di Luca Baiada
(da Il Ponte, LXXII, n. 11-12, novembre-dicembre 2016)
[Si ringrazia la rivista Il Ponte per la gentile concessione.]
La racconta solo Matteo, il pubblicano. Un esattore: gente dal denaro facile, da prendere e da spendere. Ceto di rapaci al servizio di ogni potenza occupante, molto diversi dai tecnici della finanza in tempi di valuta unica europea. Nel suo Vangelo scrive pornai, puttane: pubblicani e puttane vi precedono nel regno di Dio. Sta parlando del suo ambiente. Se sta fabbricando la sua innocenza, attenzione: forse altri lo accompagnano, in questa salita, insospettabili.
Solo lui, dunque, racconta la strage erodiana. Lui, che fa l’esattore contro il suo popolo, racconta che Gesù è un resto. Dei coetanei maschi di Gesù, quelli di Betlemme e dintorni sono uccisi, non li conoscerà mai. I suoi compagni di giochi, di crescita, di strada e di apprendistato, non saranno nati a Betlemme o non saranno coetanei. Lui sarà quello nato a Betlemme e svezzato in Egitto. Uno scampato. Per tutta la vita, non potersi mai specchiare negli occhi di un coetaneo maschio nato nello stesso villaggio. E non poter essere guardato dai genitori dei nati a Betlemme in quell’arco di tempo, senza il senso di sospetto che accompagna i superstiti, questi inspiegabili mostriciattoli: chissà perché, tu sei ancora vivo.
Matteo ci tiene a raccontare la strage. Che sia anche lui un resto? Benestante e inquieto, uno così escluso da non so cosa, da esser disposto a entrarci anche a braccetto con le prostitute. Forse proprio lui aveva detto al padre «a lavorare la vigna, non ci vado», ma poi era andato, e un fratello buono a promettere non aveva mantenuto la parola. La parabola dei due figli, è sua. Certi scontenti hanno un fiuto infallibile per riconoscere i reietti come loro. È Matteo, citando i saggi consultati da Erode, a riportare il profeta Michea: da Betlemme verrà chi deve regnare su Israele. Non cita il passo alla lettera e si ferma subito, ma basta scorrere poche altre parole, di Michea, ed ecco: «Il resto dei suoi fratelli tornerà ai figli d’Israele». Il resto, così presente in Michea, per Matteo è un non detto, un ambiguo aldilà filologico, una periferia dell’anima.
Non si conoscono i nomi delle vittime, nel testo la strage non ha neppure un sostantivo. Il racconto scorre dall’arrivo dei magi, con Erode che interroga e assicura di voler adorare il neonato, sino a un secco ordine di uccidere tutti i bambini di una certa età, passando per un sogno che spinge Giuseppe alla fuga. Niente strage o massacro: tutto è concentrato in aneilen, uccidere, un verbo all’infinito. Solo dopo, la tradizione latina offre un sunto da mattinale poliziesco, Occiduntur pueri in Bethlehem; e già nella Controriforma, in una composizione di Luca Marenzio della seconda metà del Cinquecento, si canta: «Innocentes pro Christo infantes occisi sunt». Ma la questione dell’innocenza forse è estranea alla visione di Matteo, uomo concreto. Da vedere, come un frequentatore di bassifondi, Caravaggio, mette sulla tela la vocazione del pubblicano che parlò di un figlio difficile, di prostitute, di una strage: Gesù male illuminato, un braccio teso e una luce dritta in faccia: «Che, io?» – «Tu».
Tre secoli dopo Caravaggio, un altro angelo fangoso. Nel Vangelo secondo Matteo di Pasolini la macchina da presa scorre sui volti dei soldati negli attimi prima del massacro, e certi elmi sono così simili a quelli della guerra mondiale da far pensare che le stragi naziste in Italia fossero ben presenti. Ma le fattezze non sono mediorientali né germaniche; piuttosto volti appenninici, stirpe dell’Italia profonda, uscita dal tufo e dalle forre. Per lanciarli alla caccia, come cani, a un capobranco basta un fischio.
Ed ecco la strage, a contraddire l’idea che a Natale sono tutti più buoni. Festa dell’ombra e della luce in lotta irriducibile, giorni del riunirsi cioè delle imbarazzanti nudità interiori. Forse non è solo Erode, a essere tutt’altro che buono, e nella sua ferocia fanno capolino tutti i conflitti e tutta la voglia di attribuirli a un mostro, il più lontano possibile. Noi ci sfiliamo, padri del tengo famiglia o magi del tengo libri. Abbiamo un focolare o uno scartafaccio da finire, e sempre scuse per farci i fatti nostri.
