di Paolo Lago
Carla Benedetti, Maurizio Bettini, Oracoli che sbagliano. Un dialogo sugli antichi e sui moderni. Modi di pensare e di agire che crediamo superati ma che hanno ancora un valore per noi oggi, Effigie Il Primo Amore, Milano, 2016, pp. 194, euro 12,00
Da un punto di vista formale, l’aspetto sicuramente più interessante di Oracoli che sbagliano è la veste dialogica: il dialogo, come si sa, è una forma letteraria utilizzata, soprattutto nell’antichità, per disquisire attorno alle tematiche più svariate, siano esse di natura filosofica o politica (basti solo pensare ai Dialoghi di Platone), letteraria o scientifica. Niente di meglio di un dialogo perciò, per disquisire e riflettere su cosa ancora possiamo assimilare del mondo antico in un’epoca ‘di angoscia’ come la nostra. Il libro è infatti costituito da un lungo dialogo che si dipana attraverso temi e problemi della società contemporanea messa a confronto con quella antica: i due dialoganti sono Carla Benedetti, studiosa di letteratura moderna e contemporanea e Maurizio Bettini, antropologo e studioso di letterature classiche, i quali hanno deciso di pubblicare i loro dialoghi svoltisi nell’autunno del 2013 all’Università di Berkeley, in California.
Durante una presentazione del libro assieme a Bettini, lo scorso luglio a Livorno nell’ambito di Eden. Parole e musica alla Terrazza Mascagni, Benedetti afferma che la nostra è un’epoca segnata dall’instabilità, dal terrorismo, dalle guerre, dalle migrazioni. Le sue parole, nella quiete della terrazza Mascagni affacciata sul mare e avvolta in quel momento da un magico, lunghissimo tramonto, risuonano come omina inquietanti: di fronte a noi, infatti, c’è lo spettro concreto di un pianeta che, a causa dello sfruttamento indiscriminato delle materie prime, diventerà inabitabile; viviamo in un’epoca storica molto particolare che ha superato la modernità e tutti i suoi presupposti di pseudo sicurezza. In questo nostro navigare a vista in mezzo alla nebbia si pretende di spiegare tutto il mondo attraverso l’economia.
Gli oracoli che sbagliano sono i nostri economisti che pretendono di interpretare il mondo esclusivamente attraverso la lente dell’economia. Come afferma Maurizio Bettini durante il dialogo «quello del mercato è diventato un modello cognitivo primario»: tutto è misurato attraverso un filtro economico e produttivo, perfino la cultura e il sapere. L’introduzione nelle università di termini come «prodotti», «crediti», «debiti», la stessa «valutazione» universitaria (che, non a caso, deriva da valuta) e, si potrebbe aggiungere, anche quella scolastica, divenuta tale per mezzo di una recente riforma ricalcata su un modello aziendale e manageriale: tutto è improntato a un modello economico. Come amaramente dice Benedetti, in ambito accademico non viene premiata l’originalità, ma solo la riproduzione dell’esistente, poiché «viviamo in una società che premia il conformismo» (p. 127). Del resto, l’ostentata ‘economizzazione’ del mondo era stata già rilevata da uno studioso del calibro di Serge Latouche, teorico della decrescita; infatti, durante un incontro con Anselm Jappe (recentemente tradotto in italiano per Mimesis: A. Jappe, S. Latouche, Uscire dall’economia), Latouche affermava che l’economia ha sostituito la religione come immaginario dominante nella nostra epoca: oggi sono le banche a dominare le città, non più certo le chiese. La stessa equiparazione dell’economia alla religione viene attuata da Benedetti e Bettini: come in epoca antica ci si affidava agli oracoli divini, così adesso ci si affida alle previsioni e alle analisi degli economisti («Il linguaggio dell’economia è oggi dilagante, ha invaso molti ambiti sociali e di lavoro, e ormai, come dicevamo, viene usato per descrivere molti fenomeni del mondo contemporaneo. E poiché tu non capisci bene i meccanismi dell’economia, tutte queste metafore infondono passività. Erano meglio gli dèi, davvero!», Benedetti, p. 129).
Il dialogo fra i due studiosi procede attraverso temi e concetti che investono nel profondo la società contemporanea. Si comincia col concetto di metamorfosi: mentre per la società antica la metamorfosi era possibile, perché il divino e la magia le lasciavano uno spazio (basti pensare alle Metamorfosi di Ovidio ma anche ai numerosi sogni di metamorfosi raccolti nell’Oneirocritica di Artemidoro), per noi la metamorfosi è esclusa, abbiamo un’idea dell’umano molto più fissa e chiusa di quella degli antichi. Benedetti cita il pensiero dell’astrofisico Stephen Hawking, secondo il quale, «l’aggressività, che è inscritta nel DNA umano, ci porterà a guerre nucleari e a un’inevitabile distruzione dell’habitat. L’unica cosa che possiamo sperare è che nel frattempo – nel poco tempo che ancora ci resta prima della catastrofe – le nostre conoscenze scientifiche e tecnologiche progrediscano al punto da permetterci di scoprire e colonizzare altri pianeti» (p. 16); infatti, «l’idea che si possano cambiare certe strutture mentali, o quanto meno modificarle, correggerle, non sfiora neppure la mente. In questo crederci destinati alla fissità dell’umano così come noi lo conosciamo o crediamo di conoscerlo, la metamorfosi è esclusa» (p. 17).
