di Luca Cangianti
Barbara Bonomi Romagnoli, Bee Happy. Storie di alveari, mieli e apiculture, DeriveApprodi, 2016, pp. 124, € 12.00.
Le api hanno ispirato molte famose metafore di operosità, di organizzazione sociale, di rapporto organico tra individuo e comunità. Si va dalla Favola delle api del filosofo libertino Bernard de Mandeville alla famosa asserzione marxiana secondo la quale “l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin dà principio distingue il peggior architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera.” Tale paragone, contenuto nel primo libro del Capitale, serve al filosofo tedesco per evidenziare la natura liberamente creativa del lavoro quale attività peculiarmente umana.
Non so quanto Barbara Bonomi Romagnoli possa condividere questo assunto antropocentrico. Il suo nuovo libro, Bee Happy, ha comunque una missione diversa: raccontare il mondo dell’apicultura anche a chi non se ne è mai interessato, suggerendo alcuni spunti di saggezza derivanti da una forma di allevamento anomalo e millenario in cui le creature allevate restano selvatiche, e alla fine del processo non sono uccise.
Per niente secondaria è inoltre la prospettiva soggettiva dell’autrice, attivista dei movimenti femministi e altermondialisti, giornalista e saggista, divenuta apicultrice riattivando una tradizione familiare a lungo trascurata. Non è quindi sorprendente che il mondo delle api possa ispirare riflessioni riguardanti, ad esempio, i diritti riproduttivi: la “maternità nell’alveare – afferma Bonomi Romagnoli – offre spunti molto interessanti anche al dibattito umano se si riflette sul senso di una collettività composta da insette libere e nomadi, decisamente aperta al meticciato, dedita alla fecondazione eterologa e financo alla poliandria della regina.” Sull’onda di queste suggestioni libertarie si arriva così ad auspicare anche per il mondo umano “una irruenta e incruenta spinta collettiva al bene comune, all’autodeterminazione dei desideri, alla cura condivisa di terre e relazioni, moltiplicando le danze e gli abbracci senza moralismo alcuno”.
Con una prosa ibrida, a volte ironica, altre polemica, l’autrice descrive l’ampia serie di tipologie umane incontrate nella sua attività professionale: l’apicultore taciturno e solitario, quello gramsciano, l’ex avvocato, il nomadista (che sposta le api per farle nutrire di pollini differenti), lo stanziale (sostenitore del legame con il territorio), il monoflora (secondo il quale il miele deve provenire da un solo tipo di fiore), il “razzista” difensore della purezza genetica dell’ape. Si tratta di un mondo variegato che solo in Italia conta 11 mila apicultori professionisti cui vanno sommati altri 40 mila produttori di miele a fini hobbistici o di autoconsumo, per un totale di 1,6 milioni di alveari e 6.300 miliardi di api.
Bee Happy insegna molte cose a chi è fino a oggi si è limitato a spalmare il miele sulle fette biscottate o a scioglierlo nel tè nelle fredde giornate d’inverno: ad esempio che la struttura sociale dell’alveare assomiglia più al decentramento anarchico che alla monarchia; che le api permettono la riproduzione dell’80% delle piante del mondo; che comunicano attraverso segnali tattili delle antenne; che danzano per inviare segnali di servizio, ma anche per condividere emozioni di gioia o di paura.
L’entusiasmo per tutte queste meraviglie della natura subisce una battuta d’arresto solo alla pagina 55 del libro, quando apprendiamo che “tecnicamente” il miele è nettare rigurgitato e fermentato. Ma niente paura, dopo qualche giorno di diffidenza nei confronti del barattolo con l’etichetta a fiori, quasi tutti si riprendono dallo shock.