di Dziga Cacace
Nothing Swings Like 4/4 (John Coltrane)
Keith Emerson: bentornati amici allo show che mai finisce.
Il locale è il Live, di Trezzo sull’Adda. Ottimo cartellone e acustica discreta. Sono qui per intervistare un mio mito dell’infanzia, dell’adolescenza, dell’attuale maturità e penso pure della futura vecchiaia: Keith Emerson. È già presente un mucchio di fanatici del prog, li riconosci subito (Lombroso etc., ma non voglio farla fuori dal vaso). Il soundcheck è entusiasmante come sarà poi il concerto, con parecchio repertorio dedicato ai Nice, oltre che – ovviamente – agli Emerson, Lake and Palmer.
Keith ha recentemente pubblicato un album dal titolo eloquente, Emerson Plays Emerson, e mi fa accomodare in un camerino che, dai graffiti sui muri, ne ha viste di ogni colore. Parto alla grande: sapendo della passione del musicista per alcuni alcolici italiani (come Pinot Grigio e Asti Spumante), mi presento con una bottiglia di Fernet Branca. Keith ringrazia, ma la allunga subito al suo chitarrista: non può berla perché ha problemi cardiaci. Chi comincia bene è a metà dell’opera.
È gentile, molto pacato, un po’ sulla difensiva e non sempre pronto a ironia e provocazioni, forse perché il mio inglese prescolare non aiuta. Io non ho freni e faccio un’intervista poco professionale e molto personale, ma ‘sticazzi: lui s’imbarazza quando la domanda esula dagli abituali percorsi, ma tutto sommato è un pezzo di pane, melanconico, innamorato della sua musica. Ed è un inguaribile romantico.
Dopo tutti i guai che ti son capitati (dita, naso, costole rotti, interventi al cuore e ai nervi del braccio destro), come sta adesso Keith Emerson?
Bene, grazie! Sono un po’ ipocondriaco, sempre determinato a trovare qualcosa di sbagliato con la mia salute… ma per adesso funziona tutto.
Cosa pensi di Palmer e della sua band, con un chitarrista che suona le tue parti?
Penso solo bene! L’ho visto live e la band va forte. Il chitarrista, tra l’altro, è bravissimo anche perché non sono parti facili e non sono state pensate per una chitarra.
Non soffri nei confronti dei chitarristi, di una specie di “invidia del pene”? (Mi guarda abbastanza stranito, allora espando la domanda) Chitarristi come Hendrix o Blackmore, con la chitarra, hanno portato all’estremo la ricerca sonora e con una chitarra è più semplice farlo che non con una tastiera, anche se tu hai un passato di abusi sul tuo Hammond… (Sempre peggio: il termine “abuso” non gli piace per niente, ma prova a rispondere)
Io sto ancora sperimentando, cerco nuovi suoni e la tecnologia digitale permette ulteriori miglioramenti in questo senso. In effetti ho “abusato” delle tastiere in passato… (lo ammette, infine, eccazzo) ma mai da rendere inservibile uno strumento, dopo erano sempre riutilizzabili. C’è sempre un limite all’abuso! Quando improvvisi, il solista avventuroso cerca di suonare tra le note e questo con le tastiere non è possibili, sei costretto dalla scala cromatica, dai semitoni, mentre i chitarristi o i suonatori di sax possono glissare le note. Ogni sera, salgo sul palco e suono un assolo differente, ed è grande quando riesco a trovare un fraseggio che non ho mai suonato prima. È divertente, esaltante, inventare al momento qualcosa di nuovo, ed è un dono. E molte volte non lo registri! Certe notti, scendiamo dal palco e ci complimentiamo l’un l’altro per certe improvvisazioni e ci chiediamo: cos’era? E il problema è che non son cose che puoi riprodurre, diventano aride senza il feeling del momento.
Quello che rende speciale la musica degli anni Settanta è forse proprio nella capacità e nella disponibilità ad improvvisare, no?
Ma guarda, qualche settimana fa mi han fatto notare che alcuni miei contemporanei, tipo gli Yes o i Genesis, quando arrivano gli assoli, rimangono fedeli a ciò che avevano inciso nei dischi originali. Io non l’ho mai fatto: lo scopo di un assolo è provare a suonare qualcosa di veramente differente.
C’è mai stata rivalità con Jon Lord e Rick Wakeman?
No, rivalità no. Rispetto Jon Lord come musicista ed è anche una bella persona. E anche Rick è un grande. Jon non segue le mode, ha una sua voce con l’Hammond e il piano. Un altro che apprezzo ma che è stato sottavalutato è Brian Auger. Quando Rick Wakeman è venuto fuori e anche lui aveva diverse tastiere e il costume di scena, beh, mi son chiesto: dove l’ho già visto? Comunque dopo poco tempo ci siamo conosciuti e ne abbiamo parlato e lui ha un grandissimo sense of humour. Oltre a essere un grande musicista, ovviamente.
