di Gioacchino Toni
Enrico Nivolo, Antropologia dei clown. Percorsi rizomatici tra liminalità e anti-struttura, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 254 pagine, € 24,00
Il saggio di Enrico Nivolo riprende gli studi di Francesco Remotti, in particolare Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi (2013), e le analisi sviluppate da Gilles Deleuze e Félix Guattari a proposito dei concetti di linea di fuga e di deterritorializzazione. Ad interessare Nivolo è il rapporto intercorrente tra il sistema di senso egemone, che ambisce all’unicità, e le svariate possibilità di senso esistenti che denunciano la natura convenzionale ed arbitraria del senso stesso. L’autore si propone di individuare nella figura del clown la possibilità di evadere dal “senso unico” su cui è costruita l’attuale società capitalista evitando però di scivolare nel “non senso”. Se diamo per assodato che il riconoscimento dell’arbitrarietà del senso è il primo passo da compiere, resta da capire come e da dove possono giungere all’individuo stimoli utili all’abbandono del senso unico. Il saggio indica nella clown-poiesi una tra le possibili vie d’uscita, linee di fuga, dall’antropo-poiesi capitalista neoliberale.
Nella prima parte del volume – Movimento I – l’autore si propone di analizzare l’antropo-poiesi capitalista neoliberale, i riti di trasformazione ed il concetto di liminalità, soffermandosi anche sulle modalità con cui il capitalismo ha appiattito il panorama culturale italiano ricorrendo, a tal proposito, a riflessioni di Antonio Gramsci, Ignazio Silone e Pier Paolo Pasolini.
Entrando nel merito dell’antropo-poiesi, essa può essere indicata come costruzione degli esseri umani e deriva dall’idea che all’uomo non basti, per sopravvivere, il solo bagaglio biologico ma che a questo debba aggiungersene uno culturale. In altre parole, l’uomo, dopo una prima genesi biologica, si completerebbe attraverso una seconda genesi culturale. Studiosi come Johann Gottfried Herder, Clifford Geertz e Francesco Remotti condividono l’idea che «la cultura interviene per rendere possibile l’umanità stessa, in maniera tanto incisiva e determinante che spesso i modelli culturali appresi appaiono naturali. Invero sin dalla nascita un soggetto è assediato da informazioni culturali che passano attraverso il suo rapporto con coloro che si prendono cura di lui e che vanno a sedimentarsi nel suo corpo, plasmandolo. In queste relazioni vengono comunicate numerose istruzioni riguardanti il modo culturalmente più appropriato di stare al mondo, di gestire le relazioni sociali, di utilizzare il linguaggio, di camminare e di comportarsi» (p. 22).
Secondo Herder questa seconda nascita può essere concepita in due modi: o si intende la genesi come un processo che dura per l’intera vita dell’essere umano, o la si pensa come un passaggio non graduale (rituale d’iniziazione) che segna la nascita culturale. In entrambi i casi si possono rintracciare differenze di intensità sia nella percezione del senso delle possibilità (dal credere esista un solo modello di umanità alla consapevolezza che la propria forma di umanità è una tra le possibili) che nella consapevolezza antropo-poietica (dall’esserne totalmente inconsapevoli alla piena coscienza del processo e dell’arbitrarietà del modello proposto). «L’antropo-poiesi della società occidentale contemporanea possiede un minimo grado sia di consapevolezza, sia di senso delle possibilità ed è basata sul modello di umanità seriale inventato dalla civiltà capitalista neoliberale, erede di quel pensiero che si definisce moderno» (p. 23).
