di Jack Baldrus
Henry Miller, Giorni tranquilli a Clichy, Es editore, Milano 2010, pp 115 € 17
(qui e qui i precedenti) E’ prevista una ulteriore possibilità per l’iscrizione alla Congregazione degli scrittori professionisti. E’ un esame di riparazione per chi, per motivi anagrafici, o psicologici, non è riuscito a superare la prova su Marcel Proust o Franz Kafka. La commissione giudicatrice si rende conto che lo studio approfondito, e improvviso, di stili così in controtendenza può causare forme di straniamento, o di vero e proprio blocco mentale. Forse entrare nel periodo lungo asmatico proustiano, o nell’antilirismo puro di Kafka necessita di tempi lunghi per chi è nato e cresciuto con gli stili semplificati, o eccessivamente virtuosistici, che dominano nell’editoria moderna. Pertanto si è convenuto che, soprattutto per i giovani, è necessaria l’elasticità, e un periodo adeguato di recupero letterario. Anche chi è stato bocciato su Proust o Kafka ha comunque iniziato un percorso di avvicinamento agli immortali, che dovrà continuare con l’approfondimento delle letture.
Henry Miller non è un immortale, anzi, è mortale, troppo mortale. La sua opera presenta sezioni narrative così datate da risultare addirittura grottesche, nella loro sciatteria. Alcuni passi dei suoi romanzi oggi fanno sorridere, o indignare; possono creare disgusto o forme di ribellione. Non ha raggiunto gli stadi purificati di verità interiore, ma si è fermato alla schiuma superficiale di sentimenti contaminati da un lavoro tossico di un Super Io solo apparentemente superato dall’Es creativo. Con l’uso dell’oscenità, e della liberazione degli istinti, che all’epoca erano forme di ribellione nel sistema bloccato del puritanesimo americano (i suoi libri sono stati bloccati dalla censura per molti anni), Miller ha creduto di combattere la dittatura del Sistema (Super Io), in realtà ha dimostrato di esserne dominato, accettando certi enunciati che oggi ci sembrano primordiali, barbarici e reazionari.
Per esempio, nel romanzo breve che segnaliamo come introduzione alla sua opera, I giorni di Clichy (titolo originale, rinominato in questa pubblicazione di Es), scritto nel 1940 e ambientato nella Parigi degli anni Trenta, due scavezzacollo, il Narratore e l’amico Carlo (ispirato al compagnone di bisbocce Alfred Perles), artisti per nulla bohemiens ma spiantati, predatori e menefreghisti, vagano per i bassifondi sempre alla ricerca di qualcosa da mangiare e donne da “stendere”. Non c’è trama, ma unicamente ricerca di avventure, proteine e vitamine da mettere in pancia e una superficie orizzontale possibilmente non infestata dalle cimici per stendersi e schiacciare un pisolino. Questo è il mondo. Questa è la vita. Ma come fare, oggi? Come la mettiamo? Come si può passare sopra a una evoluzione etica che viene calpestata da certe “avventure” dei nostri due sub-eroi? Per dire, raccolgono per strada una ragazza quattordicenne, in stato confusionale, che vaga per le strade senza una meta apparente. Se la lo portano a casa, e siccome è carina, l’amico Carlo la “stende” subito. Poi la fa vedere al Narratore, la fa “valutare” (“guarda che tette!”), e infine la tengono come servetta e schiava sessuale di Carlo. Ora, una lettrice moderna manderebbe subito al diavolo il libro e il suo autore. Se poi decidesse di avere pazienza, e andare avanti, troverebbe un altro episodio dove i due monelli rimorchiano una povera, stramba prostituta (sempre chiamata “puttana” e “sgualdrina”, come tutte) ossessionata dall’affitto da pagare, e le rubano tutti i soldi, abbandonandola in un albergo che non potrà pagare perché l’hanno appena ripulita. E qui, ci sarebbe l’adieu definitivo e un gigantesco fuck off.
Eppure Henry Miller non è tutto qui. Queste sono scorie, prodotti di una certa primordialità selvaggia-politico-affettiva che noi, più evoluti di lui, possiamo perdonare. In realtà, con una lettura responsabile e smaliziata, si possono trovare elementi di straordinaria attualità in Miller. Il mondo: degradato oltre ogni limite, con una denuncia radicale del sistema dell’American Way of life, fatto di ossessione per il lavoro e la carriera, di conti da pagare; le città disumane progettate unicamente a misura di auto e di posti di lavoro, termitai cementificati dove vivere come insetti che corrono come pazzi. In questo inferno di muratura, luci e acciaio, il Narratore, che ricopre un ruolo sociale importante (come l’autore: Miller era direttore del personale alla Western Union), molla tutto e se ne va in Europa senza un dollaro, allo sbaraglio, per seguire la sua vocazione di scrittore. Via, lontano da una terra che nega ogni forma artistica, avendo come unico obiettivo il culto del denaro e del profitto.
