di Franco Pezzini
[Qui la prima parte]
Giocando col respiro
Passano altri mesi, ed ecco il 10 novembre, sempre sul ‘Saturday Courier’ di Philadelphia, appare un nuovo racconto di Poe (e ancora una volta ci manca il manoscritto). Il titolo è “A Decided Loss”, ma più tardi (‘Southern Literary Messenger’, settembre 1835) in forma profondamente riveduta e arricchita verrà reintitolato “Loss of Breath” (“Perdita di fiato”).
Il racconto, uno dei più divertenti e folli della produzione poesca – anche se non manca chi storce il naso – inizia con la considerazione che, come nei grandi assedi rammentati dagli annali della storia, anche a fronte delle fortune più avverse la filosofia finisce sempre col trionfare. Così almeno a partire dalla versione del ’35, che sposta all’inizio un capoverso inizialmente collocato verso il fondo del racconto.
La vicenda vera e propria parte col narratore che già la mattina dopo il matrimonio sta riversando sulla moglie una pirotecnia d’insulti: e, presala per il collo, sta per farle esplodere nell’orecchio l’epiteto definitivo e annichilente quando all’improvviso, con “estremo orrore e stupefazione – spiega – mi accorsi che avevo perduto il fiato”. Non nel senso delle metafore spesso usate, ma proprio in quello letterale (e grottesco) di una totale mancanza di respiro – qualcosa che lo lascia basito e disperato.
Ma anche nei “più ingovernabili momenti” il Nostro sa conservare “un certo senso delle convenienze”: e tanto più considerando che non conosce ancora l’entità del problema, decide di tenerlo nascosto alla moglie. Dunque, con un voltafaccia improvviso muta l’aggressività scatenata
in una espressione di graziosa e civettuola benignità, diedi alla mia signora una carezza su di una guancia, un bacio sull’altra, e senza pronunziare una sola sillaba, (o Furie! non lo potevo) la lasciai stupefatta per la mia bizzarria mentre piroettavo fuori dalla stanza in un pas de zéphir. [La prima versione riportava “lasciandola tanto innamorata della mia riserva di buon umore (o blasfemia!) quanto in ammirazione della mia squisita capacità di scherzare e del raffinato talento teatrale” – ma la trasformazione del testo sottolinea il carattere surreale del comportamento.]
Consideratemi, dunque, nascosto bene al sicuro nel mio salotto personale, spaventoso esempio delle cattive conseguenze dell’irascibilità; vivo, nelle condizioni di un morto: morto, con tutte le inclinazioni di un vivo; una anomalia sulla faccia della terra, perfettamente calmo, e tuttavia senza fiato.
Frasi dove, al di là della comicità di quell’improvviso mutar espressione e piroettare fuori, iniziamo a cogliere alcuni aspetti interessanti.
Anzitutto, pur rifuggendo da una lettura moraleggiante – di cui anzi si fa beffa – Poe prosegue qui il catalogo dei vizi avviato nel Metzengerstein, ora a proposito delle “cattive conseguenze dell’irascibilità”: protagonista è in sostanza un iracondo.
Ma c’è un secondo aspetto di rilievo, laddove associa la mancanza di fiato alla situazione di “vivo, nelle condizioni di un morto: morto, con tutte le inclinazioni di un vivo; una anomalia sulla faccia della terra”. La mancanza di fiato, in sostanza di respiro/pneuma/spiritus è infatti tipicamente connessa alla tanto diffusa consunzione, cioè alle patologie polmonari tanto diffuse attorno a Edgar, e che in prosieguo apriranno le porte alle sue vampire, vive/morte o piuttosto morte/vive. In questo caso il tema è giocato in chiave comica-surreale, ma assumerà col tempo registri sempre più neri.