Secondo l’antropologo Remotti la modernità apre la strada ad un percorso che, proponendosi di raggiungere “uno stato di verità universale”, si impone sulle altre culture rivendicandosi come qualcosa di nuovo e diverso rispetto al passato. La modernità si impone dunque come rottura col passato, come nuovo inizio basato su principi del tutto nuovi. In questo senso, secondo Kristian Kumar (Le nuove teorie del mondo contemporaneo), «la conformazione caratteristica della modernità e l’acquisizione di consapevolezza del pensiero moderno sono rintracciabili nella rivoluzione francese, momento storico in cui fu annunciato ufficialmente “lo scopo dell’epoca moderna: la realizzazione della libertà sotto la guida della ragione” […] Il passo successivo, ovvero l’acquisizione di una sostanza materiale da parte della modernità, fu la rivoluzione industriale. Da questo momento storico in poi il pensiero moderno sposò le teorie economiche liberali: la contrapposizione tradizionale/moderno, divenne la contrapposizione tra “civiltà pre-industriale e civiltà industriale” e l’idea di progresso della scienza mutò in quella di progresso industriale e tecnologico» (pp. 24-25). Così facendo, sottolinea Marc Augé (La guerra dei sogni) [su Carmilla], il discorso della modernità ha finito con l’inserirsi nell’immaginario collettivo cancellando il passato ed imponendosi come “nuova civiltà globale”.
Studiosi come Fredric Jameson ritengono si possa parlare di continuità tra il pensiero moderno, caratterizzato dall’accoppiata capitalismo-liberalismo, ed il pensiero post-moderno, caratterizzato, secondo lo studioso, dalla nuova coppia capitalismo cognitivo-neoliberalismo. Jameson sostiene che «il post-modernismo è “la dominante culturale della logica del tardo capitalismo” in cui coesistono caratteristiche eterogenee, ma subordinate ad una società del simulacro che trasforma il passato in immagini televisive, avvalorando la logica tardo capitalista» (p. 26). Tale concezione del passato preclude l’idea stessa di futuro. «Jameson qualifica il postmodernismo come un fenomeno storico in cui si è creato uno “spazio postmoderno” che corrisponde alla terza fase di espansione del capitalismo nel mondo e in cui sovrastruttura e struttura, ovvero cultura ed economia, si sovrappongono affermando la stessa cosa» (p. 26). “Il mercato è nella natura dell’uomo” diviene un mantra ripetuto all’unisono. «Assunta come premessa l’esistenza di una natura umana universale in epoca moderna, il passo di descriverla come il mercato per i sostenitori del capitalismo è stato rapido e in discesa» (p. 27).
Il capitalismo, scaricando il passato, dunque negando il futuro, è riuscito a presentarsi come fatto compiuto, come un’utopia che fa del presente il suo baluardo, inoltre è riuscito ad identificare il marxismo come un’utopia irrealizzabile. Tali manovre ideologiche, secondo Jacques Derrida (Spettri di Marx) si sono dispiegate ricorrendo a tre dispositivi: la “cultura politica”, la “cultura massmediatica” e la “cultura scientifica o accademica”. Al fine di spiegare il funzionamento della prima “forza antropo-poietica”, la politica, Nivolo ricorre alle teorie illustrate da Michel Foucault nel suo Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), ove viene analizzato il passaggio dal liberalismo nel neoliberalismo nel corso del Ventesimo secolo.
La seconda “forza antropo-poietica”, i mass media, rappresenta oggi la principale fonte di quel completamento culturale che si aggiunge al portato biologico dell’uomo e tale fonte, secondo Kumar, ha soprattutto mirato a consolidare e rafforzare il modello politico-economico esistente. Studiosi come Frank Webster e Kevin Robins indicano nella società dell’informazione una deriva del taylorismo: «una filosofia sociale che, nata all’interno delle fabbriche, si è successivamente diffusa per l’intero globo […] Gli autori di Tecnocoltura. Dalla società dell’informazione alla vita virtuale mettono in luce che “l’obiettivo [del taylorismo] era la direzione scientifica del bisogno, del desiderio e della fantasia, e la loro ricostruzione in forma di merci” e che codesto obiettivo è stato perseguito in buona parte mediante i mezzi di comunicazione di massa attraverso cui il taylorismo è riuscito a produrre dei soggetti-consumatori, nello stesso modo in cui nelle fabbriche si producevano auto o abiti […] Questa catena di montaggio mediatica è stata programmata e messa in pratica da “ingegneri del consumo” – pubblicitari, agenzie multinazionali, professionisti delle ricerche di mercato e dei sondaggi di opinione, intermediari delle informazioni, giornalisti e così via. Questi ingegneri hanno regolato le operazioni commerciali e i comportamenti dei consumatori grazie ad uno “sfruttamento ‘razionale’ e ‘scientifico’ delle informazioni” da cui è sorta la politica dell’informazione che si è radicata a partire dagli anni Ottanta su scala globale» (p. 37).