Legato alla metamorfosi è lo stesso concetto di natura umana: come afferma Bettini, è assai importante quel processo «a cui ogni studioso dovrebbe sottoporre prima di tutto se stesso, e poi anche l’oggetto dei propri studi, che si chiama de-naturalizzazione dei pregiudizi. Mi correggo, non solo gli studiosi, ogni persona che crede nel pensiero critico dovrebbe farlo. Perché il meccanismo contrario, ossia la naturalizzazione del pregiudizio, è una delle componenti più attive nelle costruzioni culturali» (p. 17). Quelli che vengono definiti come naturali sono in realtà dei comportamenti derivati da costrutti culturali canonizzati dalla tradizione: perché, ad esempio, si dovrebbe pensare che l’Africa, perché più economicamente arretrata, sia più vicina alla «natura» rispetto all’Europa? Oppure che l’omosessualità sia contro natura?
Un altro concetto assai importante è quello di identità: nelle società moderne e contemporanee gli individui sono ‘schedati’ e controllati attraverso il meccanismo della carta d’identità; in latino classico, come ricorda Bettini, non esiste la parola identità: ci sono cognitio o notitia, ma sono termini che designano l’essere riconosciuti da altri (in quanto posseggono in sé la radice di nosco, «riconoscere»), non un qualcosa di proprio e personale che ci si porta dentro. Si pensi all’Amphitruo di Plauto, in cui il servo Sosia si ritrova di fronte a un suo doppio (in quanto Mercurio ne ha assunto le sembianze): il suo pensiero scivola subito nell’idea che qualcuno lo abbia trasformato, non che abbia perso la propria identità. Presso gli antichi, perciò, l’identità personale era più fluida rispetto alla modernità, in cui ogni individuo appare incasellato rigidamente all’interno di meccanismi identitari, come nella società disciplinare delineata da Michel Foucault. Addirittura, oggi le identità vengono costruite dall’esterno a uso e consumo del turista: Benedetti afferma infatti che i Dogon, come scrive Marco Aime nel suo saggio Diario Dogon, hanno assunto un’identità imposta loro da un antropologo francese, Marcel Griaule, che ne Il Dio d’acqua, li fa apparire come dei filosofi delle caverne, dediti all’osservazione del cielo e dell’universo. Vengono ripresi dei tratti che sono poi consegnati all’immaginario collettivo: sono proprio questi tratti caratteriali che il turista si aspetta quando si reca in Mali per visitarlo. Si tratta di stereotipi culturali, causati dalla massificazione che investe la contemporaneità: come quando il turista va a Venezia – aggiunge Bettini – e si aspetta di trovare il gondoliere vestito in un certo modo, il quale deve cantare un certo tipo di canzoni, canzoni che poi, molto spesso, sono napoletane. Lo stesso Bettini racconta di un suo viaggio in Arizona, a Tombstone, dove si svolse la famosa sfida all’O.K. Corral: «Vi si incontrano uomini che si aggirano indossando enormi cinturoni, pistole e cappelli altrettanto enormi, perché i turisti non hanno nessun interesse per Tombstone com’è, ovviamente, ma sono lì per visitare la città dove c’è stato l’O.K. Corral, vogliono quella città» (p. 45). La costruzione dell’identità dall’esterno, per fini turistici e di massa, molto si avvicina allora al fenomeno della gentrification: luoghi che un tempo erano autentici, poveri e magari anche degradati – valga per tutti l’esempio parigino di Montmartre (ma anche, nel suo piccolo, il Pigneto romano) – vengono trasformati in luoghi turistici e ‘finti’, specchio di cartapesta di ciò che furono un tempo, mentre gli immobili che li caratterizzano vengono acquistati a peso d’oro dalla nuova classe borghese imprenditoriale.