Senti, perché l’abilità tecnica, ad un certo punto, è diventata fuori moda? (Anche grazie al punk…)
La musica passa attraverso fasi diverse, di critica e di pubblico (fa spallucce). Generazioni diverse… e la musica punk, poi… (fa un vocione impostato, non l’ha ancora digerita trent’anni dopo) la musica punk mi piace! E Johnny Rotten abita vicino a me! (La voce torna normale) In effetti abitiamo vicini… dopo che ha cantato contro il Capitale e per l’anarchia, io sto in un condominio e lui in un villone!
Hai mai incontrato di nuovo i membri della PFM o del Banco?
L’altra sera, a Roma, ho incontrato il tastierista del Banco ma non so bene cosa abbiano fatto in questi anni. Nella Manticore (l’etichetta fondata e gestita dagli Emerson, Lake and Palmer) non mi occupavo io delle band che producevamo. Erano Pete Sinfield e Greg Lake. E a dirla tutta mi sembrava una cosa stupida: non riuscivamo a prenderci cura di noi, figurati degli altri.
E Dario Argento, mai più rivisto?
No, non recentemente, ma i suoi film mi piacevano molto ed era bellissimo che la mia musica fosse usata per un assassinio o per creare una situazione di tensione o orrore. Quando ammazzi qualcuno col tuo Moog, non mancano mai le idee, anche quando arrivi alla settima vittima! E poi scrivere per il cinema è una bella disciplina, devi adattarti a una cornice precisa, non come sul palco dove vai avanti fino a che hai idee.
Qual è stato il responso critico per Emerson plays Emerson?
Non ho letto molto, devo dire. Comunque il motivo per cui ho fatto questo CD risponde a due esigenze. Lo chiedevano i fan – che nei miei diversi album avevano sempre solo un brano o due per pianoforte – e poi anche l’EMI Classics. L’acquirente abituale di musica classica è un po’ disperato, sai. Il CD è bello resistente e quando ti sei già comprato tutto Wagner, cosa rimane? E questo è anche il motivo per cui si cercano sempre nuove idee, tipo le opere di McCartney o Roger Waters (e non che mi siano piaciute, sinceramente).
Usi il computer per comporre?
No, sono computerfobico! Se componessi su PC son sicuro che andrebbe in crash e perderei tutto! Scrivo sul mio Steinway e al limite lascio la trascrizione ad altri.
Però hai l’iPod, no?
Sì, e ci tengo dentro di tutto, ma soprattutto jazz, fine anni Cinquanta, inizio Sessanta. La roba di oggi non mi fa impazzire.
Quando arriva Natale, non temi di dover sentire di nuovo i singoli di Greg Lake?
Ma perché, dai. Mi piacciono i singoli di Lake! Sul serio, lo adoro e abbiamo fatto grande musica assieme.
Però quei singoli erano, in qualche modo, differenti dalla musica che componevate per gli album, contrastanti.
Sì, ma dovresti parlarne con Greg e con Sinfield: era una giustapposizione al nostro repertorio.
La cosa più politica che hai fatto, sul palco, è stato bruciare la bandiera americana. Cosa pensi della guerra, oggi, in Iraq?
Era stata una trovata, sul serio, e se pensi al 1968, in effetti, nessuno aveva osato fare tanto. Sai, c’erano i cantautori di protesta, allora, Dylan o Donovan. Ma fino a quel punto, non s’era spinto mai nessuno. E noi avevamo soldati americani che venivano ai nostri concerti che ci chiedevano di bruciare le loro cartoline di arruolamento: c’era la guerra in Vietnam e decisi di usare il tema di America… ma non sono nella posizione per dare giudizi politici.
Senti, non pensi che, per esempio, l’ultimo Dvd degli ELP, o il tuo passato distolgano l’attenzione dal tuo lavoro attuale?
Tipo un effetto nostalgia? Non credo, sai. La gente viene ad ascoltarci ancora e c’è sempre un grande interesse. E noi proviamo a spingerci sempre in avanti. Questa è la differenza tra la musica progressive e il pop di oggi.
E che fine ha fatto il costume d’armadillo?
È bruciato, con la mia casa!
E i coltelli della gioventù hitleriana – regalo di Lemmy quand’era tuo roadie – per accoltellare l’Hammond?
Venduti! Quando ho divorziato avevo bisogno di un sacco di soldi e li ho fatti vendere.
Dopo questa lunga carriera, hai trovato un senso della vita?
(Trasecola e ride) Questa non è una domanda, è LA domanda! Mah! Oggi io cerco soltanto una compagna con cui mettermi tranquillo, poi boh!
