di Sandro Moiso
Nicola Perugini e Neve Gordon, Il diritto umano di dominare, Nottetempo 2016, pp. 240, € 16,50
Poco dopo che nel 2012 Barack Obama aveva pubblicamente dichiarato di essere intenzionato a richiamare tutte le truppe americane di stanza in Afghanistan entro il 2014, alle fermate degli autobus del centro di Chicago (città dove nel mese di maggio dello stesso anno si sarebbe tenuto un summit della NATO per mettere a punto i dettagli della exit strategy) erano comparsi manifesti che esortavano la NATO a non ritirare le proprie truppe dal tormentato paese centro-asiatico.
Su quei poster era scritto:”NATO, Keep the progress going!” (NATO, occorre portare avanti il progresso), stabilendo così un chiaro collegamento tra l’occupazione militare e il progresso.
Sotto il titolo, poi, si annunciava un “Summit ombra per le donne afghane” che si sarebbe tenuto durante lo stesso summit della NATO. A differenza, però, di quanto si potrebbe pensare tale iniziativa non era sponsorizzata da qualche fondazione repubblicana o dalla lobby delle armi ma da Amnesty International, la più nota tra le organizzazioni per i diritti umani presenti al mondo.
Prende inizio da questo episodio la dettagliata e approfondita riflessione che Nicola Perugini e Neve Gordon conducono sull’intricato rapporto che intercorre, forse fin dalla loro formulazione alla fine del Secondo conflitto mondiale, tra “diritti umani” e rafforzamento del ruolo dello Stato e del dominio in ogni angolo del mondo e soprattutto là dove intercorre ancora una chiara ed inequivocabile distinzione tra occupanti e colonizzati.
Il case study di riferimento è quello dato dall’occupazione israeliana dei territori palestinesi, ma non vi è dubbio che le osservazioni e le conclusioni cui giungono i due autori costituiscono motivo di meditazione per ogni caso in cui la violenza e il dominio statuale, coloniale o meno, sia esercitato in nome di un asettico diritto al rispetto di valori universalmente condivisi. Riflessione che porta inevitabilmente a rivedere e ribaltare tutti i luoghi comuni su cui si fonda una sventurata e opportunistica concezione dei cosiddetti diritti umani, fondata essenzialmente sul diritto degli Stati a riconoscere ciò che è accettabile e ciò che non lo è nei fin troppo asimmetrici rapporti che intercorrono tra i diversi attori del conflitto sociale.
I due ricercatori, che nei ringraziamenti finali si assumono pienamente e a pari merito la responsabilità dell’intero contenuto del libro e delle conclusioni cui giungono, sottolineano infatti che l’uso che oggi viene fatto dalle ONG conservatrici o dagli apparati militari del concetto di “diritti umani” non sia dovuto ad un radicale travisamento degli stessi, ma sia implicito proprio nelle formulazioni, anche in quelle apparentemente progressiste, che hanno accompagnato tale concetto fina dalle sue origini.
“Più che reclamare una concezione moralmente adeguata dei diritti umani, intendiamo mostrare come i diritti umani e la dominazione si intersechino.[…] Attraverso un attento esame dei dati empirici, criticheremo[…] l’assunto che maggiori sono i diritti umani minore è il livello di dominazione, il quale normalmente associa la promozione dei diritti umani all’emancipazione dei più deboli […] e offusca le situazioni in cui gli oppressori possono rivendicare, manipolare e tradurre i diritti umani, creando così una propria cultura dei diritti umani per razionalizzare la perpetuazione della dominazione […] Diversi pensatori hanno sostenuto che i diritti umani sono in realtà vincolati dal potere e spesso operano al suo servizio, senza minacciarlo realmente […] In base a questa prospettiva, i diritti umani contribuiscono ad affinare le forme di governo […] In questo senso, i diritti umani consentono la creazione di nuove soggettività poiché, grazie all’evoluzione del proprio repertorio, essi sono in grado di definire cosa significa essere un soggetto pienamente umano.” (pp. 29-32)
Quindi non un’umanità determinata dalla storia, dall’economia e dai rapporti di classe e di sfruttamento che hanno caratterizzato le strutture sociali del dominio che ne derivano, ma dal Diritto il quale, a sua volta, è di esclusiva competenza degli stati nazionali e delle organizzazioni internazionali che li riuniscono. In altre parole: lo Stato e le classi dirigenti definiscono i diritti e l’umanità, o meno, dei loro sottoposti, privandoli di qualsiasi altra arma di resistenza che non sia quella di rivolgersi ai tribunali statali o alle corti internazionali. I quali a loro volta, come già succede anche in Italia e in altri paesi per quanto riguarda la persecuzione degli attori del conflitto sociale, potranno determinare se i vari soggetti hanno o non hanno diritto ad un pari trattamento legislativo sulla base delle loro precedenti scelte politiche ed operative.
