di Fabio Ciabatti
In un precedente intervento su Carmilla ho sostenuto che in Venezuela una molteplicità di movimenti, sviluppatesi autonomamente, hanno trovato una riunificazione nella catena di vicende che parte dal Caracazo e arriva all’elezione di Chavez. Ci siamo inoltre chiesti come poter rappresentare questo processo di unificazione.
Il primo elemento da considerare è l’evento della rivolta popolare che costringe i movimenti a unirsi spontaneamente e immediatamente per contrapporsi alla violenta repressione dello stato. Di fronte al pericolo estremo, sosteneva Sartre nella Critica della ragione dialettica, gli individui atomizzati si uniscono creando un’aggregazione qualitativamente diversa dalla somma dei singoli, il gruppo in fusione, che cementa la solidarietà sostituendola alla reciproca indifferenza. La rivolta rende evidente una frattura sociale, cementa il campo popolare e dischiude un nuovo orizzonte di possibilità. A questa unificazione immediata ne segue una caratterizzata da una processualità consapevole e orientata. E qui ci torna utile Enrique Dussel1 che descrive questo processo come caratterizzato da un’incorporazione analogica tra le diverse rivendicazioni popolari in grado di conservare la distinzione di ciascuno e di trasformare la prassi di liberazione popolare in una nuova proposta politica collettiva. Ciò si ottiene attraverso un processo di “dialogo e traduzione” tra le diverse istanze conflittuali. In questo modo è possibile che le rivendicazioni dei diversi movimenti possano incorporare quelle degli altri: per esempio il femminismo (l’esempio è di Dussel) scopre che le donne di colore sono quelle trattate peggio, che le operaie ricevono minori salari, che le cittadine sono discriminate nelle funzioni di rappresentanza; che le donne dei paesi periferici soffrono maggiore discriminazione e così via. Risulta implicito in questo schema l’esistenza di un sistema sociopolitico che interseca oggettivamente le diverse forme di sfruttamento ed esclusione rafforzandole reciprocamente. Esiste una base oggettiva che unisce i diversi movimenti, che li mette in condizione di scambiarsi proficuamente le loro esperienze.
Per Ernesto Laclau, invece, non è possibile rappresentare la società nel suo complesso come un sistema con le sue leggi di sviluppo, tali da definire a priori, per quanto astrattamente, soggetti sociali intrinsecamente antagonisti e potenzialmente alleati.2 In senso proprio, non si può parlare di capitalismo quale realtà oggettiva, ma solo di una molteplicità di gruppi che si costituiscono attraverso pratiche discorsive e che non preesistono a esse. Presupposta l’intrinseca eterogeneità del sociale, la costituzione di un popolo avviene attraverso la costruzione di una catena di equivalenze tra le diverse domande insoddisfatte che, di fronte a un potere ostile, costituisce una frontiera antagonistica tra stato e popolo. L’elemento decisivo per l’unificazione delle domande è però l’emergenza di un significante vuoto, vale a dire una domanda particolare che in maniera contingente assume il valore dell’universalità egemonizzando e unificando tutte le altre: possiamo parlare di un’idea forza sufficientemente ambigua da poter essere interpretata in modo compatibile con le differenti domande, ma capace di suscitare un forte investimento affettivo.
A differenza di Dussel, che considera possibile un meccanismo di contaminazione positiva e inclusiva tra le diverse rivendicazioni, per Laclau il legame tra le molteplici domande è essenzialmente negativo ed è in grado di generare soltanto una generica solidarietà: l’esclusione dall’ordine dominante è il loro elemento comune. La catena di equivalenze che supporta un sistema egemonico ricalca esplicitamente il sistema linguistico di Saussurre, caratterizzato dall’arbitrarietà della lingua: i segni si determinano reciprocamente delimitandosi l’un l’altro, in guisa meramente relazionale all’interno di un sistema linguistico chiuso, già accettato. Non esiste un referente extralinguistico che determina in qualche modo il sistema segnico. Allo stesso modo per Laclau non esiste una realtà socioeconomica oggettiva indipendente dalle pratiche discorsive. Non a caso il passaggio da una formazione egemonica a un’altra, secondo Laclau, comporta sempre una rottura radicale, una creatio ex nihilo. Come per i sistemi linguistici di Saussurre, si dà una frattura tra storia e sistema. Non ci sono mediazioni tra un sistema e un altro.
Di qui il carattere fittizio del significante egemonico: si tratta del necessario riempimento di un vuoto strutturalmente incolmabile, l’elemento di unificazione di una realtà irrimediabilmente eterogenea. Per questo l’unità del popolo di Laclau, in fin dei conti, è effetto della nominazione, del discorso che riempie il significante vuoto retroagendo sul sociale. E la nominazione ha un carattere sostanzialmente monologico: essenziale è il discorso del leader rivolto al popolo la cui comprensione è di tipo passivo (non retroagisce, non dialoga).