Un altro importante tema affrontato dal dialogo è «politeismi e monoteismi»: come afferma Bettini (tematica, tra l’altro, già affrontata nel suo recente saggio Elogio del politeismo), «se Greci e Romani hanno consumato violenze e carneficine, proprio come è avvenuto nelle epoche successive, non lo hanno fatto però in base a motivazioni di carattere religioso o per affermare la verità di un unico dio» (p. 47). Il dio dei monoteismi (il Cristianesimo e l’Islam) è infatti un dio unico ed esclusivo, che non ammette l’esistenza di altre divinità; le divinità dei politeismi antichi erano molteplici e potevano anche integrarsi fra di loro. Si potevano persino ‘importare’ gli dei di un’altra religione: ad esempio, molte divinità greche sono state ‘importate’ a Roma e tradotte in latino. Addirittura, i Romani istituivano parallelismi e somiglianze anche con le divinità di popolazioni estremamente lontane e ‘barbare’ come, ad esempio, i Germani. È preferibile quindi il mondo antico e il suo politeismo rispetto al monoteismo del mondo moderno che genera spargimenti di sangue proprio perché non tollera un dio diverso dal proprio.
Anche per quanto riguarda il razzismo gli antichi erano probabilmente migliori di noi moderni. Pur avendo coniato il termine «barbari» per indicare gli ‘altri da sé’ (per i Greci erano «coloro che balbettano», cioè coloro che non parlano il greco), il mondo antico non conosceva il razzismo verso i neri (gli Etiopi sono lodati come un popolo pio e molto civile): quando si parla di schiavi – dice Bettini – «non viene mai reso esplicito quale sia il colore della loro pelle» (p. 59). «Il contrario di quel che avviene oggi nei giornali, – ribatte Benedetti – dove sottolineano subito, fin dai titoli, il colore o la provenienza dell’autore di una rapina o di un omicidio: “Albanese uccide…”» (ibid.).
Per quanto riguarda i limiti della conoscenza, pare che nell’idea che l’uomo moderno ha di sé – dice Benedetti – «tutte le forze che lo determinano sembrano – anche se in realtà non lo sono – comprensibili» (p. 154). Il mondo antico, invece, «dispone di altri meccanismi di interpretazione: gli dèi, il Fato, il destino, però anche la forza che porta il nome di Tyche, la Sorte, ossia la congiunzione particolare di eventi che ha prodotto un determinato fenomeno» (Bettini, p. 148). Pensiamo anche alle mappe e alle carte geografiche, non soltanto antiche; in molte carte del Cinquecento e del Seicento, molte zone del globo erano lasciate in bianco, a rappresentare zone non ancora esplorate: «Così ti portavano subito davanti agli occhi, in evidenza, che lì c’era un limite di conoscenza» (Benedetti, p. 158). Adesso – risponde Bettini – chiunque può cercare un indirizzo su Google e visualizzarlo, come i ragazzi che crescono oggi, i quali hanno introiettata in loro l’idea «che il mondo non solo è tutto rappresentabile, ma anche tutto visibile!» (ibid.). Come – ricorda Benedetti – nel racconto di Borges, L’Aleph, dove c’è uno scrittore che ha un Aleph in cantina e su di esso può vedere rappresentato tutto il mondo: «Google street e Google map mi ricordano un Aleph» (p. 159). La rete, infatti, aggiungerei, con tutte le sue diramazioni, da Google ai social network, può dare un’illusione di libertà estrema ma, come ci ricorda il filosofo coreano Byung-Chul Han nel suo saggio La società della trasparenza, siamo tutti detenuti del panottico digitale e siamo tutti carnefici e vittima di noi stessi: «La libertà si rivela controllo» (B.-C. Han, La società della trasparenza, trad. it. di F. Buongiorno, Notettempo, Roma, 2014, p. 83).
Per concludere – e qui sta, credo, il senso profondo di questo dialogo che srotola naturalmente altre problematiche che sarebbe troppo lungo sondare in queste pagine – ciò che possiamo ancora assimilare del mondo antico e forse ciò che in esso c’è di più prezioso per noi è la sua alterità. Si può indagare il mondo antico come Lévy-Bruhl o altri famosi antropologi hanno fatto per le società «primitive»: «La cosa appassionante sta proprio qui, nel seguire i cammini di questa alterità di pensiero; nell’esplorare queste “mille diverse maniere di vita” – come già diceva Montaigne, quel grande saggio – che gli altri, gli stranieri, ci mettono sotto gli occhi» (Bettini, p. 176). In questo senso, la civiltà antica si dispone dinanzi ai nostri occhi come un grande scenario in cui nulla è scontato, in cui il magico, il misterioso, il divino, la fluidità, l’enigma si contrappongono alla massificazione, alla «cultura media» controllata da censimenti, statistiche e sondaggi, al mercato che ingloba persino la cultura, all’economia che tutto pervade, alla rigidità di modi di vedere e di pensare, alla presunzione di avere a nostra disposizione, in un semplice smartphone, l’intero mondo. Forse allora, anche per mezzo della cultura antica – e ciò è veramente prezioso – possiamo arrivare a pensare che un altro mondo è possibile, che può esistere un altro modo di vivere e di organizzare l’esistente.