Il testo porta a sostegno di ciò una miriade di esempi tratti dalla drammatica situazione creatasi nei Territori Occupati dagli Israeliani e dalle loro forze armate in Palestina, ma un esempio può sinteticamente valere a dimostrazione di ciò per il recente passato: “Benché il nostro presupposto è che tutte le forme di dominazione siano violente, è importante notare che la violenza non è sempre o necessariamente una manifestazione di dominazione. La storia anti-coloniale ci insegna per esempio che la violenza può essere praticata per resistere, liberare e svincolare i popoli dai rapporti di dominazione coloniale.” Però ”paradossalmente, Amnesty International fu riluttante ad adottare Nelson Mandela come prigioniero politico perché si era rifiutato di rinunciare all’uso della violenza, in quanto lo riteneva uno strumento legittimo nella lotta contro il regime dell’apartheid” (pag. 13)
Un altro evidente paradosso è che oggi uno dei maggiori strumenti di diffusione dell’idea dei diritti umani sia costituito dalle forze armate americane.
“A Fort Branning, la sede della scuola di fanteria e delle truppe corazzate dell’esercito statunitense, i soldati che vengono «preparati e formati per combattere e vincere» le guerre devono anche frequentare il corso di diritti umani. L’obiettivo del corso è di «inculcare negli allievi che i valori democratici, la legislazione internazionale sui diritti umani e il Diritto Internazionale Umanitario sono doti di comando essenziali nelle forze armate” (pag. 25)
Non solo, ma si stima anche “che ogni anno, oltre ad addestrare i propri soldati con metodi tradizionali, il governo USA addestra in circa 275 siti – tra accademie militari e strutture simili – approssimativamente 100.000 poliziotti e soldati stranieri, provenienti da quasi 150 paesi, offrendo più di 4100 corsi sui diritti umani[…] L’inserimento di corsi sui diritti umani nell’addestramento militare rivela anche un altro mutamento nell’ambito dei diritti umani. Se il Diritto Internazionale Umanitario (DIU) era in passato considerato il corpus legislativo che si occupava del conflitto armato, e la legislazione internazionale sui diritti umani l’insieme di norme vigenti in tempo di pace, ora queste due legislazioni non sono più ritenute totalmente separate. Nei loro rapporti e nelle loro petizioni le ONG le utilizzano simultaneamente per promuovere il rispetto dei diritti umani in situazioni di conflitto armato e di occupazione militare, e dato che il conflitto è oramai la norma in molte regioni del mondo, è diventata pratica diffusa abbandonare la classica separazione tra i due ambiti del diritto internazionale. In altre parole, la normativa sui diritti umani non è più considerata parte di un ambito completamente separato dalle norme umanitarie dello jus bellum” (pp. 25-26)
Salta immediatamente agli occhi come tale scelta, che non a caso forse può essere fatta risalire alla prima guerra del Golfo, possa ricoprire una funzione importantissima non soltanto nel poter definire le guerre degli ultimi decenni come guerre umanitarie, ma anche nel disumanizzare il nemico che tali criteri “militari” non voglia, in quanto Stato, o non possa, in quanto movimento ancora privo di identità nazionale riconosciuta e definita da confini spaziali e giuridici, applicare.