Si può però fare riferimento a una diversa concezione del linguaggio, quella sviluppata dal circolo di Bachtin3 che ci consente di non sottovalutare l’importanza del significante Chavez quale elemento di unificazione delle istanze popolari, permettendo di comprendere la genesi di questo significante come espressione di una pratica sociale conflittuale che riempie la figura del leader di un significato determinato, sebbene non univoco, in quanto significato conteso, oggetto di lotta per l’egemonia. Per Bachtin, infatti, la realtà basilare del linguaggio non è il sistema linguistico, ma l’interazione verbale, parte di uno scambio continuo, a sua volta parte del divenire globale di un collettivo sociale. La parola è intrinsecamente dialogica e per questo determinata sia dal parlante sia dal destinatario (ma il dialogo, in questo senso, non è necessariamente uno scambio tra pari). Senza che venga meno la sua unità, la parola ha tanti significati quanti sono i contesti di utilizzo; contesti che tra loro interagiscono, si sovrappongono e si oppongono continuamente. In ogni tappa dello sviluppo della società è presente un particolare gruppo di oggetti che acquistano forma segnica in quanto socialmente rilevanti e perciò suscettibili di valutazione sociale. Poiché la classe non coincide con il collettivo che utilizza gli stessi segni, nel segno stesso viene riflesso e rifratto l’intersecarsi di interessi sociali, si intersecano accentuazioni diversamente orientate, cariche di contenuto ideologico ed esistenziale: il segno diviene arena della lotta di classe nella sua polisemia e pluriaccentuazione.
Se parliamo del riempimento del significante Chavez, il segno come arena della lotta di classe può essere il filo conduttore per la riscrittura di una storia dal basso che sostituisca la storia dall’alto che si concentra sul progetto individuale e sul discorso del leader. Utilizzando Walter Benjamin, potremo dire che la storia dall’alto presenta delle significative analogie con il romanzo quale luogo in cui l’individuo, nel suo isolamento, esprime il disorientamento di fronte all’incommensurabile della vita umana.4 Il romanzo, come forma di ricordo interiore, è dedicato a un solo eroe, a una sola traversia, a una sola lotta. Tramite questo eroe, il romanzo riempie una mancanza: le fiamme da cui è consumato il suo destino generano il calore che il lettore non può ricavare dalle proprie vicende personali. In modo simile, il leader, come è presentato da Laclau, si trova, singolarmente, ad affrontare l’insopprimibile eterogeneità del sociale senza poterne ricostruire il senso complessivo. Ed è ancora il leader, che, attraverso il significante vuoto, riempie in modo fittizio (benché efficace) la mancanza determinata dall’impossibile totalizzazione del sociale. È sempre il leader che accende la fiamma dell’investimento affettivo, laddove la singola rivendicazione non è in grado di farlo.
Al contrario la prospettiva indicata da Dussel, attraverso il dialogo e la traduzione, fa riferimento alla possibilità di narrare, a sua volta basata sull’essenziale capacità umana di scambiare esperienze – proprio quella capacità che, secondo Benjamin, sembra venire progressivamente meno nell’epoca moderna. La narrazione, come forma di memoria collettiva, racchiudendo in sé i molti fatti dispersi, si appropria del corso delle cose e, come nelle fiabe, racconta l’astuzia o l’impertinenza degli oppressi. Nel prendere coscienza di sé, dice Dussel citando Benjamin, il popolo si riappropria, come memoria condivisa, delle proprie passate gesta cancellate dalla storia scritta dai vincitori. Tutto ciò a sua volta rimanda alla possibilità di individuare una comunità che unisca narratori e ascoltatori, poiché la narrazione richiede un tessuto minimo e immediato di vissuto condiviso, parole che siano il riverbero di questo tessuto, luoghi e tempi per condividere queste parole.
Ed è proprio una forma comunitaria che sembra riemergere nella descrizione della coscienza o cultura del barrio. Ma qui occorre procedere con cautela. La comunità precapitalistica organicamente chiusa, cui implicitamente rimanda il narratore di Benjamin, è tramontata con l’incedere del capitalismo e il tentativo di recuperarla sic et simpliciter, nella sua originaria compattezza, può avvenire solo nella forma della comunità immaginaria, sempre a rischio di torsioni regressive. Lo sviluppo contradditorio del capitalismo ha portato la molteplicità di mondi e gruppi sociali a intrecciarsi e cozzare tra i loro, a perdere la loro immediata e autonoma significatività. Per questo vorrei chiudere con quella che è poco più di una suggestione di tipo letterario. Di fronte all’attuale frammentazione sociale, una narrazione all’altezza dei tempi di un processo di liberazione potrebbe forse darsi in una forma simile a quella che è stata descritta da Bachtin parlando di romanzo polifonico5: una pluralità di voci e di coscienze realmente autonome, espressione dei loro mondi separati, ma non isolati, che nel loro incontrarsi e scontrarsi lascia emergere un senso che non è subordinato a un discorso monologico imposto dall’esterno, da un deus ex machina nei panni dell’autore o dell’eroe.
Cfr. Enrique Dussel, 20 tesi di politica, Asterios, 2008. ↩
Cfr. Ernesto Laclau, La ragione populista, Laterza Bari, 2008. ↩
Cfr. Valentin N. Volosinov, Michail Bachtin, Marxismo e filosofia del linguaggio, Manni, 1999. ↩
Cfr. Walter Benjamin, Il narratore, Einaudi, 2011. ↩
Cfr. Michail Bachtin, Dostoevskij, Einaudi 2002. ↩