Constatato che il fiato se n’è completamente andato, il Nostro si rende conto di poter comunicare in tono gutturale tramite “una certa azione spastica dei muscoli della gola”: ma ciò non gli evita considerazioni penose. Depresso medita dunque il suicidio, “ma è un tratto ben singolare della perversità dell’umana natura il respingere ciò che è pronto e a portata di mano per ciò che è remoto ed equivoco” e dunque si ritrae da quella prospettiva – mentre cane e gatto lo sfottono dando prova dei propri polmoni. La prima versione inseriva però un passo interessante: prima di accennare al pensiero del suicidio, il protagonista riportava di aver sentito parlare di Peter Schlemil (più precisamente Schlemihl, il personaggio del romanzo Peter Schlemihls wundersame Geschichte di Adelbert von Chamisso, 1814, che per la ricchezza vende al demonio la propria ombra – cioè un elemento evanescente come il fiato – anche se poi rifiuterà di cedergli l’anima), ma che non credeva “in him”, cioè nella storia di costui. Ammetteva anzi di aver sentito parlare di “patti col diavolo [compacts with the devil]”, e che avrebbe volentieri accettato la sua assistenza ma non sapeva “in quale modo procedere, avendo studiato molto poco di diavolerie [diablerie]”. Insomma, di nuovo il diavolo: lo stesso sconfitto a carte dal duca de l’Omelette, e lo stesso ricordato da nomi di divinità pagane come Belial, Baal-Perith (il demone Berith), Baal-Peor (Belfagor) o Baal-Zebub menzionate da Simeone sul torrione di Gerusalemme. Questo passo tanto intrigante scompare nella versione modificata del ’35, ma – come vedremo – ne rimane come un’ombra.
Comunque il Nostro, udita la moglie scendere le scale, torna al teatro del disastro, si chiude nella stanza e prende a cercare affannosamente un po’ ovunque il suo fiato – hai visto mai che abbia “una forma vaporosa, o magari anche concreta”. Citando poi il romanzo Mandeville di William Godwin, 1817 – cioè del padre di Mary Shelley, al tempo ancora vivo (morirà nel ’36) – nell’assunto che “le cose invisibili sono la sola realtà”, che trova calzante alla propria situazione, invita il lettore a non ricorrere abusivamente all’etichetta di assurdo.
In realtà la ricerca tra angoli bui e cassetti offre come frutti “una dentiera, due paia di fianchi posticci, un occhio, e [attenzione] un certo numero di biglietti galanti del Signor Fiatassai [“Mr. Windenough”] a mia moglie”. Dove la stessa propensione – confermata dai biglietti – della signora Senzafiato (“Mrs. Lackobreath”) verso quel tipo magro e alto non stupisce il Nostro, basso e corpulento com’è (la versione originaria parlava semplicemente di biglietti galanti “di un vicino”, capiremo poi perché). Un supplemento d’indagine, che gli fa accidentalmente infrangere una bottiglia d’Olio degli Arcangeli di Grandjean (“che mi prendo la libertà di raccomandarvi pel suo gradevole profumo”) non sortisce alcun effetto.
Decide dunque che deve andarsene: in una terra straniera troverà un modo di nascondere la propria vergognosa calamità, tale da attirargli “la meritatissima indignazione dei virtuosi e dei felici”. E meditando come non farsi scoprire nel frattempo dalla moglie, usa proficuamente il tempo mandando a memoria l’intero testo della tragedia Metamora, the last of the Wompanoags di John Augustus Stone, 1829, sul personaggio del capo nativo americano King Philip di Pokanoket (il testo purtroppo non è sopravvissuto). Scopo prefissato, usare le battute del protagonista – tutte, rigorosamente, in gutturale profondo – esercitandosi per qualche tempo presso una palude, e dando a credere alla moglie “di esser improvvisamente colpito da una passione per la scena”. Si noti che la versione originale citava anche un secondo titolo, Miantinimoh, or the Wept of Wish-ton-Wish, un’opera teatrale di Edward Eddy, 1830, sul personaggio del capo sempre indigeno dei Narragansett: dove l’enfasi su questi testi sembra di particolare interesse considerando il clima di quell’anno e la Guerra di Falco Nero appena chiusa (mentre nel ’35 i due titoli saranno evocati solo vagamente con puntini di sospensione). Se il registro narrativo è qui pirotecnicamente gigione, torna in tal modo anche in termini espliciti e paradossali il richiamo alle scene, quella sorta di costante teatrale nell’opera di Poe che la percorre quasi sottotesto: qualcosa qui declinato nell’attenzione ironica agli ultimi cartelloni, dove le play sulle popolazioni indigene spopolavano (nell’Ottocento americano gli Indian drama saranno oltre settantacinque, con trame spesso simili).
