di Fabrizio Lorusso
[A due anni dalla “notte di Iguala”, nello stato messicano del Guerrero, e dalla sparizione forzata di 43 studenti della Scuola Normale “Raúl Isidro Burgos” di Ayotzinapa pubblichiamo il prologo al libro 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos, AA.VV. (traduzione all’italiano di Lucia Cupertino), Ed. Arcoiris, 2016, p. 216, 12 €]
Nella notte tra il 26 e 27 settembre 2014 quarantatré studenti della Scuola Normale Rurale “Raúl Isidro Burgos” di Ayotzinapa, nel meridionale stato messicano del Guerrero, furono sequestrati dalla polizia locale dei comuni di Iguala e Cocula e consegnati a un gruppo di presunti narcotrafficanti dell’organizzazione dei Guerreros Unidos. Da allora i giovani risultano desaparecidos e gli inquirenti non hanno saputo offrire versioni plausibili sull’accaduto. In questi mesi l’azione di esperti autonomi, degli attivisti e di alcuni giornalisti, spesso osteggiati dalla Procura, dal Governo e dai mass media allineati, ha permesso all’opinione pubblica e ai genitori dei ragazzi di ottenere dati preziosi che hanno sconfessato la cosiddetta “verità storica” sul caso, offerta dall’ex procuratore generale Jesús Murillo Karam nel gennaio 2015 e basata su testimonianze di presunti delinquenti estorte con la tortura. Secondo la Procura i ragazzi sarebbero stati rapiti e poi bruciati dai narcotrafficanti per oltre quindici ore nella discarica di Cocula e i loro resti sarebbero stati gettati nel vicino fiume San Juán. L’opera di controinformazione e di ricerca indipendente, in particolare le indagini dell’EAAF (Équipe Argentina d’Antropologia Forense) e del GIEI (Gruppo Interdisciplinare di Esperti Indipendenti della Commissione Interamericana dei Diritti Umani), ha smentito parti sostanziali di questa narrazione e ha mostrato le numerose contraddizioni e la malafede delle autorità nell’investigazione del caso. Sono state messe in evidenza la presenza e le responsabilità dell’esercito e della polizia federale nell’accaduto.
Invece la versione governativa, sorretta da campagne mediatiche che discreditano i ragazzi, i loro cari e la società che chiedeva giustizia e verità, pretendeva di ridurre l’accaduto a un episodio “locale”, limitato solo a pochi poliziotti e politici corrotti. Al contrario gli apparati pubblici coinvolti a vario titolo sono diversi e la notte del 26 settembre s’è svolta una vera operazione repressiva complessa e articolata di persecuzione contro un gruppo di studenti inermi. È stata anche rivelata la presenza di un autobus, tra quelli che i ragazzi avevano occupato e sottratto ai conducenti, che probabilmente era carico di eroina. Un attacco così spietato e prolungato, conclusosi con la cattura dei 43 e con la loro sparizione, potrebbe essere stato motivato dal timore di perdere il prezioso carico, la cui presenza ignoravano i normalisti. Iguala è uno degli hub del cosiddetto pentagono dell’oppio dello stato del Guerrero, una regione tra le prime al mondo per le coltivazioni di amapola o adormidera, cioè di papavero da oppio. Il cartello di Sinaloa, capeggiato da Ismael “El Mayo” Zambada e Joaquín “El Chapo” Guzmán, che attualmente è incarcerato in un penitenziario di Ciudad Juárez, sta infatti spingendo nel mercato statunitense l’eroina color caffè e la bianca, sostituendo la tradizionale di color marrone scuro. I messicani stanno facendo concorrenza direttamente agli importatori asiatici di eroina bianca, molto apprezzata sulla costa est, e, in questo contesto, Guerrero e il Triangolo d’Oro, un’area appartenente agli stati del Durango, del Sinaloa e del Sonora, sono territori strategici. Gli esperti internazionali del GIEI hanno investigato sul caso per un anno.
