di Gioacchino Toni
Sebastião Salgado (con Isabelle Francq), Dalla mia Terra alla Terra, Contrasto, Roma, 2014, 176 pagine, 40 fotografie in b/n, € 19,90
«nessuna foto, da sola, può far niente contro la povertà nel mondo. Tuttavia, le mie immagini, insieme ai libri, ai film e a tutto l’operato delle organizzazioni umanitarie e ambientaliste, partecipano a un più vasto movimento di denuncia della violenza, dell’esclusione e delle problematiche ecologiche» Sebastião Salgado, p. 60.
In questo volume la giornalista Isabelle Francq raccoglie i racconti di Sebastião Salgado a proposito dei suoi reportage e del suo modo di intendere la fotografia. Nel libro Salgado ricorda la militanza, insieme alla moglie Lélia Deluiz Wanick Salgado, nelle formazioni brasiliane della sinistra radicale vicine agli ideali rivoluzionari cubani, la partecipazione ai movimenti contro il regime militare inaugurato dal maresciallo Castelo Branco nel 1964 (protrattosi poi fino al 1985) e contro l’ingerenza americana in America latina.
Nell’estate del 1969 i due coniugi abbandonano il Brasile salendo su una nave diretta in Francia ove possono contare su una rete di solidarietà internazionale, all’epoca ben funzionante, che offre sostegno, oltre che ai brasiliani fuggiti dalla dittatura, anche a rifugiati portoghesi, polacchi, angolani, guatemaltechi, cileni ed in generale ai migranti ed ai clandestini.
Salgado sottolinea come la sua appartenenza alla prima generazione che ha lasciato la campagna per trasferirsi in città a studiare lo aiuti a comprendere bene il dramma, incontrato tante volte nei suoi reportage, di chi, giunto in città dalle campagne, si torva di fronte alla povertà ed allo sradicamento.
L’incontro con la fotografia avviene nel 1970 quando, durante un viaggio a Ginevra, la moglie acquista una Pentax Spotmatic II dotata di obiettivo Takumar di 50 mm. Da quel momento si può dire che la fotografia entra nella vita del brasiliano che, finiti gli studi universitari, inizia il suo lavoro presso un’agenzia economica che gli consente di conoscere l’Africa e di fotografarla.
Il 1973 è un anno di svolta importante per Salgado; decide di lasciare il lavoro per dedicarsi a tempo pieno alla fotografia come free lance. I primi guadagni ottenuti come fotografo vengono destinati all’acquisto di nuovo materiale tra cui spiccano, inevitabilmente, alcune Leica.
L’amore per il continente africano porta il fotografo a farvi ritorno diverse volte, tanto che il volume Africa, pubblicato nel 2007, finisce col raccoglie materiale proveniente da una quarantina di reportage effettuati nel corso del tempo. I primi lavori africani, sottolinea l’autore, nascono dalla volontà di documentarne la fame e non il folklore ed i paesaggi.
Salgado racconta di come alla fotografia sociale sia giunto semplicemente estendendo alla pratica fotografica la sua militanza politica. In Francia, come in altri paesi europei, non mancano le occasioni per fotografare immigrati e clandestini e molti di questi reportage vengono pubblicati dalla stampa francese legata al cristianesimo sociale.
Attraverso la fotografia il brasiliano intende mostrare quella parte di mondo particolarmente sfruttata ma piena di dignità. «Con Lélia constatavamo come il mondo fosse diviso in due parti, tra la libertà per chi aveva tutto e la privazione di tutto per chi non aveva niente. Con la mia fotografia ho voluto mostrare proprio questo mondo dignitoso e saccheggiato a una società europea in grado di ricevere la mia sollecitazione» (p. 45).
Salgado rifiuta l’etichetta di “fotogiornalista” o di “militante” ritenendo, piuttosto, che le sue fotografie siano un tutt’uno con la sua vita; i suoi scatti corrispondono a momenti vissuti intensamente e quelle immagini esistono in quanto la sua vita lo ha condotto alla loro realizzazione. Il brasiliano sostiene che le sue immagini possono derivare tanto da una precisa scelta politica che lo porta in un luogo, quanto da una semplice curiosità e che la sua fotografia non pretende, né vuole, essere obiettiva visto che, come tutti i fotografi, scatta immagini profondamente soggettive.