Ne I giorni di Clichy, una sorta di riduzione sintetica del Tropico del Cancro, lo troviamo in piena azione, in una sorta di segmento narrativo isolato da un contesto più ampio, opere che raccolgono tutta l’intensità, il misticismo e il lirismo (molto apprezzati da Gilles Deleuze) del suo immaginario: la monumentale Rosy Crucifixion, i Tropici, Primavera Nera. Come non trovare corrispondenze col nostro tempo? Cambiano i costumi, i dettagli, gli optionals, ma le restituzioni narrative spietate di una società ingorda, ignorante e distruttiva ci sono vicine, si applicano facilmente al nostro tempo. E poi la popolazione di pazzi, di disperati, di clown naturali che affollano le sue pagine: come non confrontarla con la diffusione della follia moderna, creatura deforme di una società malata?
E infine il personaggio. L’eroe milleriano è un nomade che vaga per le strade della pazzia e della miseria, spinto dalla sua vocazione granitica di scrittore, da un misticismo orientaleggiante che gli serve per neutralizzare il mortifero materialismo capitalista, e da un pessimismo cosmico alla Schopenhauer. Va avanti baldanzoso esaltato dalla lettura di Rimbaud (un altro eroe giovane in rivolta nella palude velenosa della meschinità borghese), di Proust (il modello del grande scrittore/ricercatore), con la pancia vuota e una inestinguibile voglia di vivere. Sembra indifferente alla miseria, alla fame, alla solitudine. Il mondo è pieno di avventure e di offerte, basta essere felici in sé, essere allegri nella disperazione e nella mancanza di prospettive; basta mandare al diavolo tutto, e godersi la natura, e soprattutto il piacere del proprio corpo. Certo, qua e là ci sono riduzioni comiche del sesso, e il Narratore, al quale basta uno sguardo per accoppiarsi immediatamente con qualunque donna in qualunque luogo, sembra una parodia del già parodistico Sex Machine de Dal tramonto all’alba. Ecco uno dei tanti passi tratti dalle acrobazie sessuali di Joey: “Le tirai su le gambe, sulle mie spalle, e l’attaccai a colpi d’ariete. Credetti che non avrei mai smesso di venire, eiaculavo con un getto continuo come da una pompa da giardino”. Ecco, l’eroe di Miller è fatto così: potrebbe stendersi sulla pancia e girare in tondo come una trottola in equilibrio sul “bischero” eretto.
Ma il sesso, di un iper-realismo così estremo da risultare mistico, gli serve come resistenza creativa alla distruzione sociale. Accoppiarsi in continuazione senza alcun pudore o senso di colpa è la sua forma di battaglia contro la repressione e il puritanesimo. E’ la forma estrema e indistruttibile di libertà. E’ la ricerca della vita. Così l’eroe milleriano è un eroe della resistenza umana, una figura quanto mai utile e attuale nella nostra epoca negativa. Come può il sistema soffocante della borghesia americana non evocare l’abbraccio mortale del Pensiero Unico che tutto contamina, e incatena? Un passaggio efficace de I giorni di Clichy esprime con efficacia questa natura ultrapositivistica della Roccia Felice milleriana, sempre tale in mezzo ai disastri e alla follia: “E lui (Carlo, ndr) affermava che ero un ottimista inguaribile; ma non si trattava di ottimismo, bensì della convinzione profonda che anche se il mondo era affaccendato a scavarsi la fossa, rimaneva ancora tempo per godersi la vita, per stare allegri, senza pensieri, per lavorare o non lavorare”.
Si potrebbe dire che solo un tipo così, solo un “uomo nuovo” può fare la rivoluzione. Perché non ci può essere futuro in un sistema se non è sorretto dal consiglio della vampira Eve de Solo gli amanti sopravvivono: “Contemplare la natura, coltivare la gentilezza e l’amicizia”. Serve questo, oltre le barricate. Servono la forza, la generosità, la curiosità, il coraggio, la comicità, la sfida, la pazzia creativa dell’Happy Rock milleriano.
E anche della sua essenza di pioniere, di esploratore letterario. Chiudiamo con un altro passaggio da I giorni di Clichy, e dite se non poteva essere che lui il guru dei beat (Kerouac in testa), e di tutta la generazione successiva, gli anni Sessanta: “Entrai in bagno distrattamente per pisciare. V’erano, sparsi qua e là, fette di pane, pezzi di formaggio, olive ammaccate. Il tutto gettato via per sazietà, con disgusto, evidentemente. Presi una fetta di pane per vedere se fosse mangiabile. Qualcuno l’aveva calpestata rabbiosamente. C’era un po’ di mostarda; ma si trattava proprio di mostarda? Meglio provare con un’altra fetta di pane. Sembrava abbastanza pulita, anche se zuppa perché in quel punto il pavimento era bagnato. Vi schiaffai sopra un pezzo di formaggio. In un bicchiere lasciato accanto al bidè era rimasto un goccio di vino. Lo mandai giù, poi addentai il pane con cautela. Non era affatto male. Anzi, aveva un buon sapore. I germi non danneggiano chi ha fame o è ispirato. Per dimostrarlo mi pulii il sedere con il pane; rapidamente, certo. Poi lo mandai giù. Ecco! Perché fare gli schifiltosi?”