà e rapporti comunitari, e imporre forme più intense di sfruttamento del lavoro. Ho visto quindi dispiegarsi sotto i miei occhi processi molto simili a quelli che avevo analizzato durante la stesura del Grande Calibano, fra cui un attacco sistematico alle terre comuni e un decisivo intervento dello stato, definito “guerra all’indisciplina”, teso a ridurre le aspettative di una popolazione considerata troppo pretenziosa in prospettiva di un suo inserimento nell’economia globale. Insieme a queste misure, ho assistito all’evolversi di una campagna misogina, che denunciava la vanità e le eccessive pretese delle donne, e allo sviluppo di un acceso dibattito, simile per molti versi alla querelle des femmes del XVII secolo, che investiva ogni aspetto della riproduzione della forza-lavoro: la famiglia (poligama vs. monogama, estesa vs. nucleare), l’educazione dei bambini, il lavoro delle donne, l’identità maschile e femminile e i rapporti tra uomini e donne.

In questo contesto il mio lavoro sulla transizione ha assunto un nuovo significato. In Nigeria ho compreso che la resistenza all’aggiustamento strutturale fa parte di una lunga lotta contro la privatizzazione della terra e contro le “recinzioni”, non solo delle terre comuni ma anche dei rapporti sociali, che risale alle origini del capitalismo. Ho anche capito che la vittoria che la disciplina del lavoro capitalistica ha ottenuto sulle popolazioni del pianeta è molto limitata e che molti ancora vedono la propria vita in modi radicalmente antagonisti ai canoni richiesti dalla produzione industriale. Per gli imprenditori, le multinazionali e gli investitori stranieri è proprio questo il problema di paesi come la Nigeria. Ma per me è stata una grande fonte di coraggio rendermi conto che nel mondo formidabili forze sociali si oppongono all’imposizione di un modo di vivere concepito solo in termini capitalistici. Devo questa nuova consapevolezza anche all’incontro con Donne in Nigeria (WIN), la prima organizzazione femminista del paese, che mi ha aiutata a comprendere le lotte che le donne nigeriane stanno sostenendo per difendere le proprie risorse e per rifiutare il nuovo modello di patriarcato, promosso dalla Banca Mondiale, che si vuole loro imporre.

Ben presto il programma di austerità adottato dal governo ha raggiunto anche il mondo accademico e, non essendo più in grado di mantenermi, nell’autunno del 1986 ho lasciato la Nigeria, se non con l’anima con il corpo. Ma non ho dimenticato l’attacco mosso contro il popolo nigeriano e, dopo il mio rientro, il desiderio di tornare a studiare la “transizione al capitalismo” non mi ha più abbandonata. Avevo letto gli eventi in Nigeria con le lenti dell’Europa del XVI secolo. Tornata negli Stati Uniti, è stato il proletariato nigeriano che mi ha riportato alle lotte per le terre comuni e contro il disciplinamento delle donne, dentro e fuori l’Europa. Dopo il mio ritorno ho iniziato anche a insegnare in un programma interdisciplinare per studenti universitari, dove ho dovuto affrontare un tipo diverso di enclosure: quella del sapere, la crescente perdita cioè, da parte delle nuove generazioni, del senso storico del nostro passato collettivo. Ecco perché nel Calibano e la strega ho ricostruito le lotte antifeudali del Medioevo e le lotte con cui il proletariato europeo ha resistito all’avvento del capitalismo. Il mio scopo non è stato solo quello di fornire ai non specialisti la documentazione su cui si basa la mia analisi; ho voluto anche far rivivere fra le giovani generazioni il ricordo di una lunga storia di resistenza che oggi corre il rischio di essere cancellata. Preservare la memoria storica è cruciale se dobbiamo trovare un’alternativa al capitalismo, perché ciò sarà possibile solo se saremo capaci di ascoltare le voci di coloro che hanno percorso lo stesso cammino.


Interviste a Silvia Federici

Il Laboratorio Sguardi sui Generis intervista Silvia Federici, in occasione della sua presenza in Val di Susa. L’intervista è in cinque parti visionabili su YouTube. Prima parte: autodeterminazione dei corpi, delle sessualità e delle scelte riproduttive. Seconda parte: i movimenti, i momenti di socialità e di riproduzione dei movimenti stessi. Terza parte: donne e movimenti. Quarta parte: Politica del Debito. Quinta parte: Femminicidio.

Gender Links recently interviewed Silvia Federici after the launch of her book, Revolution at Point Zero, Housework, Reproduction and Feminist Struggle (2012), inspired by Federici’s organisational work in the Wages for Housework movement. In this interview she provides insight into book and shares her views on women’s on going struggle as well as gender-based violence. In this extended version of the interview she also discusses the importance of the commons, social reproduction, the need for more co-operative forms of organisation, valorising domestic work and how inequality and injustice is fueled by neo-liberal capitalism.

 

 

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