Quante furono le vittime? E quante sono le vittime di ogni strage, da allora a quelle di quest’anno, passando per Boves, Oradour-sur-Glane, Marzabotto? A vedere, non c’è una strage col numero certo. Neppure le Fosse Ardeatine, il più burocratico dei massacri, dove le vittime furono contate, e verbalizzate e ricontate, e le liste sono state trovate, eppure i conti non tornarono il 24 marzo 1944 e non tornano adesso. Qualcuno, citando l’Apocalisse, crede che gli uccisi a Betlemme fossero 144.000. Ma considerando la produttività del luogo e la fertilità umana furono probabilmente poche decine, venti o trenta: solo i maschi, su due annualità dei parti di un borgo e della sua campagna. Tutto qui.
Tutto qui, chi? Io che scrivo o tu che leggi? Com’è odioso, il conteggio: contare è già riduzionismo, ma in questo caso, incredibilmente, ribadisce la realtà dell’accaduto. Il massacro è citato solo da Matteo, non ci sono altre fonti, ma questo proprio perché i morti sono pochi: gli storici delle battaglie e delle dinastie tacciono. Poche decine di piccoli ebrei, in un misero borgo occupato da una superpotenza che va dall’Atlantico alla Siria, non interessano. Paradosso della memoria, l’esiguità è prova. Ma il crimine è celebre per l’importanza dello scampato e non per gli uccisi. Non sarebbe possibile il giudizio morale sull’importanza della singola uccisione tentata, senza la prova, ma questa viene dall’esiguità dell’eccidio consumato: simmetria sconcertante.
Gli uccisi, oscuri a paragone col superstite, sostegno della specialità del resto, sono martiri, cioè testimoni. Sono venerati dai cattolici il 28 dicembre come «Santi innocenti», una formula che si perde nella notte del martirologio e si scioglie sul tempo senza storia tra la nascita del mondo e la modernità. «Il ventotto son gl’Innocentini, son finite le feste e son finiti i quattrini», dice una filastrocca che si ripete nelle campagne toscane, e che appunto occupa il tempo dell’avvento natalizio e termina con l’Epifania, quella che «tutte le feste le porta via», cioè chiude il tempo delle ombre e degli incontri impossibili e riporta alla prosa delle opere e dei giorni. Una filastrocca che ho sentito ripetere con la forza di un incantesimo; non sapevo chi fossero i misteriosi Innocentini, e mi figuravo personaggi a tinte acquerello visti negli affreschi poveri ai crocicchi del Valdarno, su certi altari di cui si prende cura una donna segnata da un dolore, di quelle che curano fiori sontuosi in un orto gelido e sporco, e se ti abbracciano puoi sentire nel grembiale un profumo di sedano e di porri.
Nelle più importanti rappresentazioni pittoriche la strage degli innocenti vede esecutori maschi da un lato, e dall’altro donne. Dove sono i padri? Forse alle armi, magari per il despota. A Sant’Anna di Stazzema, si dice, morì anche un fascista italiano: si trovò di fronte a un imprevisto, a familiari da uccidere? Nell’arte, le madri subiscono il massacro, si disperano. Nel film La ciociara, in un paese occupato dai tedeschi una donna mostra il seno: «Se vulite ve do sto’ latte. Tanto nun me serve più. A chi lo do? Gaetanino nun ce sta più. A chi lo do? ’O vulite?». Le donne raramente combattono, ma accade in un affresco del Ghirlandaio, in Santa Maria Novella a Firenze. Due secoli prima del dipinto, in Sant’Andrea a Pistoia, Giovanni Pisano ha scolpito la strage, e anche lì una donna cerca di salvare un bambino. Il 12 agosto 1944, a Sant’Anna di Stazzema, Genny Bibolotti Marsili scaglia uno zoccolo contro un tedesco e muore salvando suo figlio: non sarà dimenticata.