Il 30 aprile 2016 è scaduto il loro mandato e il governo del presidente Enrique Peña Nieto ha deciso di non rinnovarlo. La loro presenza è diventata scomoda perché con le loro scoperte hanno sostenuto la lotta dei genitori degli studenti e dei movimenti sociali nazionali e globali, denunciando le omissioni e le responsabilità dello Stato messicano in quello che si può configurare come un delitto imprescrivibile di lesa umanità. “Vivos se los llevaron y vivos los queremos” (“Vivi li hanno portati via e vivi li rivogliamo”), continuano a gridare il 26 di ogni mese i familiari delle migliaia di vittime di desaparición, i genitori di Ayotzinapa, i collettivi e i cittadini solidali nelle piazze del Messico. Chiedono giustizia e verità. A quasi due anni dalla “notte di Iguala” è chiaro che il caso dei normalisti di Ayotzinapa rappresenta solo la punta di un iceberg. Nell’ultimo decennio regioni come Guerrero, Veracruz, Tamaulipas, Chihuahua, Nuevo León, Coahuila, Estado de México e Michoacán, solo per citare alcuni esempi emblematici, si sono trasformate in immense fosse comuni, depositi clandestini di ossa e cadaveri di persone che non verranno mai identificate a causa dell’inerzia delle istituzioni. Non a caso queste zone corrispondono a snodi in disputa tra varie organizzazioni criminali, a punti di passaggio strategici dei traffici di droghe, armi e persone, a focolai di resistenza popolare o a territori ricchi di biodiversità e risorse naturali il cui sfruttamento è ambito da imprese multinazionali.
Quando una persona è sequestrata e viene “fatta sparire”, sono i suoi familiari che devono provvedere da soli alle ricerche, osteggiati da autorità indolenti, se non proprio conniventi con i perpetratori del crimine. Solo da alcuni anni, in particolare dopo la nascita del Movimento per la Pace con Giustizia e Dignità del poeta Javier Sicilia nel 2011, le vittime del conflitto interno messicano, della militarizzazione della sicurezza e della cosiddetta “guerra alle droghe”, che in realtà è una guerra alla società stessa, sono riuscite faticosamente a ritagliarsi uno spazio nel dibattito pubblico, a rendere visibile la tragedia nazionale della violenza e a organizzarsi efficacemente per smorzare dolori e solitudini, incontrarsi, fare comunità e lottare insieme per la verità. Grazie ai loro sforzi è stata approvata una “Legge delle Vittime”** che, all’atto pratico, non ha funzionato per mancanza di fondi, coordinamento e volontà politica per cui è ancora in corso una battaglia per riformarla e renderla operativa. Le istituzioni che ha creato sono solo l’immagine sbiadita di quello che prevede il suo testo e che la società civile esige. Un’altra legge importantissima, quella sulle sparizioni forzate, è ancora in discussione e gli sforzi della società civile organizzata si concentrano dunque su quest’iniziativa. Ciononostante anch’essa rischia di venire sterilizzata da veti e postille che, insieme alle croniche limitazioni del budget, puntano a limitare le responsabilità degli apparati dello Stato nelle desapariciones.
[Tramonto domenicale semidesertico. Mi trovo nel zocalo, la piazza centrale, della città di León, nello stato del Guanajuato e osservo i cartelli e i poster disposti per terra da uno sparuto gruppo di attivisti. Una madre tiene per mano la sua bambina, che avrà dieci anni, e s’avvicina all’immagine in primo piano di Jhosivani Guerrero de la Cruz, studente desaparecido di Ayotzinapa. Suggestionata, forse spaventata, dalla sequenza grafica dei ragazzi davanti ai suoi occhi, la bimba chiede a sua madre: “Mamma, ma perché lì dice che sono desaparecidos, cos’hanno fatto?”. “Li han fatti sparire perché facevano i rivoluzionari”, è stata la risposta. Secca, cinica, magari preoccupata di non saper spiegare una realtà terribile alla sua figlioletta, o semplicemente male informata e pregiudiziosa, la signora con le sue parole è uno spaccato della società, almeno di quei settori disinformati e negazionisti che ne formano il nocciolo duro, specialmente fuori dai grandi centri urbani. Sono tantissime le persone che ancora oggi, per esempio, negano o minimizzano la realtà delle sparizioni forzate, non riconoscono il ruolo della forza pubblica in questi crimini, ignorano le cifre ufficiali e sono convinte che a loro non potrà mai succedere una cosa del genere e che le vittime siano sempre legate al mondo del crimine. “Se sono desaparecidos, avranno qualcosa a che fare coi narcos, se non ti metti nei guai, qui non ti capita niente”, sostengono…].
