di Marco Rovelli
Ivan Carozzi, Teneri violenti, Einaudi, 2016, pp. 151, € 17.00
Il protagonista di Teneri violenti di Ivan Carozzi è uno sguardo. Uno sguardo “alieno” che tale si mantiene per tutto il racconto. Osserva Milano senza giudizio, perlustra la città, e in quella città il tempo presente. Lo perlustra due volte, il tempo presente, e da diverse prospettive: sia attraversando i luoghi della città, sia lavorando alla redazione di un quiz televisivo.
Da una parte ci sono i luoghi di una Milano che sembra un puzzle da ricomporre ogni volta, con le sue tessere precarie; dall’altra, la fucina dell’immaginario contemporaneo, e della sua precaria futilità. Colto dalla vertigine di quell’equilibrismo, “Ivan” si profonda nel passato: il suo lavoro infatti è raccogliere dai giornali degli anni Settanta notizie di ogni tipo: dalla nera alla politica. E da quelle fantasmagorie del passato “Ivan” si fa cogliere, sedurre, conquistare: diventa un collezionista del passato, dei suoi squarci, dei suoi margini, che prendono corpo in storie di amanti suicidi, di fughe da casa, di follie.
Lo sguardo, dicevo, è il protagonista del romanzo: già, perché non si tratta di quello sguardo disincantato, o cinico, che ci si potrebbe aspettare in una vita la cui cifra è la precarietà. È, invece, uno sguardo che si fa illuminare dagli squarci di una tenerezza che viene da un altrove – forse lo stesso altrove da dove viene lo sguardo, o forse un altro ancora, chissà. “Tenerezza”, come ci indica lo stesso titolo del libro, è la parola chiave. Come per la trasmissione televisiva in cui “Ivan” lavora, è una “buffa tenerezza” che “si confonde ogni volta con la pietà”. Solo che l’occhio-Ivan non è satirico. Col programma condivide solo la sua grammatica, il suo “smontaggio” che in altri tempi si sarebbe detto postmoderno (“in altri tempi”: oggi il postmoderno è vintage, e fa tenerezza).
Quello sguardo perlustra Milano facendosi abbacinare dai particolari, e a disegnarsi non è una figura definita con dei contorni, ma un flusso infinito di singolarità tutte egualmente significative, e dunque tutte egualmente prive di senso. Cascate di nomi, di frammenti, si riversano in quello sguardo attento e equanime, che riflette la realtà senza catalogarla, che ne coglie la natura partendo dai margini delle cose, dai dettagli, dalle risonanze. E, sempre, con quella tenerezza che è la natura stessa di quello sguardo.
In quell’oceano, in quel flusso senza fine, lo sguardo cerca sempre delle fessure da cui farsi toccare da un possibile “altrove”. Così, quell’altrove barbaglia in un cinema semideserto, dove siedono “gruppi sparpagliati nella sala”, e “Ivan” si sente “accerchiato da un mormorio d’ossa, tenere e friabili”. E quell’altrove si fa presente negli archivi di notizie degli anni Settanta a cui “Ivan” lavora, per mettere insieme “pezzi minuti di un collage sbriciolato”. Facendosi “palombaro” in quell’oceano, “Ivan” sprofonda in un’altra dimensione, che lo chiama, in cui può esercitare “l’infinita dolcezza” dello sguardo. Brani di vita e storie, quelle che “Ivan” incontra, che lo catturano con la loro corporeità, la loro materialità, come a rappresentare un mondo corposo, non smaterializzato come quello in cui a lui accade di vivere: un mondo dove il corpo, e l’incontro (e lo scontro, e la violenza stessa), erano il solido fondamento di grandi narrazioni, della possibilità di trovare un senso, di stabilire un centro di gravità delle cose.
Si tratta, ovviamente, di un tentativo paradossale, visto che “Ivan” ha a che fare solo con le vestigia di quel tempo, e legge le cose che gli si presentano già declinate nel loro immaginario: la realtà, per lui, è già da sempre mediata. Dai giornali, dalla televisione, dagli stili, dai meme, dal web. Perciò questa rammemorazione delle vestigia non ricostruisce un senso, ma segue la seduzione di un ritorno a qualcosa che non è mai stato: perché è da sempre una rappresentazione. Non c’è temporalità concepibile per un figlio dell’epoca presente se non in chiave di spettacolo, di rappresentazione: una rappresentazione infinitamente rimodulabile, ricomponibile, in un gioco senza inizio né fine dove l’unico senso è quello soggettivo di una smisurata malinconia, di una mancanza.
Ma se è anche un tentativo paradossale, e probabilmente fallimentare, non importa: bisogna seguire quella “nostalgia cannibale”. Che è cannibale perché ha “fame di altri esseri umani”. È amore, tenerezza, dolcezza. È un inestinguibile “slancio amoroso per un paese scomparso”. È per questo amore che “Ivan” si fa affascinare da storie di passione estrema: storie di cronaca nera, prima che politiche (dove l’icona assoluta è quella di Moro). Come se cercare in quegli anfratti oscuri significasse cercare il fondo di quell’altrove che non è più. Per accorgersi, magari, che “forse l’affresco troppo fosco che ci si è formati di quegli anni è stato preparato e disegnato dai quotidiani del tempo”.
Questa storia dell’occhio-Ivan si incrocia con una storia d’amore con una certa Silvia: anch’essa, va da sé, storia iper-precaria e impossibile. Un incontro, quello con Silvia, che apre e chiude il romanzo: è per la sua seduzione che “Ivan” cercherà di sciogliere uno dei tanti enigmi incontrati nelle sue immersioni da palombaro, di dare un volto finalmente presente a una di quelle persone la cui storia lo hanno avvinto. Ma compiere le cose, nell’immenso flusso in cui a “Ivan” tocca vivere, non è dato.