E il successo fu veramente miracoloso; ad ogni domanda o insinuazione mi trovai libero di rispondere, nei miei toni di voce più chiocci e sepolcrali, con qualche passaggio della tragedia, ogni parte della quale, come presto osservai con grandissimo piacere, si poteva applicare con uguale opportunità a qualsiasi argomento. Non bisogna supporre, tuttavia, che nel declamare io omettessi di guardar losco, di scoprire i denti, di scuotere i ginocchi, di strascicare i piedi, o alcuna di quelle altre ineffabili grazie che sono ai nostri tempi considerate a ragione le caratteristiche di un buon attore popolare. Non v’è dubbio che si parlò di confinarmi in una camicia di forza […]
ma così – notiamo la situazione paradossale – nessuno arriva a sospettare la fatale perdita di fiato. E alla fine, sistemate le proprie faccende, con la scusa di un affare importante nella città di X (trasparentemente Philadelphia – nella versione originale si parlava invece dell’Europa) il Nostro parte in diligenza.
La carrozza è affollatissima, e il narratore schiacciato tra tizi enormi: uno dei quali – quello davanti – gli si addormenta addosso, russando come un mantice e incurante delle esclamazioni gutturali del poveretto, cui solo la completa mancanza di fiato rende impossibile di esserne privato. Viaggiano di notte, e arrivando al mattino ai sobborghi di X, il gigante si risveglia ringraziando: ma vedendo che il Nostro resta immobile – “tutte le mie membra erano slogate e il mio capo torto da un lato” – sveglia gli altri passeggeri e manifesta “recisamente la sua opinione che un cadavere era stato imposto alla loro compagnia durante la notte al posto di un viaggiatore vivo e responsabile”, poi gli assesta a conferma una botta nell’occhio destro. Gli altri prendono allora a tirargli le orecchie, e quando un giovane medico constata con uno specchietto la mancanza di fiato, tutti sdegnati all’idea di essersi visti imporre la compagnia di un morto, passando davanti alla taverna – appropriatamente – del “Corvo” [“Crow” – nella prima versione “Three Crows”] lo buttano fuori dalla vettura. Senz’altri accidenti, registra il Nostro con aplomb, che la rottura delle braccia sotto una ruota, e la frattura (“in una maniera interessante insieme e straordinaria”) della calotta cranica per il lancio dalla diligenza di uno dei suoi bauli. Il contenuto del quale compensa l’ospitalissimo oste del disturbo di smerciarlo come cadavere per dissezioni a un chirurgo di conoscenza: e questi, tagliategli subito le orecchie, nota “certi segni di animazione”.
A quel punto, rimossi comunque al poveretto un bel po’ di visceri con apposito buco nello stomaco – hai visto mai che sia vivo sul serio – il chirurgo si consulta col farmacista locale. Questi
[…] era d’opinione che io fossi realmente morto. Opinione che io mi sforzai di confutare, tirando calci e sussultando a tutta possa e dandomi ai più furiosi contorcimenti poiché le operazioni del chirurgo mi avevano, in una certa misura, restituito nel possesso delle mie facoltà. Ma tutto, comunque, fu attribuito all’effetto di una nuova batteria galvanica con la quale l’apoticario, che è realmente un uomo molto informato, eseguì parecchi curiosi esperimenti, ai quali, per la parte personale che assumevo nella loro riuscita, non seppi trattenermi dal prendere un profondo interesse.
