di Simone Scaffidi ☁
G. Sagramola, Incendi estivi, Bao, 2015, pp. 204, € 18.00
Limbo. L’autrice racconta con delicatezza l’adolescenza, quel periodo tendenzialmente incendiario dell’esistenza che se fosse materia storiografica chiameremmo Medio Evo. Un’età di mezzo, oscura e credulona, incastrata tra l’immagine edulcorata dell’Impero Romano dell’infanzia e quella adulta del Rinascimento, della maturità. Un secolo buio, tutto sommato dimenticabile. Ma Giulia Sagramola con i suoi Incendi estivi e il suo tratto pulito ci costringe a ricordare, illuminando con i fuochi dell’incertezza le contraddizioni del “crescere”. Due sorelle, un’amicizia tra un ragazzo e una ragazza, forse l’amore. Tutto è ancora possibile, le scritte sulle magliette hanno ancora significato e una camminata nel bosco può trasformarsi in un viaggio transoceanico. Brucia il fuoco sulla collina e nei cuori delle protagoniste. Bruciano le streghe tacciate d’indecisione, tacciate per i loro atti impuri in luogo pubblico. E dopo essersi mandate al rogo si abbracciano e si ritrovano. Mtv trasmette la fine degli anni ’90. Britney Spears canta Give me baby one more time… Colpiscimi baby, colpiscimi ancora una volta. E i colpi stordiscono ma la liberazione è nascosta in un foglio rosa. Diciotto anni. Prendi la patente e scappa. Scappiamo al mare che qui si muore soffocati. L’orizzonte si sposta. Possiamo andare dove vogliamo. Possiamo andare lontano. Perfino perderci nel mare. Poi però settembre arriva inesorabile. La macchina rallenta, borbotta e non imbocca nessun rinascimento. “Adolescenza” non significa né “età di mezzo”, né “periodo buio”. Adolescenza significa “crescere”: “nutrirsi” delle incertezze del mondo e resistere alla certezze di chi crede di conoscere la strada giusta.
A. Spataro, Biliardino, Bao, 2015, pp. 292, € 21.00
Amarezza. Troppe aspettative su questo volume. Premessa 1: conoscevo a grandi linee la storia del presunto inventore del biliardino e il suo potenziale immaginifico. Premessa 2: gioco poco, ma sono un fanatico del biliardino. Dunque in Biliardino c’erano tutti i presupposti per un romanzo a fumetti che mi sarei rivendicato fino alla morte. E invece. Invece quando giro l’ultima pagina del libro il nervosismo che mi ha accompagnato durante la lettura esplode. In treno. Esplode. Non per il tratto. Non per il bicromismo rosso e blu che richiama i colori degli omini del biliardino. Ma per l’abuso esagerato dello strumento del cameo. Ok, Alexandre Campos Ramírez, in arte Alejandro Finisterre, l’uomo che si narra essere l’inventore del biliardino, ha avuto una vita straordinaria e ha attraversato la storia del Novecento. È innegabile, la sua leggenda lo precede: poeta, inventore, imbianchino, fuggiasco, esule in America Latina, ballerino di tip-tap, editore anti-franchista, uomo dai tanti nomi e i molti misteri… Ma… Pablo Neruda, León Felipe, Buenaventura Durruti, Vittorio Vidali, Tina Modotti, Pablo Picasso, George Orwell, Ernest Hemingway, Diego Rivera, Frida Khalo, Albert Camus, Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Jean Cocteau, Jean Marais, Alberto Moravia, Elsa Morante, Che Guevara, Ñico López, Jacobo Arbenz, Eduardo Galeano, José Luis Zapatero, Manu Chao.. (e ho dimenticato sicuramente qualcuno…) non sono un po’ troppi nomi celebri da infilare in una storia di 292 tavole? Che funzione hanno le apparizioni di tutti questi personaggi? L’autore voleva comunicarci che Alejandro Finisterre ha attraversato la Storia del Novecento, ma la forma che ha utilizzato per farlo ha contribuito a schiacciare il protagonista e la sua invenzione, a fargli perdere tridimensionalità. I personaggi famosi, privati dei loro tempi e dei loro spazi di azione, sono ridotti a macchietta, stereotipati. La narrazione è ritmata dai camei, filtrata dalla Storia con la S maiuscola, quella dei grandi nomi. Sarebbe stato forse più interessante approfondire la vita sommersa di Alejandro Finisterre, con gli occhi dei sommersi, da un’altra prospettiva, forse il risultato sarebbe stato più profondo ma meno scenografico rispetto a una litigata tra Sartre e Camus o di una scopata tra Tina Modotti e Vittorio Vidali. Che, comunque, ci starebbero pure se fossero funzionali alla narrazione, ma così non è. Non lo riescono a essere. La sceneggiatura è debole, in contrasto con la riuscita grafica di alcune tavole, dal grande impianto evocativo, in cui Spataro riesce a intrecciare con equilibrio la magia del biliardino e del suo inventore con la grande Storia. È il caso delle tavole a pagina 138 e 139 dove grazie all’irruzione del sogno Finisterre entra nel biliardino, nel ruolo di portiere dei rossi, paonazzo, assediato dalla prepotenza dei blu, braccato dal nazifascismo. Oppure il disegno funziona quando i famosi rimangono in disparte o vengono reinterpretati in maniera originale. Il volto di Francisco Franco ad esempio non appare, sostituito dalla riproduzione di un disegno di Picasso, che evoca molto di più dei baffetti hitleriani del Caudillo.