La “terza forza antropo-poietica”, come detto, è data dal sistema di istruzione statale e per affrontare il ruolo di tale agenzia formativa Nivolo ricorre ad Ivan Illich (Descolarizzare la società), autore che evidenzia come, a suo avviso, la scolarizzazione obbligatoria abbia legato gli ambienti più poveri della popolazione al potere statale, tanto che l’accesso al mondo del lavoro e la collocazione al suo interno, è regolata attraverso il livello di scolarizzazione conseguito. Illich sostiene che la scuola è divenuta la religione universale di un proletariato modernizzato e che dispensa promesse di salvezza ai poveri dell’era tecnologica. Dunque, attraverso la scolarizzazione «viene prodotta in serie una fanciullezza ben addestrata a fare tutto ciò che è in suo potere per aumentare le proprie competenze al fine di guadagnare un reddito maggiore, il quale […] permetterà di soddisfare i desideri indotti dal sistema, che non essendo autentici lasceranno un perenne senso di insoddisfazione. La religione-scuola, nella prospettiva di Illich, è depositaria del “mito della società” ed è la sede del rituale che riproduce e maschera le discordanze presenti tra “i principi sociali e la realtà sociale del mondo contemporaneo”. La scuola, diventata la nuova chiesa universale d’occidente, oggi possiede un suo rito di iniziazione che consiste nell’introdurre il neofita alla corsa sacra del consumo progressivo: “è un rituale di propiziazione i cui sacerdoti accademici fanno da mediatori tra i fedeli e gli dèi del privilegio e del potere”. In questo rito, attraverso il sacrificio dei disertori, considerati i capri espiatori del sottosviluppo, vengono espiate le colpe del capitalismo e i partecipanti vengono modellati sulla rigida organizzazione del lavoro con l’obiettivo di “celebrare il mito di un paradiso terrestre di consumi illimitati, unica speranza per i dannati e i diseredati” […] La scuola è diventata un rito antropo-poietico istituzionalizzato e irrigidito che, a differenza di quanto avviene nei rituali antropo-poietici presenti in altre società, nel foggiare gli esseri umani non li invita a riflettere sul fatto che ciò che stanno realizzando non è nient’altro che uno tra i tanti modelli di umanità possibili» (pp. 43-46).
Una volta passate in rassegna le modalità di funzionamento delle principali “forze antropo-poietiche” che concorrono a plasmare i soggetti nella società occidentale contemporanea, Nivolo si sofferma su alcuni degli effetti provocati da tali forze. A tal proposito viene ripreso il pensiero di Marc Augé che sottolinea come nella società dei consumi i soggetti si trovino a dover scegliere tra un consumo passivo e conformista o un rifiuto radicale anche se, in quest’ultimo caso, secondo l’antropologo francese, manca una riflessione sui fini. «I mezzi di comunicazione di massa, sotto il falso obiettivo di informare il pubblico, in realtà lo inducono “a consumare passivamente le notizie del mondo”, diminuendone quindi la capacità critica e contribuendo a uniformare informazione, orientamenti e gusti delle persone» (p. 47)
Il saggio si sofferma anche sul disciplinamento del corpo ottentuto nella società capitalista da quel processo che Deleuze e Gauttarì definiscono di “viseità”, di produzione di viso. Per opporsi a ciò, sostiene Nivolo, non si devono riproporre le semiotiche primitive ma occorre «mettere in atto una prassi deterritorializzante e farsi un corpo senza organi, attivando una pratica anti-produttiva» (pp. 49-50). Vendo invece al rito, si ricorda come questo abbia come funzioni principali quelle di attribuire un senso alla realtà e di provocare una riflessione sulla comunità d’appartenenza. Riprendendo gli studi di Francesco Remotti e di Adam Seligman, Nivolo sostiene che nel rituale gli individui possono far propri i criteri ed i principi che definiscono un certo tipo di umanità grazie alla costruzione di “un mondo soggiuntivo” che consente agli individui di pensare alla realtà non nei termini in cui è ma in quelli in cui “potrebbe essere”. Dunque, il rito può essere definito «una dimensione spazio-temporale nella quale i partecipanti vengono indotti a soppesare criticamente il modello di umanità propostogli dal potere egemone e ad abbandonare, per tutta la sua durata, le strutture di pensiero fino a quel momento adottate. La critica viene indirizzata spesso al carattere fittizio di tali modelli affinché i novizi comprendano la natura arbitraria dei segni di cui la civiltà che stanno assimilando è composta» (p.51).