La sparizione forzata di persone in Messico, come in molti altri Paesi dell’America Latina, è una pratica che risale per lo meno agli anni sessanta e settanta del secolo scorso. La guerra sucia, o guerra sporca, condotta da alcuni apparati dello Stato, specialmente dalle forze armate, si rivolgeva contro i militanti dei movimenti popolari e d’insurrezione armata, oltreché contro la popolazione comune, che rivendicavano una maggiore giustizia sociale e una democratizzazione del sistema. Così l’assassinio politico, la desaparición, la tortura, il genocidio e l’annichilamento delle comunità hanno configurato una strategia repressiva ben definita. Guerrero, stato dalle profonde radici contadine e indigene e dalle enormi disuguaglianze sociali, ha prodotto numerosi movimenti guerriglieri e nelle sue montagne ci sono le forze armate che storicamente hanno gestito la controinsurrezione.
Il maestro rurale Lucio Cabañas, fondatore del gruppo armato Partido de los Pobres (Partito dei Poveri), venne ucciso nel 1974 in uno scontro coi militari e divenne una figura d’ispirazione per le lotte contadine e sociali. Aveva studiato proprio nella scuola di Ayotzinapa. Tanti suoi compagni non morirono sul campo di battaglia, ma furono sequestrati e non si seppe più nulla di loro. Sono tuttora desaparecidos. La sparizione forzata non significa la morte, ma nemmeno la vita. Significa sospensione, un limbo della memoria e della disperazione, dell’oblio e della ricerca. Vuol dire paura, strategia del terrore, distruzione del tessuto sociale. E questo male assoluto non può far altro che servire agli interessi di un meccanismo perverso e complesso, a volte criptico e altre chiaro, ma comunque potente, cinico ed efficace. Il potere dell’oppressione e dell’economia depredatrice, la riproduzione dello status quo, la spoliazione dei territori e delle culture, il monopolio politico dell’élite e l’ideologia della guerra, sia essa “fredda” o “calda”, “guerreggiata” o di “bassa intensità”, ne oliano gli ingranaggi. Dopo la caduta del muro di Berlino, con la presunta e declamata fine delle ideologie e della storia, la guerra sporca s’è riconvertita e modernizzata nel contesto della globalizzazione e di un conflitto interno messicano sempre più complesso e sanguinario.
La narcoguerra o guerra alle droghe e al narcotraffico ha sostituito la lotta contro il “pericolo rosso” e rappresenta un asse di legittimazione per politiche pubbliche, retoriche governative e campagne elettorali dal trasfondo bellicista. Ma i risultati, al di là dei falsi successi millantati di volta in volta dal presidente di turno, sono sempre gli stessi: carriere armamentiste, violenza, corruzione, crescita e sofisticazione del business degli stupefacenti e di altre attività criminali “collaterali”, impunità e controllo autoritario delle domande sociali. Nel frattempo le droghe e i narcocapitali inondano i mercati dei Paesi consumatori mentre le decine di migliaia di morti e le briciole della catena del valore del narcotraffico restano a Sud. Nel solo Messico le vittime della narcoguerra sono oltre 150.000 in un decennio e qualunque tipo di droga, naturale o sintetica, costa meno di prima. Col tempo il fenomeno della desaparición ha assunto proporzioni catastrofiche. Negli ultimi dieci anni il numero dei desaparecidos nel Paese ha superato quota ventottomila e oggi la desaparición forzada risponde a una molteplicità di fattori, al di là di quelli tradizionali di tipo politico. Le persone sono sequestrate e “fatte sparire” anche solo perché si trovano nel posto e nel momento sbagliato oppure perché difendono la loro terra e organizzano la popolazione. O perché transitano in una zona che è in mano alla criminalità organizzata e la polizia collabora o è al soldo di questa.