Consideriamo che il galvanismo all’epoca non è più di moda, e in compenso nel ’31 – cioè l’anno prima della pubblicazione di questo racconto, ma il medesimo della sua scrittura – la figlia del summenzionato William Godwin ha pubblicato l’edizione definitiva del Frankenstein: Poe sta giocando coi topoi di un certo immaginario. Ma insieme pensa probabilmente alla scena del Candide di Voltaire (1759), dove il precettore Pangloss, impiccato senza successo (come più avanti succederà al Nostro), si riprende sul tavolo di un chirurgo che sta per sezionarlo.
Certo, il protagonista è talmente inibito nei poteri vocali da non riuscire neppure ad aprire la bocca, “e tanto meno […] a replicare a certe ingegnose ma fantastiche teorie che, in tutt’altre circostanze, la mia minuta conoscenza della patologia ippocratica mi avrebbe permesso di confutare prontamente”. Poe è un genio nella costruzione di questi sussiegosi, imperturbabili e burattineschi personaggi che affrontano in modo comicamente paradossale le più varie disavventure.
I due uomini di scienza non si mettono d’accordo, rinviando a un ulteriore esame il corpo trascinato dunque in soffitta, munito di opportune braghe e mutande, impacchettato (le mani, le mascelle) e chiuso dentro col catenaccio. Dove sembra almeno suggestivo ricordare il rapporto tra questa soffitta dove il Nostro – presunto corpo da esperimenti un po’ troppo vivo – viene lasciato “al silenzio e alla meditazione” e la soffitta di Victor Frankenstein dove la Creatura torna alla vita. Nella versione originale (dove questa scena veniva, come vedremo, collocata diversamente) erano invece direttamente i proprietari della locanda a piazzarlo nella soffitta così impacchettato in attesa del funerale.
Il Nostro si rende conto che potrebbe parlare, ovviamente in gutturale, ma la bocca è bloccata dal fazzoletto, e il nodo alle mano impedisce di liberarla: per cui inizia compostamente, come al solito prima del sonno, a dedicarsi a riflessioni devote (la caricatura è spudorata, considerato cosa sappiamo del personaggio), e in quel mentre due gatti penetrati da un buco nel muro gli volano in faccia prendendo a contendersi il suo naso. L’evento però si rivela provvidenziale: dolore e indignazione spingono il Nostro a strappare i legami, e con un’occhiata di sprezzo ai belligeranti si getta con destrezza dalla finestra.
Non può immaginare che in quel momento passi lì sotto il carretto con cui viene condotto alla forca W., rapinatore di diligenze e di aspetto a lui tanto simile (il modello è tale George Wilson, che però eviterà la forca su cui finisce a Philadelphia il suo complice James Porter, 1830): non ha manette a causa della salute rovinata, ed è abbigliato similmente a lui, in più il conducente del carretto dorme e le due guardie sono ubriache. Al cader dentro del Nostro, l’astuto W. coglie al volo l’occasione, balza fuori dal carretto e fugge: per cui le due guardie ridestate fanno confusione sull’identità del condannato e – bevuto ancora un sorso – stendono col calcio dei moschetti il poveretto. Che “con un sentimento mezzo di istupidimento, e mezzo di acrimonia” viene poco dopo impiccato – ma non muore, perché già di fiato difetta, e insomma “oso dire che fui ben poco incomodato”, tanto più che lo strappo della corda funge da correttivo agli effetti della storta procurata dal grassone nella diligenza.