L’antropologo inglese Victor W. Turner ritiene che proprio questo spazio-tempo in cui il soggetto può investigare sulle alternative al sistema dominante, può portare all’elaborazione di una nuova configurazione sociale. Secondo Remotti «in alcune culture sono presenti ampie finestre di meditazione sull’arbitrarietà degli elementi culturali che permettono di compiere scelte, decisioni e tagli con maggior consapevolezza e, talvolta, di mettere in discussione codeste scelte e di aderirvi con maggior distacco. Una delle dimensioni principali del rito, accanto a quella di sancire pubblicamente le transizioni sociali, è quella di plasmare la soggettività degli esseri: nella maggior parte dei riti di iniziazione i soggetti vengono spinti a deporre il loro habitus e a vagliare criticamente la loro società. Questi atti meditativi sono indirizzati ad incentivare la formazione di uno spirito critico relativo alla società e all’ambiente e permettono ai soggetti di prendere coscienza della finzione che sta dietro ogni modello di umanità» (p. 52).
Antropologia dei clown si concentra poi su quella che Turner definisce la “fase liminale” del rito. Secondo l’antropologo inglese è in questa fase che i novizi hanno la maggiore possibilità di manipolare i fattori dell’esistenza: «lo spazio-tempo liminale può essere inteso come una dimensione in cui si potrebbe verificare la nascita di nuovi modelli culturali; esso rappresenta il “vivaio della creatività” di ogni civiltà poiché la sua attività principale consiste nella «scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o “ludica” dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile» (pp. 52-53).
Turner (Dal rito al teatro) sostiene che prima della rivoluzione industriale, in diverse culture, il termine “lavoro” veniva utilizzato anche per definire l’attività rituale pur mantenendo una certa distinzione tra lavoro sacro e lavoro profano. In entrambi i casi era presente una componente ludica poi negata dalla separazione tra tempo di lavoro e tempo ludico prodotta dall’avvento dell’industrializzazione. «Questa divisione è stata determinata dalla razionalizzazione del lavoro messa in atto dal capitalismo che lo ha distinto dal resto delle azioni umane, successivamente relegate nella sfera del tempo libero. […] La mercificazione dello svago ha causato delle serie ripercussioni sugli spazi ludici e rituali: quando i mondi soggiuntivi, un tempo creati direttamente dai lavoratori nei momenti di svago, iniziano ad essere ideati dal sistema stesso in una versione leziosa e posticcia – di cui Disneyland è uno tra i tanti esempi – l’adesione al sistema egemone sarà totale e scomparirà qualsiasi chance di cambiamento» (p. 61) A questo punto Nivolo, riprendendo in particolare le teorie di Donald Woods Winnicot (Gioco e realtà), propone di ampliare il nesso tra rito e gioco che si ha nell’ingresso in un mondo soggiuntivo, al fine di introdurre la figura del pagliaccio indagata in questo suo saggio.