Ci sono ipotesi che provano a inquadrare la sparizione forzata come strategia di spopolamento delle regioni ad alta densità di risorse naturali o sostengono l’esistenza di un reclutamento coatto di manovalanza criminale da parte dei cartelli della droga che, per esempio, hanno bisogno di figure specializzate come i tecnici informatici e delle telecomunicazioni. Ad ogni modo in tutti questi casi si parla di desaparecidos in quanto c’è una partecipazione diretta o un’omissione di azioni preventive e di tutela da parte dello Stato che diventa quindi artefice o complice di questo crimine ignobile. Il tasso d’impunità dei delitti in Messico s’aggira intorno al 97% e la corruzione è endemica a tutti i livelli. La narco-politica caratterizza e definisce l’incipiente democrazia messicana nel secolo XXI. In questo contesto è triste ma realista affermare che l’escalation della violenza e delle sparizioni forzate avviene semplicemente perché è possibile che avvenga. Cioè la possibilità di delinquere e, semplicemente, farla franca perché mai si verrà catturati o condannati, o perché in ogni caso è possibile corrompere le autorità, rappresenta la norma, anche in caso di reati gravissimi. La protezione garantita da alcuni funzionari pubblici a certe organizzazioni criminali o il loro diretto coinvolgimento nei business illeciti è la cartina al tornasole di questo patto d’impunità. Oggi, come quarant’anni fa, Guerrero, in particolar modo la zona della tierra caliente, che è il cuore delle coltivazioni illegali, soffre un’endemica crisi umanitaria ed economica. La sua città principale, Acapulco, è stata negli ultimi anni la capitale mondiale dell’omicidio, con tassi di violenza altissimi. Si tratta di uno degli stati più poveri del Messico, sempre agli ultimi posti delle classifiche relative agli indici di povertà, disuguaglianza socioeconomica e sviluppo umano. In questo contesto le mattanze, i crimini e persecuzioni della notte di Iguala possono ripetersi con logiche e risultati simili, come in effetti è successo, e non solo nel Guerrero.
A Iguala, pochi giorni dopo il 26 settembre 2014, è nato il Comitato di Ricerca de Gli Altri Desaparecidos (Los Otros Desaparecidos), attivo ancora oggi. A partire proprio dalle ricerche degli studenti desaparecidos nelle colline tutt’intorno alla città, s’è creato un movimento di familiari che dapprima ha cominciato a riunirsi, poi ad aiutare concretamente la UPOEG (Unione dei Popoli Organizzati dello Stato del Guerrero), che aveva organizzato delle squadre per trovare i giovani ancora in vita, e infine a formare le proprie brigate per disseppellire le centinaia di corpi e di resti rinvenuti mano a mano nei dintorni. Non si trattava più esclusivamente di cercare i 43, dato che il problema era molto più grave: l’intera zona era disseminata di fosse clandestine e ossa umane. I 43 non sono stati ancora stati ritrovati, e nemmeno i loro resti, salvo quelli di uno di loro, Alexander Mora Venancio, identificato con l’esame del DNA. Ma grazie al rischioso ed estenuante lavoro dei Los Otros Desaparecidos tante famiglie di Iguala hanno ottenuto risposte circa il destino dei loro cari scomparsi. Risposte che in tanti anni nessuno, né gli inquirenti né le istituzioni, aveva voluto o potuto dare. Perché offrire spiegazioni sul caso di un desaparecido potrebbe significare la assunzione di responsabilità enormi, per cui lo Stato dovrebbe ammettere d’essere coinvolto, d’essere parte in causa, e processare se stesso in qualche modo. In altri casi, invece, la procurazione di giustizia e le polizie, le agenzie per le indagini e i pubblici ministeri sono inerti, disfunzionali o privi di risorse e tecnologie. Avere un caso di desaparición in famiglia implica portare una croce, sopportare uno stigma sociale, affrontare l’isolamento e addirittura minacce, insomma vuol dire essere vittima due, tre, quattro volte.