Della strage erodiana si sottolineano da un lato la colpa, dall’altro l’innocenza. Ed è proprio l’innocenza, un protagonista che ruba la scena, forse un intruso. L’innocenza racconta il nostro bisogno di sistemazione dell’accaduto, la nostra tendenza giustificazionista. Le vittime sono giudicate, se si cerca la colpa per sancire che sono innocenti. La strage deve essere di innocenti, perché così l’inaccettabile può avere un senso. Il quadro è orrendo, ma ha una cornice e non ci frana addosso. Eppure, trattandosi di bambini sino a due anni di età, l’innocenza non ci sarebbe bisogno neppure di nominarla: una qualsiasi colpa è impensabile. Allora i massacratori sono i fabbricanti del nostro stato d’animo, con i piedi nella nostra disperazione e le mani pronte a plasmare il nostro cuore. Charles Peguy, prima di cadere nel tritacarne della Grande guerra, nel Mistero dei santi innocenti scrive: «Sarà detto che voi sarete e siate / i soli innocenti. / E che persino il mio servo Francesco vicino a voi non sia povero. / E che il mio servo san Luigi dei Francesi / vicino a voi non sia innocente». Versi che innalzano questi bambini a meriti senza pari, proprio per l’importanza dello scampato: «Furono massacrati per lui. Invece di lui. Al suo posto. / Non solo a causa di lui, ma per lui, contando per lui. / Rappresentandolo, per così dire. Essendo sostituiti a lui. Essendo come lui. Quasi essendo (altri) lui. / […] Dei bambini Gesù che non invecchiarono mai».
I magi arrivano sapendo che è nato un re, ma forse le indicazioni astronomiche sono vaghe: la nascita è a Betlemme, vanno a Gerusalemme. Cominciano a far domande e mettono in allarme l’autorità locale: fa il despota per un impero, e la storia ci ha abituati agli intermediari del potere, dai requisitori di mano d’opera per la Todt agli economisti del rigore. A quel punto tutto si complica. Erode convoca gli intellettuali locali, che riprendono il passo di Michea: la nascita sarà a Betlemme. Insomma, si uniscono i dati del sapere astronomico e di quello profetico, una cultura indica il tempo, l’altra il luogo. Il responso è: adesso, laggiù, a sud di Gerusalemme. Il re non sarebbe arrivato da solo al bersaglio, e invece sono determinanti gli intellettuali, gentili ed ebrei. Né i magi loquaci, né i saggi locali, sembrano rendersi conto che se un sovrano, già di suo un violento, riceve la notizia della nascita di un altro re, si apre uno scenario pericoloso. Pensano che reagirà bene? Sono incerti anche loro? Forse, in un angolo della coscienza, vogliono mettere alla prova la novità esponendola a una sfida mortale. Sono colpevoli di indifferenza o di superstizione, oppure, semplicemente, grondano sciatterie e piaggerie. Colpe frequenti, nei cortigiani. Ma gli intellettuali raramente pagano le loro colpe, Martin Heidegger rimase impunito, e pochi paesi hanno il privilegio di aver eliminato un Giovanni Gentile, e quando ce l’hanno se ne vergognano.
Ancora. Il bue e l’asino nella stalla, si dice sulla base di una lettura un po’ ardita di Isaia, simbolizzerebbero l’ebraismo e il paganesimo di fronte a Gesù. Si può pensarli invece come rovesci degli scribi e dei magi, alternative alla loro miope collaborazione col despota, moniti tremendi. Mentre altri spianano la via alla strage, due bestie tenaci non fanno doni costosi, non fanno chiasso, non danno informazioni. Bel contrappasso, per gli uomini di penna, essere più stolti degli erbivori. Nelle narrazioni sulle stragi e le razzie tedesche del 1943-1945 compaiono gli animali, strappati alle stalle, che non vogliono esser portati via. Gli animali punti di riferimento, offesi dal male estremo: forse in questo, sta un senso possibile del Salmo 36, che accosta l’immensità della giustizia divina e la protezione celeste degli esseri umani e del bestiame. Dolcissima, in Toscana, la storia della vacca Leporina, che riconosce la voce del vitellino e strappa la corda tedesca per allattarlo. È il contrasto tra la violenza degli uomini e l’oscura sapienza della natura, travolta dal sangue. I contadini ancora la raccontano a veglia, mentre non rammentano i nomi dei magistrati o degli storici che si sono occupati dei crimini nazifascisti.