Nella seconda parte del testo – Movimento II – l’autore ricostruisce dapprima la figura del clown nelle sue variabili diacroniche e diatopiche, poi colloca detta figura all’interno dello spazio liminale descritto nella prima parte del volume ed, infine, presenta un’ipotesi di clown-poiesi. La ricostruzione della storia del clown è in buona parte basata sugli studi dello storico Tristan Rémy (I clown. Storia, vita e arte dei più grandi artisti della risata) ampliando però tale analisi ai progenitori dei clown contemporanei non contemplati dallo studioso francese. Prima di ripercorrerla, seppur sommariamente, occorre segnalare le due tipologie di clown prese in considerazione: il “clown bianco” ed il “clown rosso”, (“l’augusto”). Se il clown bianco «è una figura che si lascia maggiormente agire dal sistema culturale egemone, incarnando le caratteristiche della struttura sociale: è serio, arrogante, repressivo ed autoritario, tanto da perdere, in certe circostanze, i tratti della comicità che lo caratterizzano […] il clown rosso impersona il contrario di tutte le caratteristiche del clown bianco» (p. 96). Paul Bouissac (Circo e cultura) sostiene che il clown bianco ha maniere che indicano l’agiatezza sociale e un linguaggio che evidenzia il potere ed il sapere, il clown rosso, l’augusto, mostra invece la sua mancanza di maniere e la sua incompetenza linguista.
Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento nei circhi iniziano ad apparire i primi clown che propongono al pubblico numeri acrobatici eseguiti in maniera maldestra. A partire da metà Ottocento, dapprima in Inghilterra, poi in Francia, compaiono i clown bianchi che miscelano le caratteristiche del pierrot francese, del “clown scespiriano” inglese, del “grottesco” tedesco ed alcuni elementi della commedia dell’arte italiana. Verso la fine dell’Ottocento la comicità del clown bianco inizia ad entrare in crisi; «la pantomima acrobatica prese il posto delle performance clownesche poiché più consona alle intransigenze politiche: essa era infatti unicamente appoggiata ai “funambolismi del corpo” ed era “caratterizzata dal triplo sigillo della forza, dell’agilità e dell’esattezza” a cui si univano la fantasia, l’artificio e l’inganno […] Dopo questo intervallo di transizione comico-acrobatico in cui il clown bianco perse parte delle sue doti umoristiche, alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, fece la sua prima apparizione la figura dell’augusto, detto anche clown rosso» (pp. 83-84). Ben presto i clown bianchi iniziarono a dotarsi di un augusto che facesse loro da spalla ma, col tempo, la figura dell’augusto, grazie anche alla sua maggiore versatilità, si emancipa dal clown bianco ed intraprende una carriera solista fino ad abbandonare il circo per dirigersi verso il teatro ed il cinema. «La comicità del clown bianco era una sorta di parodia della nobiltà settecentesca, che, con il lento scomparire di quest’ultima, si affievolì fino a lasciare il posto a dispotismo e arroganza borghesi. Il clown rosso, invece, nacque come parodia della nuova borghesia nascente e si trovò a fare i conti con il potere repressivo del clown bianco da cui riuscì a liberarsi creandosi solide vie di fuga dal tendone» (p. 100).
«Charlie Chaplin, Buster Keaton, W.C Fields, Roscoe Arbuckle, i fratelli Marx, Stan Laurel e Oliver Hardy furono tra i primi a intercettare questo nuovo tipo di clown al circo e ad esportarlo con i dovuti arrangiamenti nel mondo nascente del cinema» (p. 92). E proprio il cinema, oltre a sganciare la comicità dal “fallimento acrobatico”, secondo lo studioso Matthias Christen, dà alla luce anche la figura del “dark clown”, personaggio che si è sviluppato nel genere horror e che fa leva su paure comuni per spaventare il pubblico. «La ricerca di una tale reazione emotiva ha cancellato dai clown le loro caratteristiche picaresche, lasciando emergere tutta la violenza del secolo che li ha portati alla luce» (p. 93).
Tornando all’augusto, Nivolo sottolinea come questo essere marginalizzato all’interno del circo, possa «essere paragonato ad uno schizofrenico, egli rappresenta quella parte del limite esterno del capitalismo che riesce a mediare il fuori e il suo limite interno in costante spostamento. Il clown, occupando una posizione liminale, vive in stretto contatto con il disordine extraculturale e ciò gli consente, indossato il naso rosso, di far riemergere la schizofrenia del fuori laddove viene rinchiusa nei manicomi, il caos laddove regna l’ordine culturale. In questo modo l’augusto svolge una funzione terapeutica nei confronti dell’audience della società capitalista, simile a quella di clown rituali, tricksters, fools e sciamani» (p. 105).
