di Piero Cipriano
Uno psichiatra pensa di essere, ed è, quando va bene, uno specialista del pericolo.
Ci sono ragioni storiche (di cui gli psichiatri contemporanei, per lo più, nemmeno sono a conoscenza) che fanno sì che essi siano specialisti del pericolo.
In due casi, soprattutto, si trovano a dover esercitare al meglio questa specializzazione.
Il primo caso è quello in cui una persona compie un reato, e però il reato non ha un fine, o una ragione, o una spiegazione, è incomprensibile, inspiegabile. Allora il giudice non sa che farci e gli chiede: signor psichiatra, è lei in grado di dirmi se questa persona era capace di intendere e di volere quando ha compiuto il fatto reato? Lo psichiatra si ripassa il codice diagnostico, trova la diagnosi, e dice: no signor giudice, egli era schizofrenico, e la schizofrenia non guarisce, dunque non poteva essere in grado di comprendere ciò che ha fatto, ma non lo è neppure di difendersi, inutile pertanto processarlo. Dunque, rincalza il giudice, sta bene, non lo processeremo, non lo condanneremo, non si può condannare uno stolto, e però mi dica, lei, che è psichiatra e sa indovinare il futuro dei senza ragione: potrebbe essere pericoloso ancora? Lo psichiatra non è stato fabbricato, nei suoi anni di apprendistato universitario, per essere sincero, quindi piuttosto che svelarsi nella sua nudità epistemologica, nel suo immenso vuoto di sapere, rilancia: ma certo, signor giudice, io prevedo che lui, data la sua diagnosi che come le dicevo si configura come incurabile, non potrà non delinquere ancora, non potrà pertanto esimersi dall’essere pericoloso. Dunque: interniamolo. Nei manicomi del crimine. Oppure nelle nuove residenze, le REMS.
Il secondo caso in cui lo psichiatra si trova a intervenire nella gestione del pericolo che può derivare dalla persona folle, è quando un disturbato psichico ha una crisi. Seppure non ha commesso reati, lo psichiatra ha un dovere, posizione di garanzia la chiamano, ed è responsabile di ciò che, se lui non provvedesse, potrebbe accadere. Dunque cosa fa, lo psichiatra esperto del pericolo. Stavolta senza che glielo chieda il giudice. Però il giudice è sempre presente, nella testa dello psichiatra, se lo sogna pure di notte, è il suo convitato di pietra. Adopera tre mezzi. Primo: il trattamento sanitario obbligatorio. Secondo: il ricovero in un luogo chiuso. Blindato. Un carcere camuffato da ospedale. Lo chiamano SPDC. Terzo: le fasce con cui, all’occorrenza, lega questa persona al letto, perché non nuoccia.
Il caso di Mastrogiovanni, il maestro anarchico ucciso nel reparto SPDC di Vallo della Lucania nel 2009 è paradigmatico di come un certo tipo di psichiatria e di psichiatri interpretino la propria missione, e si rendano protagonisti di veri e propri omicidi. Molti dei quali impuniti. Perché non vi sono le telecamere, nella maggior parte dei reparti psichiatrici d’Italia a documentare i metodi di certe psichiatrie. A documentare le morti, e i motivi di molte morti che restano misteriose.
Il caso Mastrogiovanni è emblematico di come, certi psichiatri, si siano persuasi d’essere non terapeuti (psichè iatreia, ricordiamolo, significa essere artisti nella cura dell’anima, che è una cosa megalomane, non dico no, ma molto lontana dall’essere specialisti della repressione), ma specialisti del pericolo che all’occorrenza diventano specialisti pericolosi, pericolosi essi stessi per i poveri psichiatrizzati che mal capitano sotto la loro giurisdizione.
Se mai si addivenisse a una legge Mastrogiovanni che quasi quarant’anni dopo aggiusti le involontarie approssimazioni della legge Basaglia (una legge quadro, fu per forza vaga), questa dovrà regolare tre cose.
Uno: il TSO, per far sì che non sia più poliziesco, ma torni a essere l’extrema ratio che la legge 180 prevedeva, e perché ciò accada serve istituire (purtroppo) una quinta figura (dopo i due medici, il sindaco e un giudice) (dico purtroppo perché se gli psichiatri avessero saputo essere democratici e rispettosi, sarebbero stati sufficienti loro a garantire una persona con un disturbo psichico acuto), che sarà un garante, una persona magari esperta di psichiatria o di giurisprudenza che intervenga in corso di TSO, e non permetta abusi..
Due: i SPDC, non più reparti chiusi, non più bunker, che finalmente diventino come gli altri reparti d’ospedale, non i luoghi blindati dove c’è scritto hic sunt leones.
Tre: le fasce, che siano messe al bando, fuori legge, di modo che i luoghi della cura, tutti, si mostrino disarmati, non si trasformino in tante celle, carceri ospedalieri, con letti di tortura: ricacciamo fuori la manicomialità dagli ospedali.
Ma non siamo nati ieri, sappiamo che ciò non basterà, che le navi manicomio continuamente ritornano all’orizzonte, soprattutto, sappiamo quanto l’aforisma di Basaglia sia attuale. «Quando il malato è internato il medico si sente libero, però quando il malato è libero è il medico a sentirsi internato».
Per cui: ce n’est qu’un début.
[Su Carmilla: “Conversazione con Piero Cipriano, psichiatra riluttante” – P. Cipriano, “Le psichiatrie al lavoro” – P. Cipriano, “Il manicomio che non vuole morire” – Recensione dei volumi: P. Cipriano, La società dei devianti (2016) – P. Cipriano, Il manicomio chimico (2015). Presto verrà pubblicata la recensione di P. Cipriano, La fabbrica della cura mentale (2013) – ght]