La scelta alternativa, altrettanto amara, è far finta di dimenticare, smettere di cercare, rassegnarsi e provare a condurre di nuovo una vita “normale”. Il progetto collettivo e itinerante Orme della Memoria (Huellas de la Memoria), ideato dall’attivista e scultore Alfredo López Casanova, punta esattamente al contrario: registrare i passi dei familiari dei desaparecidos che hanno camminato per anni di comunità in comunità attraverso una stampa delle suole delle loro scarpe, che hanno incise frasi in rilievo dedicate ai cari scomparsi. La stampa su carta dei dati dei desaparecidos e delle espressioni d’affetto dei loro familiari viene realizzata con inchiostro color verde-speranza. Ma alcune incisioni sono di colore rosso, quando i resti della persona scomparsa sono stati rinvenuti e identificati, o nero, quando chi la stava cercando muore durante le ricerche o per malattie contratte durante anni di dolore e spostamenti.
Ciclicamente le cronache dei quotidiani europei riportano i nomi di villaggi e comunità messicane, spesso difficili da pronunciare o anche solo da memorizzare, dove sono avvenute terribili stragi, esecuzioni extragiudiziarie, violazioni di massa ai diritti umani, 15 sparatorie, repressioni della protesta sociale, abusi delle forze di polizia e dei militari, oppure regolamenti di conti, occupazioni, spoliazioni e sequestri da parte della criminalità organizzata. Ayotzinapa, Tlatlaya, Apatzingán, Acteal, Aguas Blancas, Tetelcingo, Temixco, Iguala, Tepalcatepec, San Fernando, Pasta de Conchos, Atenco, Oaxaca, San Juan Copala, La Realidad, Topo Chico, Pajaritos, Wirikuta: sono solo alcune località tristemente note in terra azteca, probabilmente meno in Italia. I luoghi si dimenticano e sono pochi i media che dedicano uno spazio alla riflessione su un problema grave e strutturale: la provenienza delle armi in possesso dell’esercito e delle narcomafie in Messico. Queste arrivano in gran parte dagli Stati Uniti e dall’Europa, cioè dalle regioni che più ricevono e riciclano i narco-capitali e che più consumano le droghe prodotte, o in transito, nei Paesi latinoamericani. Grazie agli esborsi dell’erario pubblico messicano e al contrabbando gli stati più conflittuali e socialmente diseguali, come Guerrero e Chiapas, sono invasi da armi di alto calibro che servono a uccidere e a far sparire migliaia persone, senza tregua e calcolatamente, come nel caso dei 43 studenti.
I fucili tedeschi G36 della Heckler & Koch, azienda leader mondiale nella produzione di armi da fuoco, sono passati facilmente dalle mani delle polizie del Guerrero a quelle dei cartelli della droga locali, malgrado esista un divieto legale di esportare armamenti negli stati in cui si violano i diritti umani. Anche per questo, sebbene siano concentrate nel Sud del mondo, le mattanze, come quella di Iguala, e le vittime dell’ipocrita narcoguerra, iniziata dall’ex presidente americano Richard Nixon e portata avanti dai vassalli di Washington in America Latina, come il colombiano Álvaro Uribe e i messicani Felipe Calderón e Enrique Peña Nieto, ci riguardano da vicino, direttamente, senza scuse. La società tedesca, e anche una parte del mondo politico, ha mostrato il suo sdegno per la situazione e ha dato alcuni segnali, per lo meno a livello diplomatico, economico e nelle piazze.