In fin dei conti il processo di disumanizzazione del nemico o dell’avversario ha sempre accompagnato la dominazione coloniale, dai tempi della discussione cinquecentesca e cattolica sull’anima degli indios fino all’accusa di terrorismo usata oggi contro qualsiasi movimento che si opponga alle varie forme di dominazione del capitale e dell’imperialismo sulla società. Dalla Val di Susa alla Palestina, tanto per intenderci.
Accanto a questo, in un tempo di guerra permanente come quello che stiamo vivendo, il coinvolgimento dei diritti umani nello jus bellum giustifica anche la distinzione tra armi intelligenti, bombardamenti e assassinii mirati rispetto al semplice assassinio o alla distruzione, spesso accompagnata dall’aggettivo “terroristico”, che, a questo punto, diventa sempre e soltanto ciò che definisce la violenza del nemico. Soprattutto se quel nemico è un movimento che si oppone all’espansione dei diritti degli Stati liberali e democratici di “dominare”.
In tale contesto, in cui tra l’altro ambiente bellico e ambiente urbano tendono sempre più a combaciare, anche la discussione sulle vittime civili dell’azione militare viene, secondo i due ricercatori dell’Università di Princeton, fortemente influenzata, trasformando le stesse in “scudi umani”, se uccise nei bombardamenti destinati a distruggere il potenziale militare ed economico nemico, oppure in “vittime o danni collaterali”, se colpite durante azioni mirate ad assassinare gruppi ristretti o singoli rappresentanti dell’apparato politico-militare avversario.
Insomma, l’azione militare degli apparati bellici americani, israeliani ed occidentali in genere troverà sempre una giustificazione umanitaria del proprio operato, distinguendosi a priori dall’”atto terroristico” di chi dovrà operare in una totale asimmetria di forze ed armamenti. Seguendo questa logica, nell’esempio più rilevante e chiaro portato a dimostrazione di ciò dai due autori, che hanno potuto condurre lezioni e ricerche presso college e università israeliane, nel caso delle ultima campagne condotte da Israele contro la striscia di Gaza o gli hezbollah libanesi, i bombardamenti israeliani avrebbero sempre e solo colpito obiettivi militari (case private, ospedali, scuole, moschee) in cui si nascondevano armi, mentre i razzi sparati dal Libano e da Gaza in risposta a ciò avrebbero sempre e soltanto risposto a logiche di tipo terroristico perché destinati a colpire le abitazioni e le comunità ebraiche.
Numerosi potrebbero ancora essere gli esempi che Perugini e Gordon adducono per sostanziare la loro critica dell’attuale concezione ed uso dei “diritti umani”, ad esempio quello del diritto dei coloni ebraici ad occupare spazi e territori destinati all’Autorità nazionale palestinese, ma forse l’elemento più forte che viene portato alla luce dalla loro ricerca è come la specializzazione di ONG ed “esperti” dei diritti umani abbia portato questi, indipendentemente dal fatto che facciano parte di organizzazioni progressiste o conservatrici, ad escludere dal discorso politico quelli che dovrebbero essere i principali protagonisti della lotta per l’emancipazione umana dalle logiche del dominio e dello sfruttamento per trasformarli in semplici testimoni per le inchieste che altri devono condurre e poi valutare in ambiti istituzionali (tribunali civili, militari e internazionali).