A Gerusalemme si mette in moto un ingranaggio. Vengono in mente le parole di Kappler al processo del 1948, quando descrisse la preparazione delle Ardeatine come una ruota che girava. Un mito di autogiustificazione: a fare sono le persone, non le ruote. E le persone possono non fare, frenare, impedire. Ma a ostacolare il re non c’è nessuno. Che tipo di massacro decide? Le tassonomie della morte sono un terreno scivoloso. Di fronte al male, al male più atroce, non possiamo tacere, per lottare e ricordare dobbiamo esporre, significare, eppure nel momento stesso in cui classifichiamo il male già l’abbiamo attenuato, parzialmente giustificato. Messo in ordine, anche il sangue ci diventa un po’ accettabile, sta lì in una pagina, in un affresco perfetto come La strage degli innocenti di Giotto nella cappella degli Scrovegni, o in un monumento come nella campagna toscana, una marginina nei campi o un marmo in un paese: «A gloria perenne, a imperituro ricordo…». Per le stragi nazifasciste in Italia, oltre ventimila morti, sono state proposte cinque o sei categorie (la rappresaglia, il rastrellamento, la desertificazione, eccetera), e i conti non tornano mai. Inutile provare a classificare il massacro di Erode.
Ma c’è un punto imbarazzante: sembra di capire che se avesse individuato Gesù, il re avrebbe ucciso solo lui, non gli altri. E che sia proprio il mancato ritorno dei magi a far precipitare la situazione. Erode vorrebbe un’eliminazione mirata, non sangue indiscriminato: ha più il volto grigio di Salazar, che il ghigno di Kesselring.
Approfondire è sempre pericoloso, sottopone la coscienza a sollecitazioni impreviste. La salvezza di Gesù ha per prezzo la morte di quei bambini? La fabbrica dei martiri è in funzione dello scampato, o viceversa? Lo scampato è un resto che deve salvare altri, o un colpevole in maschera che deve espiare più tardi, più lentamente? Che muoia anche lui, cosa è rimasto vivo a fare, tutti questi anni! S’indovina il ferro delle spade di Betlemme, nei chiodi della croce. O magari ci sono davvero, incarogniti, i padri dei coetanei di Betlemme, a godere del Golgota, come canta Fabrizio De André: «Ben più della morte che oggi ti vuole, / t’uccide il veleno di queste parole: / le voci dei padri di quei neonati, / da Erode per te trucidati. / Nel lugubre scherno degli abiti nuovi / misurano a gocce il dolore che provi; / trent’anni hanno atteso col fegato in mano, / i rantoli d’un ciarlatano».
Forse proprio il sangue del potere e il cattivo inchiostro degli intellettuali dettano l’ordine del discorso, costruiscono la simmetria fra l’assurda innocenza degli uccisi e l’inverosimile colpa del superstite, col portato del trauma. Nella strage di Fucecchio, il 23 agosto 1944, T.L. perse la madre e un fratello; dopo una vita durissima, nel 2014 mi racconta:
«Le mi’ zie dicevano: “Meno male, sua mamma ’l bimbo l’ha portato con sé”. E io dicevo: “Ma perché lui l’ha porto e me no?”. Andavo al cimitero e dicevo: “Mamma, ma perché? Allora a me non mi volevi bene, perché ’un m’hai porto anche me?”. È stato un chiodo che m’ha accompagnato tutta la vita».
Un chiodo: non potrebbe essere più chiara, è una crocifissa. È sempre lei, a dirmi: «Questi tedeschi li vedo sempre. Sparavano così, mitragliavano come se si fosse de’ vermi». Nel Salmo 22, quello di cui Gesù in croce cita le prime parole, «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato», si legge: «Io sono un verme e non un uomo». In quel Salmo il chiodo non c’è, ma c’è un ferro più grosso: «Libera dalla spada la mia vita». La mente del trafitto dai chiodi corre alla spada che trafisse i suoi coetanei? O si rischia di giustificare la croce con la strage, in un labirinto dove la coscienza si perde? Non risponde neanche Baudelaire, eppure nel Tradimento di san Pietro ricorda i chiodi, la lancia e le spade: «Puissé-je user du glaive et périr par le glaive!».
Erode, insisto, non ucciderebbe tutti i bambini in una certa fascia di età se individuasse il rivale. Rivalità che a sua volta è assurda, Gesù non destabilizzerà il trono e il re morirà prima della sua vita pubblica. Ma non è la prima volta e non sarà l’ultima, che sospetti immaginari muovono crimini veri.