Peña Nieto viene dichiarato persona non grata da collettivi e importanti associazioni, ma non dai governi e dall’Unione Europea, che indugia, ammaliata 16 dalle promesse dell’apertura del settore energetico messicano. E il presidente del consiglio italiano Matteo Renzi, dal canto suo, ostenta vergognosamente una reverenza e una spregiudicata vicinanza con “l’amico Enrique” ad ogni incontro ufficiale, senza mai menzionare la grave crisi ed il conflitto in corso in Messico. A livello mondiale le iniziative, dentro e fuori dalle Giornate Globali per Ayotzinapa realizzate nel 2014 e 2015, sono state tante che è impossibile ricordarle tutte. Il libro 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos, nell’ottima traduzione in italiano di Lucia Cupertino, ha accompagnato in Messico, e di certo lo farà in Italia, l’ondata di protesta, rabbia, soli-darietà e unione che ha coinvolto migliaia di militanti, specialmente negli ultimi due anni, dopo Ayotzinapa. È grazie ai progetti culturali, ai romanzi, alle cronache, ai documentari, ai flash mob, ai dipinti, alla street art, alle opere teatrali e, senza dubbio, è grazie a queste poesie, composte da poeti messicani, spagnoli e sudamericani, che i riflettori non verranno spenti e che possiamo dire “Ayotzinapa somos todos”. Ayotzinapa siamo tutti affinché la memoria sia collettiva e così sopravviva, si rinnovi e fruttifichi.
“43 poeti per scacciare la morte, per dar sfogo a una indignazione vitale. La poesia come una affermazione, sono qui, sono con te, sono per tutti. Dove tutti significa molte persone, tutte le vive, tutte le sparite, tutte le torturate, tutte le assassinate di questo Messico contemporaneo, immerso in una guerra contro i poveri, contro chi si sente sicuro di fare il proprio dovere, contro chi vuole essere libero. Molte di più dei 43 studenti desaparecidos dall’esercito, la polizia e i narcotrafficanti ad Iguala la notte tra il 26 e il 27 settembre 2014. Però quei 43 ragazzi risvegliano la poesia: sono stati trasformati dal desiderio popolare di mettere fine alla violenza di stato e della delinquenza (nessuno sa dove finisce una e comincia l’altra) in semi di speranza”. (dalla postfazione di Francesca Gargallo)
Nota.
**In spagnolo Ley General de Víctimas. È la norma approvata nel 2013 come risultato di una grande mobilitazione sociale contro la narcoguerra e la violenza, iniziata nell’aprile di due anni prima, e di un parallelo processo legislativo durante i mandati presidenziali di Felipe Calderón, fino al novembre 2012, e di Enrique Peña Nieto, nei due mesi successivi. La Legge, sulla carta, prevede l’identificazione delle tipologie di vittime e i loro diritti, la creazione di istituzioni specifiche di supervisione, vigilanza e implementazione dei programmi in favore delle vittime della violenza, fonda l’anagrafe nazionale delle vittime e prevede un fondo di aiuto e riparazione del danno.
Iniziative per i 24 mesi dalla desaparición dei 43 studenti: hashtag #Ayotzinapa243
Speciale Ayotzinapa dos años: Desinformémonos
Notte di Iguala video e documenti, timeline: link 1 Link 2
Articolo 26-27 settembre da Città del Messico link
Tre poesie dal libro
Briceida Cuevas Cob _____________ Maya, Messico
MESE XUUL (DAL 24 OTTOBRE AL 12 NOVEMBRE)
I
Questa volta il lumino dell’attesa si consuma dinnanzi al dubbio.
Questa volta i tuoi antichi defunti sono giunti e non c’eri in casa.
Eri alla ricerca dei vivi tra i morti.
(Vennero a cercarti e ti trovarono col tuo altare ambulante
ad issare volti reiterati di giovani amati).
Da allora
alla marcia per la giustizia e il ripudio
si sono unite le anime degli altri morti.
E non se ne andranno fino a quando non li troveranno vivi.