Oltre all’Africa anche l’America del Sud occupa un ruolo importante nella vita di Salgado come uomo e come fotografo. Fra il 1977 ed il 1984 il brasiliano visita buona parte dell’America del Sud, in particolare l’Ecuador, il Guatemala ed il Messico mentre soltanto grazie all’amnistia del 1979 può rimettere piede in Brasile e fotografare il suo paese a partire dalle comunità indigene e dalle minoranze autoctone, oltre che dai lavoratori nelle campagne e nelle città.
Dai reportage in America del Sud nasce il volume Autres Amériques, arriva il Prix de la Ville de Paris e nel 1986 viene allestita la mostra parigina alla Maison de l’Amérique Latine che poi farà il giro del mondo.
A metà degli anni ’80 Salgado collabora con Medici Senza Frontiere realizzando un reportage ottenuto attraversando Mali, Etiopia, Ciad e Sudan al fine di mostrare le condizioni dei profughi in fuga dalla fame, dalla sete e dalla guerra. Nel 1985 questo reportage ottiene il premio World Press Photo ed il premio Oskar Barnack e l’anno successivo viene dato alle stampe il volume pubblicato dal Centre National de la Photographie Sahel, l’homme en détresse. Nel 1988 dal reportage nasce un secondo libro intitolato Sahel, el fine del camino.
Salgado sottolinea come, non essendo originario del Nord del mondo, quando fotografa non è preso da quel senso di colpa che colpisce molti altri suoi colleghi; non fotografa la povertà perché si sente in colpa, visto che conosce da vicino quel mondo. Piuttosto, attraverso i suoi reportage, il brasiliano intende mostrare la fame e la povertà agli abitanti dei paesi ricchi affinché prendano coscienza dello squilibrio mondiale ed è con tale spirito che il fotografo decide di far sentire la voce del movimento dei Sem Terra (MST) brasiliani, nato attorno alla metà degli anni ’80, seguendo le loro attività per una quindicina di anni. Così come mostrare la fame in Africa è un modo per denunciarla, seguire i Sem Terra è un modo per sostenerli, per schierarsi da una parte ben precisa.
A metà anni ’80 il fotografo pianifica insieme alla moglie il progetto La mano dell’uomo attraverso cui intende rendere omaggio al mondo del lavoro. Il reportage si focalizza soprattutto sulla produzione su larga scala in cui l’essere umano ha ancora un ruolo importante tentando di realizzare una sorta di “archeologia visiva dell’era industriale” prima che questa scompaia. Tra il 1986 ed il 1991 vengono realizzati reportage in ben venticinque paesi, soprattutto extraeuropei (Indonesia, India, Cina, Brasile…) in cui, a partire dalla metà anni ’80, si è spostata la produzione.
Nel 1986 il fotografo ottiene finalmente il permesso di accedere alla miniera d’oro della Serra Pelada, nel nord del Brasile, nello stato del Pará. La miniera, scoperta nel 1980, presenta un’enorme voragine ove, a 70 metri di profondità, si trovano 50.000 esseri umani intenti a lavorare del tutto privi di strumenti meccanizzati. Salgado racconta come in un primo tempo venga scambiato dai minatori per un uomo della compagnia mineraria e soltanto quando, in seguito ad un diverbio con una guardia nel ventre della miniera, viene condotto in manette in superficie, inizia ad essere visto dai lavoratori come presenza non ostile. Da questo momento il fotografo convive per diverse settimane con i minatori scattando le celebri immagini che hanno contribuito a far conoscere al mondo il lavoro nella miniera.
Salgado ricorda anche come, nonostante le condizioni di lavoro ed il fango tendano ad uniformare l’umanità presente nella miniera, la conoscenza diretta di diversi minatori gli ha fatto scoprire l’estrema eterogeneità dei lavoratori. La successiva meccanizzazione delle miniere ha finito col lasciare disoccupati proprio i più dequalificati e nel libro l’autore racconta della trasformazione subita da molta di questa gente divenuta proletariato concentrato nelle periferie delle città e costretta, in molti casi, a rubare qualcosa nottetempo per sopravvivere.
Nella prima metà degli anni ’90 si calcola che, a livello mondiale, tra i 150 ed i 200 milioni di individui abbiano abbandonano la campagna per trasferirsi in città. Da tali dati prende vita un nuovo progetto fotografico volto ad indagare la riorganizzazione della famiglia determinata dalle trasformazioni industriali. Sovrappopolamento delle periferie urbane, precarietà, povertà, condizioni igieniche disastrose e violenza dilagante sono i primi risultati di tale flusso migratorio ed il progetto In cammino (divenuto un libro nel 2000) intende proprio mostrare le persone costrette ad affrontare i drammi dello sradicamento e dell’adattamento nei nuovi contesti tentando di far comprendere la necessità di riformulare la “famiglia umana” su basi solidali. Il reportage In cammino si protrae per sei anni tra l’India, l’Iraq, il Brasile, Shanghai, Giacarta, Manila, il Vietnam, l’Indonesia, i Balcani e diversi paesi dell’America Latina.