Il divenire-clown presuppone innanzitutto l’infrazione della gabbia mentale che si è sedimentata nella mente dell’individuo, così da rendere possibile la riconquista dei movimenti del corpo e la loro decostruzione al fine di dar vita ad una nuova fisionomia da mettere in relazione col mondo esterno. Nel saggio si segnala come lo stesso clown Leo Bassi abbia sottolineato l’importanza del corpo e come, in molti paesi europei, esso sia identificato come simbolo di resistenza al potere industriale. «Nel circo gli artisti potevano e possono usare il loro fisico a proprio piacimento, diversamente da quanto accade nelle fabbriche, dove il corpo degli operai è limitato ad una serie di movimenti ripetitivi e funzionali alla produzione. La libertà di utilizzo del corpo da parte dei clown in contrapposizione alla taylorizzazione di quest’ultimo messa in atto dalla società industriale appare con estrema chiarezza nel film Tempi moderni (1936) di Charlie Chaplin» (p. 143). Dunque, sostiene Nivolo, «la clown-poiesi risulta potenzialmente in grado di far approdare al corpo senza organi: a ben vedere trovare il proprio pagliaccio equivale, almeno in parte, a liberare il desiderio dalla macchina sociale […] Il clown […] è in grado di spogliarsi dell’armatura comportamentale, della pelle dell’abitudine, dubitando delle proprie regole d’azione più radicate tanto da riappropriarsi del corpo, contrastando in questa maniera i dispositivi del biopotere […] Il corpo del pagliaccio è predisposto al rovesciamento di ogni scontata logica di reazione agli eventi ed esprime il primo segno dell’anti-strutturalità del suo discorso» (pp. 143-144). Le azioni del pagliaccio possono ingenerare nel pubblico una semiosi in grado di attribuire nuovi significati alla realtà.
Nella terza parte del libro – Movimento III -, dopo una riflessione di carattere metodologico relativa al procedimento di ricerca utilizzato per la realizzazione della cartografia, lo studioso porta il lettore alla Scuola Teatro Dimitri di Verscio in Ticino e mette a confronto le diverse forme di clown-poiesi esaminate nel libro.
Il saggio di Nivolo si conclude – Finale – con alcune riflessioni sull’antropologia del clown volte a fornire un’interpretazione della figura del pagliaccio in grado di sviluppare una lettura critica dell’antropologia stessa. Lungo l’intero libro l’autore ha mostrato come anche all’interno del percorso antropo-poietico capitalista neoliberale, con la sua pretesa di unicità, siano presenti modalità di “costruzione degli esseri umani” capaci di costituire linee di fuga dal sistema egemonico.
Nei suoi studi l’antropologo Remotti ha mostrato come esistano culture contraddistinte dal dubbio circa le modalità con cui si debba plasmare l’essere umano, dunque, a partire da ciò, Nivolo ha inteso individuare alcuni spiragli da cui fare “penetrare la luce del dubbio” anche nell’attuale società contemporanea occidentale così da individuare una linea di fuga dalla gabbia capitalista. A tal proposito il saggio ha evidenziato come «mediante un passaggio per un mondo anti-strutturale e soggiuntivo, caratteristico della fase liminale di molti rituali di trasformazione, si può assimilare il senso delle possibilità e stimolare una serie di meditazioni in grado di scuotere le certezze sistemiche» (p. 214). Nonostante il capitalismo tenda ad inglobare tali spazi sovversivi proponendosi come realizzazione di un’utopia ed imponendo agli individui di non immaginare altro mondo all’infuori di questo, «rimangono in vita alcune importanti brecce sulla liminalità, alternative ai riti, come il gioco e l’arte» (p. 214). Tra le varie forme possibili Nivolo ha scelto la figura del clown al fine di mostrare come questa abbia “il senso della possibilità” e cerchi di restituirlo al pubblico con una messa in scena di “un mondo alla rovescia” «in cui vigono l’arbitrarietà delle norme culturali e una “logica irrazionale” molto simile a quella surrealistica» p. 214).