Fa però del suo meglio
per ripagare la folla del suo disturbo. Le mie convulsioni vennero trovate straordinarie. I miei spasimi sarebbero stati difficilmente superabili. Il popolino chiedeva il bis. Parecchi signori svennero; e una quantità di signore fu portata a casa in un accesso d’isterismo. Pinxit [immaginario pittore di successo] si valse dell’occasione per ritoccare, da uno schizzo preso sul luogo, il suo ammirevole quadro di Marsia spellato vivo.
La prima versione inseriva però alcune gustose indicazioni su ciò che i giornali (ai quali Poe, ricordiamo, contribuisce con passione) riportano il giorno dopo: visto che il poveretto è incapace di farsi sentire dall’alto del patibolo, scrivono che è morto nell’ostinazione dell’empio sanguinario che era, ostinatamente restio a qualunque confessione – un mostro, “un avvertimento terribile a tutti i bambini” e un compendio di ogni atrocità. “[…] so ran the Gazette”…
Per contro la seconda versione, 1835, e le successive fino – si dirà – probabilmente al ’42 si soffermavano in termini assai più ampi (e fin troppo seri, considerando il clima iniziale della storia) sulle sensazioni del Nostro: il battere del cuore, il gonfiarsi delle vene, il rintocco nelle orecchie (la morte per impiccagione può essere del resto una delle più emblematiche per loss of breath), e insieme il parossismo della memoria che richiama immagini e nozioni, e il focalizzarsi dell’attenzione su tutto ciò; da cui, come in un sogno oppiato, l’allargarsi dei pensieri alle più varie nozioni accumulate in vita. Mentre non è inibita la facoltà di vedere – la folla intorno, per lo strapparsi via del cappuccio… ma quando ormai la folla stessa è divenuta alla mente confusa una mera astrazione e tutto si confonde, il poveretto viene staccato.
Anche perché, nel frattempo, il vero condannato è stato riacciuffato – ed ecco perché, dalla seconda versione del ’35, scompare il passo sugli articoli apparsi il giorno successivo.
Ma nuovamente la seconda versione spalanca tutta una parte dedicata alle sensazioni ed angosce del restare sepolto, chiuso nella bara, spinto nel carro funebre, portato al cimitero e tumulato. Una parte narrativamente straordinaria, ancora presente nei Tales of the Grotesque and Arabesque del 1840, ma che ancora una volta conduce lontano dal clima paradossale e ironico del resto della vicenda, e dunque sarà stralciata nell’edizione ’46 sul ‘Broadway Journal’, ma forse già in un’edizione (non pervenutaci) del ‘42.
In assenza di reclami, il corpo è stato sepolto in una “pubblica cella mortuaria”, una cripta pubblica. Allontanatosi il becchino, il Nostro riesce a far saltare il coperchio della bara (ecco il tema delle avventure del sepolto vivo, che tornerà tanto emblematicamente nella produzione di Poe sulla base di sue personali paure, e di cui dunque ancora una volta questo testo rappresenta un protomodello in chiave satirica): ma solo per essere invaso dal tedio di quella prigionia tra i morti.
Per passare lietamente il tempo – “A guisa di divertimento”, dice più precisamente – prende dunque ad aprire le bare lì accumulate, rompere il coperchio e immergersi in speculazioni sui corpi con veri e propri monologhi di fine dicitore a base di giochi di parole e citazioni colte. Prima su un grassone, di cui immagina gli antichi sforzi nel movimento e in ciò che deriva (per esempio, “Non ha mai contemplato dall’alto d’un campanile le glorie di una metropoli” – e si noti che i temi del campanile e degli uomini grassi, associati alla figura del diavolo tanto ricorrente in queste fantasie, troveranno sviluppo in un successivo racconto del nostro, appunto The Devil in the Belfry, 1839). E tra le limitazioni del defunto cita la mancanza di fiato:
“[…] Il calore fu suo nemico mortale. Durante la canicola egli ha passato dei giorni veramente da cane: e ha sognato allora di fiamme [torna una suggestione che conosciamo] e di soffocazione, di montagne sopra alle montagne, di Pelion sovrapposto all’Ossa [come nell’antica ribellione dei Giganti contro gli Dei Olimpî]. Egli era corto di fiato: per dir tutto in una parola, era corto di fiato. Gli sembrava cosa stravagante il suonare degli strumenti a fiato. Fu lui l’inventore dei ventagli automatici, delle bocche d’aria e dei ventilatori. Egli proteggeva Dupont il fabbricatore di mantici, e morì miseramente tentando di fumare un sigaro. Fu un caso il suo al quale io prendo profondo interesse, un fato che risveglia in me la più sincera simpatia. […]”.