II
In questo mese di convivenza coi morti,
il forno in terra cruda per cuocere grandi tamales*
ti ricorda
che la morte giunge
dai quattro punti cardinali.
Ma l’odore della morte che ti circonda non viene da quelle parti.
Ha cancellato la sua traccia.
III
A lungo ti domandi:
“Se all’ottava del giorno dei morti tornano gli impiccati,
quando verranno i vivi incinerati?” Neghi a te stessa quest’idea
E intraprendi la ricerca
in valli, fiumi, guazzi, montagne, fosse clandestine
con una piccola luce che si è moltiplicata attraverso le voci d’altri:
“Vivi li hanno portati via,
vivi li rivogliamo”
IV
Le foglie del fior di morto**
non bastano a curare la ferita
quando profonda è la radice del dolore.
Lo sai perché sono trascorsi più di 43 giorni.
E ogni giorno che passa scava una palata di angoscia nella fossa
aperta del tuo cuore.
Preghi.
Mentre sopporti le burle del potere
sfogli il fior di morto;
Interroghi ogni petalo marcito:
Vivono…? Non vivono…?
E a ogni domanda senza risposta si sfoglia la tua anima.
Il fiore che si porge ai defunti durante la Festa dei Morti
*Piatto tipico amerindio costituito da massa di mais ripiena di carne e verdure, che viene avvolta in foglie di banana, mais e simili per poi essere cotta (NdT).
**(nome scientifico: Tagetes erecta, anche detto in nahuatl Cempohualxochitl, Venti fiori). In diverse zone del Messico la pianta è inoltre usata come rimedio medicinale in varie situazioni di malessere, includendo alcune considerate culturali, come paura e spavento (NdT).
Juan Campoy _____________ Spagna
AYOTZINAPA
Erano il miglior raccolto del Paese,
una generazione di pensatori liberi,
la speranza di un popolo.
Ma il potere appesta
e va marcendo
fino a servire d’adorno
negli uffici.
Tutto ciò che poteva essere orizzonte,
un cielo libero fecondato di vita,
non era nient’altro che una pagina
archiviata in uno scantinato buio.
43 voci con faccia e nome
disposti ad essere concime nel campo,
viveri sul tavolo dei poveri,
vaccino miracoloso
contro la febbre nera del lebbroso,
43 poesie
contro la longitudine vertiginosa
di una sferza o di una sciabola.
Erano il miglior raccolto del Paese,
però hanno lasciato solo equazioni
irrisolte,
verbi e aggettivi contro l’inverno0
e il suo bacio mortale,
così riga
dopo riga hanno scagliato metafore
contro l’iniquità
insopportabile dei genocidi.
Forse li colsero distratti,
o forse avevano troppa fiducia
nei pilastri basilari della loro fede.
Spaccati in pronomi,
il campo è rimasto seminato di ossa.
Patricia Olascoaga _____________ Uruguay
La morte ci sorprende ad ogni semina
con le braccia aperte all’aria.
Quarantatré sono state
le bocche a gridare la denuncia e l’utopia,
fors’è per questo,
le labbra aperte nei baci
giovani bocche ancora senza crepe d’odio,
sogni nuovi.
Fors’è per questo.
Quarantatré sono stati
i corpi a camminare lungo una strada in discesa,
quarantatré e non sono tornati.
La morte ci sorprende ad ogni semina
senza un luogo dove piangere i morti.
Assalto a mano alzata, zampata feroce:
non gli è bastato rubare la vita di quei corpi
incenerire i volti ormai inespressivi,
dovevano anche rubare i loro corpi dalla sepoltura
i loro nomi alle presenze
le loro lacrime al pianto delle loro madri.
Fors’è per questo,
quarantatré giovani bisognerà partorire oggi
come impotenza o ribellione o omaggio.
Partorirli ogni giorno nel ricordo e nel verso
e repellere l’oblio
e maledire quarantatré volte,
come uno scongiuro e una supplica
quando si lancia il chicco nell’aria ad ogni semina,
quarantatré giovani nella terra.