Le istanze delle vittime reali o dei resistenti diventano così soltanto una questione di verità, da giudicare secondo l’episteme auto-referenziale ed assoluta dei diritti umani, o di risarcimenti economici e morali. Spazzando via così dalla scena qualsiasi riferimento alla Storia del dominio coloniale, imperiale o alla lotta di classe. Non a caso “Human Rights Watch, probabilmente l’organizzazione per i diritti umani meglio finanziata al mondo, che sfoggia un bilancio annuale di oltre 50 milioni di dollari e uno staff di quasi 300 persone ha la sua sede centrale nell’Empire State Building (con tutta l’ironia del caso), accanto a quelle grandi corporation come Wallgreen, Bank of America, LinkedIn e alcuni dei più rinomati studi legali” (pag. 198)
La stessa HRW dichiara poi esplicitamente che: “L’essenza della nostra metodologia nonè la capacità di mobilitare le persone perché scendano in piazza, o di intentare cause legali, o di chiedere la realizzazione di grandi progetti nazionali, o di fornire assistenza tecnica. Il nucleo centrale della nostra metodologia è piuttosto la nostra capacità di investigare. Mettere a nudo e smascherare”. Cui va poi aggiunto che “l’organizzazione si oppone in maniera esplicita alla partecipazione popolare nella politica dei diritti umani” (pag. 199)
In questo modo: “La legge che permette al dominante di uccidere è salvaguardata e perfino rafforzata da coloro che sostengono di lottare per i diritti umani […] L’invocazione della legislazione sui diritti umani spesso traduce la violazione in un “caso”: classificandolo, separandolo e isolandolo, ne nasconde le fondamenta strutturali[…] In questo modo, si cancellano i motivi e le ragioni comuni sottese a violazioni apparentemente diverse. Andare oltre il caso isolato e pretendere la distruzione delle strutture oppressive, per non parlare dello smantellamento del regime che commette le violazioni, è percepito come una strumentalizzazione dei diritti umani, specialmente quando l’abuso è commesso da uno Stato liberale” (pag. 202)
Così “l’impiego dei diritti umani in conformità alla legge produce quindi la convinzione che esista un sistema imparziale in grado di fungere da arbitro neutro tra le parti in causa e di rettificare le storture. Esso esclude dalla sua critica gli elementi costitutivi del sistema giuridico. In questo modo, contribuisce a mettere sotto silenzio la resistenza contro le strutture sociali, economiche e politiche della dominazione che sono radicate e supportate dalla legge che le riproduce” (pag. 203)
“Il legalismo è senza dubbio uno dei principali fattori che producono le gerarchie professionali nel settore. Gli esperti di diritto e gli avvocati sono alcune delle figure chiave del mondo dei diritti umani che rivendicano un sapere specialistico esclusivo. Ma quando parliamo di professionalizzazione, facciamo anche riferimento a […] consulenti per la comunicazione, medici legali, archeologi, antropologi, assistenti sociali, psicologi, esperti di munizioni, geografi, medici e personale sanitario specializzato, […] una classe di esperti in diritti umani che sono spesso alienati dalle persone che dovrebbero rappresentare” (pag. 205)
“Attraverso il tropo della neutralità, il professionismo dei diritti umani definisce «i limiti del pensabile e dell’impensabile e contribuisce così al mantenimento dell’ordine sociale da cui dipende il suo potere” (pp. 207-208)
Così nel richiedere la liberazione dei diritti umani dal circo legalistico- mediatico che li circonda i due autori finiscono con il concludere che: “Se l’uso della legge conferisce legittimità al dominante, bisogna creare un cortocircuito che combini i diritti umani a discorsi e pratiche di emancipazione per spezzare il nesso tra legge e legittimità. Ci sembra che questa possa essere una raccomandazione valida per tutti quei contesti nei quali l’osservanza della legge (invece che la sua critica) riproduce i meccanismi della dominazione” (pp. 209-210)
Un libro forte, bello, intelligente e assolutamente utile, anche qui da noi dove il confronto con il dominio e con l’abuso sembra suggerire sempre di più la necessaria vicinanza tra la resistenza sociale nel cuore dell’Europa e dell’impero e le forme assunte dalle lotte contro il dominio coloniale in altre parti del mondo. Grazie, quindi, non solo ai due coraggiosi e lucidissimi autori, ma anche alle edizioni Nottetempo per averlo reso disponibile per i lettori italiani nella collana Cronache.