Poi però passa a un altro corpo, con caratteristiche del tutto diverse, magro e connotato da un senso di “sgradevole familiarità” – e anzi per vederlo meglio, afferratogli il naso, lo tira su a sedere nella bara, continuando il soliloquio. Un tipo che non gli ispira nessuna commiserazione: come potrebbe aversene “per un’ombra? [“a shadow”: ricordiamo il riferimento nella prima versione al Peter Schlemihls] D’altronde, non ha egli avuto la sua piena parte delle gioie della vita mortale?”. E dopo aver un po’ immaginato episodi della sua vita, prende a vagheggiare i suoi successi nel segno della pneumatica:
“[…] egli curò con notevole abilità l’ultima edizione dello Scirocco nelle ossa. Molto per tempo andò all’Università e studiò la pneumatica. Tornato a casa, parlava eternamente, e suonava il corno francese. Egli proteggeva i suonatori di cornamusa e morì gloriosamente nell’atto di aspirare del gas – levique flatu corrumpitur, come la fama pudicitiae secondo Gerolamo. Egli era senza dubbio un…”
Ma all’improvviso è l’interessato a interromperlo, cercando di prender fiato (un altro finto morto, insomma) e strappandosi la benda dalle mascelle: come può stringergli il naso in quel modo? Del resto lui dovrebbe sapere “di quale vasta superfluità di fiato” gli è dato disporre – o altrimenti si sieda, e capirà.
Sollevato dal fatto che l’interlocutore non sia uno di quelli che interrompono – per ovvi motivi – il nuovo redivivo narra dunque la sua storia. Un po’ verbosamente (ma è comprensibile per l’eccesso di fiato che lo connota) riferisce dunque del “terribile accidente” occorsogli: passando sotto le finestre di casa dell’altro – sì, proprio del nostro protagonista –, “in quel tempo in cui andavate pazzo per la scena”, aveva sciaguratamente trattenuto il fiato. In senso letterale: il fiato dell’altro… Col risultato di un attacco di epilessia, e di essere creduto morto – ma ha sentito tutte le oltraggiose affermazioni rese or ora su di lui, eccetera eccetera eccetera.
Si tratta insomma, capisce il Nostro, nientemeno che del vicino signor Fiatassai, che ha intercettato “quella identica espirazione da me smarrita durante la conversazione [diciamo così] con mia moglie”. Tuttavia per il lungo tempo del suo chiacchierare non smette di stringergli il naso. Infatti per quella prudenza “che fu sempre il mio tratto più caratteristico”, intende evitare che il possesso (peraltro inutile) di un eccesso di fiato possa venir usato strumentalmente da Fiatassai per mercanteggiare: e intanto rampogna aspramente quel “mostro e idiota dal fiato doppio” per tale eccesso di familiarità, tali proteste e quell’osar tacitarlo per sproloquiare – tutti atteggiamenti che in quella situazione, rileva, proprio non gli converrebbero. Ma soffermiamoci su quello stringergli il naso: un atto che, certo, rimanda fisicamente al tema della respirazione sottratta, ma che insieme – ed è suggestivo – ci ricorda un’altra novella su una parte della dimensione fisica dell’uomo che si autonomizza comicamente, Nos (Il naso) di Nikolaj Vasil’evič Gogol’, guarda caso iniziato tra il 1832 e il 1833 e ultimato nel 1834. Per il quale Gogol’ può in effetti disporre di una serie di modelli ispirativi, nasi o teste dal comportamento fantasistico, in opere prodotte in Russia nel corso degli anni Venti e Trenta; e a monte può ravvisarsi il successo originale della traduzione – completata 1807 – del Tristram Shandy di Laurence Sterne, che gioca appunto sul tema dei nasi (specialmente nel Slawkenbergius’s Tale). Non è insomma necessario immaginare un nesso diretto con Poe, che può pure ricordare Sterne: ma la somiglianza e il legame cronologico con il testo dell’americano resta abbastanza impressionante.