È a partire da tali premesse che lo studioso ha poi indagato il processo del divenire clown mostrando come questo si incentri «sul dubbio che scaturisce dal fallimento: si deve fallire qualcosa per far ridere» (p. 214). Il fiasco dei pagliacci è potenzialmente in grado di stimolare nel pubblico una riflessione sulla vulnerabilità. La clown-poiesi appare tanto incentivo al fallimento quanto prassi di riappropriazione del corpo. «Il pagliaccio, in questa prospettiva, può essere descritto come colui che, passando per “la vita marginalizzata dell’escluso”, persegue una linea di fuga che lo porta a raggiungere IL piano di consistenza, il fuori di ogni pensiero, regno delle possibilità impossibili. Lì, sul piano di immanenza del desiderio, sul corpo senza organi, il clown mette in atto quella che Deleuze, riprendendo il pensiero di Michel Foucault, definisce “la lotta per una soggettività moderna”, rivendicando il diritto alla differenza, alla metamorfosi e alla variazione […] In questo modo il clown resiste “alle due forme attuali di assoggettamento, l’una che consiste nell’individuarci in base alle esigenze del potere, l’altra che consiste nel fissare ogni individuo a una identità saputa e conosciuta, determinata una volta per tutte” […] Esiste dunque un divenire pagliaccio che consiste nel tracciare delle linee di fuga tali da raggiungere il fuori del pensiero, luogo da cui poter attingere nuove forme, nuovi colori, nuovi significati al fine di ricreare il dentro. Le linee di fuga possono essere intese come “il bordo estremo di un dispositivo”, come linee che segnano “il passaggio da un dispositivo all’altro, preparando così le linee di frattura” […] ovvero come linee che transitano per uno spazio liminale […] In questa prospettiva la clown-poiesi può essere vista come una deterritorializzazione che intraprende una linea di fuga dal territorio del pensiero capitalista neoliberale» (pp. 217-218)
Sia gli esiti dell’uscita dai costumi di cui parla Remotti (“uscire dal solco”, liberarsi dalla parete delle significazioni dominanti e dal buco nero dell’Io) che quelli deleuziani derivati dalla creazione di linee di fuga, risultano potenzialmente rivoluzionari nei confronti dell’ordine costituito. Queste due prospettive, secondo Nivolo, hanno in comune la questione del “nomadismo” e per approfondire il concetto di nomadismo nel clown, il saggio riprende gli studi di Paul Bouissac (Semiotics at the Circus) che ricordano come la nascita del circo abbia a che fare con esigenze di sopravvivenza delle minoranze etniche escluse dai commerci urbani e, nonostante il processo di “istituzionalizzazione” a cui è sottoposto il circo, esistono ancora famiglie circensi nomadi che, grazie a ciò, sono in grado di accumulare un sapere antropologico sulle diverse culture con cui vengono di volta in volta a contatto. La questione del nomadismo consente così di mettere a confronto le due principali prospettive teoretiche utilizzate in questo saggio per analizzare la figura del clown al fine di proporre un’antropologia rizomatica. Attraverso Remotti il clown è stato descritto «come colui che esce dai propri confini culturali ed attinge al senso delle possibilità lì presente proponendosi, di conseguenza, come mediatore tra ordine e disordine, tra dentro e fuori» ed attraverso Deleuze e Guattari, il pagliaccio è stato definito come «un soggetto in grado di crearsi una linea di fuga che gli consente di mantenersi in un costante stato di deterritorializzazione» (p. 222). Si sono così avvicinate «l’antropologia trasversale elaborata da Remotti con i suoi concetti reticolari e le somiglianze di famiglia e la schizoanalisi ideata da Deleuze e Guattari, caratterizzata dal concetto di rizoma» (p. 222). È attraverso questo confronto che Nivolo giunge a proporre la sua idea di antropologia rizomatica.
Linee di fuga: serie completa