Dopo i lavori sui migranti e sulle guerre in Mozambico, Ruanda e Tanzania, è la volta della denuncia dell’inquinamento e della distruzione delle foreste. Salgado pianifica con la moglie una trentina di reportage per il progetto Genesi, poi portato a termine in otto anni attraversando Sahara, Galápagos, Madagascar, Sumatra, Mentawai, Nuova Guinea, Papuasia Occidentale, Himalaya, Russia asiatica, Stati Uniti, Canada, Alaska, Cile, Argentina, Venezuela, Falkland, Isole Sandwich…
Nel 2013 escono i primi due libri su Genesi a cui seguono mostre in tutto il mondo. Il fotografo sottolinea di non aver affrontato i reportage con la logica dell’entomologo o del giornalista ma di averli realizzati per se stesso, al solo fine di scoprire il pianeta e trarre piacere da ciò.
Sino a Genesi Salgado si è occupato esclusivamente di esseri umani ma improvvisamente sente di dover fare qualcosa di analogo anche per gli animali: prima di scattare occorre, in entrambi i casi, farsi conoscere e conoscere. Il rispetto per chi si ha di fronte ed il piacere per l’incontro sono alla base della fotografia degli animali così come degli esseri umani. Il contatto diretto con la natura ha anche consentito al fotografo di conoscere gruppi umani che ancora vivono in equilibrio con l’ambiente naturale.
Genesi coincide anche con il momento in cui Salgado passa dall’analogico al digitale, passaggio che avviene soltanto dopo lo svolgimento di una serie di test comparativi nell’estate del 2008. Anche in Genesi il fotografo rinuncia al colore, utilizzato in poche occasioni in passato e soltanto per lavori su commissione per riviste. Il fotografo ricorda anche le faticose sperimentazioni di laboratorio al fine di ottenere negativi in bianco e nero di qualità partendo da file digitali al fine di realizzare stampe ai sali d’argento ovviando, momentaneamente, al problema della conservazione degli archivi su dischi rigidi.
Anche con il digitale Salgado preferisce far affidamento, durante i reportage, soltanto su ciò che vede dall’obiettivo e l’editing non viene fatto dallo schermo di un computer ma dalle stampe, così come ha sempre fatto. Il fotografo ci tiene a sottolineare come il passaggio dall’analogico al digitale ha portato ad una qualità di stampa nettamente superiore rispetto al passato. Salgado lavora con la luce naturale ed oggi il processo di stampa permette un controllo infinitamente maggiore sull’immagine inoltre è possibile lavorare a luce molto bassa ed aumentare la sensibilità.
Uno dei primissimi reportage in digitale del brasiliano viene realizzato nel 2008 sulle alture etiopi e questo viene considerato dall’autore forse il suo lavoro più bello ed interessante. Si tratta di un reportage effettuato percorrendo quasi novecento chilometri a piedi sulle montagne, camminando per quasi due mesi su sentieri tracciati da passaggi millenari di cui non esiste alcun rilevamento tipografico e superando per ben tre volte i quattromila metri di quota.
Quando Salgado termina i reportage di Genesi è ormai settantenne ed alla fine di questa avventura ritiene di avere davvero “incontrato il pianeta”, che è cosa diversa dall’aver “girato il mondo”. Oltre ad aver messo i piedi (e gli occhi) ovunque, il fotografo ha finito anche col ripercorrere all’indietro la storia, riuscendo a vedere “come eravamo all’inizio dell’umanità”, quando ancora l’umanità era dotata “dell’istinto”. «Ho visto ciò che eravamo prima di lanciarci nella violenza della città, dove il nostro diritto allo spazio, all’aria, al cielo e alla natura si è perso fra i muri delle case. Abbiamo eretto barriere che ci separano dalla natura. Di colpo, non siamo più in grado di vedere, di sentire… […] Se nel mio libro, La mano dell’uomo, ero fiero di mostrare che noi umani siamo un tipo di animale molto abile a produrre, ho visto anche che nella nostra maniera di vivere abbiamo fatto di tutto per distruggere ciò che garantisce la sopravvivenza della nostra specie» (p. 168).
__________________
[Le fotografie riportate nel testo sono state pubblicate con il consenso dell’editore – gh]