Erode vuole la morte di un bambino, uno solo, Giuseppe rimedia con la fuga in Egitto, i magi lasciano Betlemme senza passare da Gerusalemme, bimbi senza nome muoiono. Il marito di Maria non ha contatti politici, non immagina il massacro, secondo Matteo è stato avvertito del pericolo solo per suo figlio. Eppure José Saramago, nel Vangelo secondo Gesù, immagina Giuseppe informato di tutta la strage in anticipo, per puro caso: ma quindi, colpevole di non aver avvertito le altre famiglie. Per Saramago, un angelo rivolge a Maria parole durissime: «Sul capo dei figli dovrà sempre ricadere la colpa dei padri, l’ombra della colpa di Giuseppe sta già oscurando la fronte di tuo figlio».
E i magi? Ad avvertirli è un sogno, ma cosa fare lo decidono da svegli. La decisione del re, in fondo potevano immaginarla. Facciamo qualche ipotesi, pensiamo a qualche iniziativa. Combattere a difesa del villaggio certo no, i magi sanno guardare il cielo. Ma potevano mettere in salvo i bambini, farli fuggire. Oppure tentare il colpaccio, tornare da Erode e mentire: «Il bimbo era gracilino ed è morto, nascerà un altro re fra un centinaio d’anni. Oro, incenso e mirra che avevamo all’andata? Venduti per pagare il viaggio di ritorno. Adesso andiamo che dobbiamo studiare meglio, grazie, le scriveremo presto». Troppo azzardato, troppa fantasia? Eppure anche nella storia della cometa e dei tre re magi c’è della fantasia, e piace. Perché è nel testo? Ma no, in Matteo c’è una stella e non una cometa, i magi non sono re e non sono neppure tre. Insomma, quel che piace diventa vero, non si accettano varianti, la storia è definita, l’ordine non si tocca. Pericoloso: il sangue è accettato e non ci si vuole rinunciare. «Questo ordine è già stato eseguito», si legge nel comunicato dell’agenzia Stefani dopo le Ardeatine, e nell’Antonio e Cleopatra di Shakespeare: «Come, Dolabella, see / high order in this great solemnity». Le varianti sono disordine, e non bisogna scompigliare le solennità.
Il potere e gli intellettuali non ci fanno una bella figura, in questa storia di padri istituzionali, familiari e spirituali. Forse non facciamo bella figura neppure noi figli che ricordiamo. I bambini santi per lo scampato, il superstite ucciso più tardi, e quell’incombere del resto, ombra lunga di Michea sui saggi consultati da Erode, su Matteo e su tutti. Occorreva l’infanticidio differito, una categoria proposta nel Novecento, figlia della Prima guerra mondiale, per capire? Eppure da secoli, in certi paesi, la festa dei santi Innocenti è accompagnata da inversione di ruoli fra adulti e bambini, o da scherzi convenzionali, come in Italia il pesce d’aprile. Il bambino che nelle feste medievali veniva posto sulla cattedra vescovile sta lì, buffo e implacabile, a ricordarci che l’impossibile è in realtà l’ordinario e che il resto ha in serbo per noi un dono più imbarazzante di oro, incenso e mirra: tutti siamo resti, affannati a fabbricare la nostra innocenza, persino quando non ha senso sentirci in colpa.
Ad aver bisogno del resto siamo noi, perché ci consola, ci conferma una comoda illusione, quella appunto del resto, dello scarto come eccezione. Ogni giorno, da ogni schermo, da ogni muro, da ogni altoparlante, da ogni telefonino ci sono imposti paradigmi di aspetto, di censo, di comportamento che sono realtà per una stretta minoranza di gradevoli, di ricchi, di disinvolti, e che fingono di essere la normalità. Così si fabbrica la mortificazione dei più, costretti a trascinare come una colpa la loro storia disadorna. «Degli zoppi io farò un resto», profetizza Michea, e piace, questa oscura simmetria di scarto e di elezione, che fa distogliere lo sguardo da cose imbarazzanti, come il fatto che nella vita ci sono più resti che conti che tornano.
La fabbrica delle colpe è la stessa fucina dell’innocenza, ed ecco che basta guardare meglio e si intravede un esattore di Cafarnao, sulla soglia di non si sa cosa, insieme a un figlio difficile, a una prostituta, o persino a chi scrive su una strage sprofondata nella notte dei tempi.