In ogni caso, Fiatassai finisce con lo scusarsi verbosamente, e il Nostro è ben lieto di estorcergli tutto quel che riesce:
Convenuti infine i preliminari, il mio conoscente mi consegnò infine la mia respirazione; della quale (dopo averla esaminata con cura) gli rilasciai ricevuta.
Non mi nascondo che molti mi biasimeranno per aver parlato in modo così sommario d’una transazione tanto immateriale. Si penserà che avrei dovuto addentrarmi nei più minuti particolari d’un evento che – è verissimo – potrebbe gettare molta luce su un ramo altamente interessante della filosofia naturale.
A tutto questo sono veramente spiacente di non poter dare risposta. Un accenno è il solo schiarimento che mi sia concesso di dare. Vi furono delle circostanze… ma, io credo, riflettendo, che valga molto meglio dire il meno possibile su un affare tanto delicato: – tanto delicato, ripeto, e nello stesso tempo implicante gli interessi di un terzo nei cui sulfurei risentimenti non ho il minimo desiderio, pel momento, di incorrere.
Sta parlando di un patto con Belzebù? evidentemente. Il tema già presente nella prima edizione nel passo poi rimosso sul Peter Schlemihls riemerge qui in questo modo obliquo, confermandoci l’importanza dell’icona diabolica (in chiave grottesca, romantica) per l’immaginario di Poe soprattutto – ma non solo – in questa prima fase.
Effettuata la transazione, i due risalgono dalla cripta e finalmente urlando riescono a farsi notare – con tanto di immediata diatriba tra liberali e democratici “sulla natura ed origine dei rumori sotterranei”. Entrambe posizioni alle quali l’apertura del sepolcro “allo scopo di decidere la controversia” (altrimenti – sembra di capire – nessuno vi avrebbe provveduto) e l’apparizione dei due recano una netta smentita… Il tutto si conclude con l’elogio da parte del Nostro “di quella impassibile filosofia che è un’egida pronta e sicura contro gli strali di certe calamità che non si possono vedere, né sentire, né perfettamente comprendere”. Come nel consiglio di Epimenide agli Ateniesi afflitti dalla peste di erigere altare e tempio “al Dio più confacente”: una nota ironica di cinismo utilitaristico a giustificare anche il patto col diavolo.
In realtà nella prima versione le cose procedevano diversamente: staccato dalla forca, il Nostro finiva sul tavolo del medico e del farmacista – cioè si inseriva qui quell’episodio. Con tanto di tagliuzzamenti assortiti, e di presunzione che le contrazioni del poveretto fossero da attribuirsi al solo “effetto della Nuova Batteria Galvanica” che il farmacista “dal momento del suo ingresso a quello del mio decesso, che ebbe luogo pochi minuti dopo, non aveva mai cessato di applicare con la più incessante assiduità”. A questo finale macabro sul tavolo operatorio Poe preferirà fin dal ’35 l’altro più surreale con l’apparizione di Fiatassai e l’improbabile salvataggio: dove la lezione di E. T. A. Hoffmann su grottesco, onirico e personaggi burattineschi appare assimilata con assoluta originalità e ironia.
(2-Continua)