(4 dicembre 2005)
L’attualità (per motivi sbagliati) dei Grand Funk Railroad
Son passati trent’anni dall’immortale copertina di Survival, con i membri dei Grand Funk Railroad ritratti in comodi panni neanderthaliani. Trent’anni in cui il gruppo più vituperato degli anni Settanta s’è sciolto, s’è riunito e ridisciolto senza perdere mai la fama di adorabili sfigati dell’hard più fracassone. Non erano blues oriented come gli Aerosmith, non cavalcavano il glam cartoonish dei Kiss, non proclamavano la loro politicizzazione come i MC5, né passavano per outsider intellettuali come i Blue Öyster Cult: erano semplicemente i trogloditi del rock, senza capacità virtuosistiche o compositive, e provenivano dalla tremenda Flint, città natale dell’arrabbiatissimo Michael Moore e colonia della General Motors. Oggi il pubblico americano li conosce grazie alla tifoseria sfegatata del capofamiglia Simpson (e che Homer li adori spiega tante cose). Sono passati trent’anni anche dal loro ellepì migliore, quell’E Pluribus Funk che rivoluzionava il concetto di packaging (presentandosi come una enorme moneta d’argento); un po’ meno quello della musica, anche se, a ben guardare, la tracklist possiede ancora oggi una sorprendente attualità. A fianco di sfrenati inviti alla danza (la travolgente Footstompin’ Music), sbulaccate machistiche (Upsetter) e pensosi tentativi pseudopoetici (la melensa Loneliness) c’era anche lo slancio ecologista di Save The Land e, soprattutto, l’accorato appello di People, Let’s Stop The War. Nell’arco di una quindicina di anni i GFR hanno licenziato diversi dischi memorabili, per un motivo o per l’altro. Il terremotante Live Album del 1970 è diventato una pietra miliare degli album dal vivo, Shinin’ On è, credo, il primo – se non l’unico – LP con la copertina 3D (con gli occhialini inclusi nella confezione!). Ma era notevole musicalmente anche Caught in the Act, dove veniva fuori l’attitudine soul e blues del gruppo, del resto stimato da Todd Rundgren (produsse l’ottimo We’re An American Band) e pure da Frank Zappa, istigatore di Good Singin’, Good Playin’ del 1976 e che di loro disse: “Sono fantastici. FAN TAS TI CI. Con una “F” alta tre volte te!”. Bene: io li ho amati e voi a breve sarete conquistati, ma se siamo qui a parlarne è perché la longevità dei Grand Funk Railroad (poi dispersi in altre formazioni, anche con derive religiose) non è nella lungimiranza del progetto artistico ma nel cammino a ritroso dell’amministrazione Bush che sta regalando al mondo un nuovo Vietnam all’anno e disattende bellamente il protocollo di Kyoto. Dopo la geniale pensata che il conteggio dei morti in Iraq non debba tenere più conto dei civili (da noi la chiamano contabilità creativa), sono arrivate anche le tremende “cartoline dall’inferno” con le torture del carcere di Abu Ghraib. Prima i sospetti, poi le prove, e ora pensano di metterci una pezza mandandoci il direttore di Guantanamo (e non è una battuta. Il mostro di Milwaukee era già occupato?). Tra le tecniche per sciogliere la lingua ai prigionieri, il cosiddetto “bombardamento sonoro”: quale gruppo di hard rock cafone verrà inconsapevolmente coinvolto in questa porcata? Dov’è finita l’America generosa e bonacciona di Homer Simpson e dei Grand Funk Railroad? (Giugno 2004)
Ehi! Negrita!
I miei primi Negrita risalgono a quindici anni fa, al Canguro di San Colombano al Lambro, 200 spettatori stipati all’inverosimile. Mi sentivo come Jon Landau la sera che sigillò il destino suo e di Springsteen e pensai: stasera ho visto il futuro del r&r italiano. Ero giovane, erano giovani, ma tenevano il palco come veterani. Gli anni passano e oggi i Negrita sono una rock band affermata, vendono bene, fanno tour pieni, però sono rimasti sempre a margine del successo di massa, da stadio. E per fortuna, vien da dire, parlandogli, perché sono di quella razza ormai rarissima in Italia, di chi fa coerentemente di testa propria. Nessun compromesso e nessun proclama; mai leccato il culo ai giornalisti (cosa che hanno pagato eccome), mai convenientemente posato da star per rotocalchi, mai storiacce di corna e droga per solleticare le voglie gossip dei lettori. Come mi dice il cantante Pau, disarmante nella sua sincerità: “Siamo una comunità di amici fricchettoni con figli, che vuoi farci?”. All’inizio erano cinque dottori per curare la peste, come recitava l’autobiografica Ehi! Negrita, e il loro momento di crisi non è coinciso con vendite in ribasso o nebbia creativa ma con l’abbandono per motivi personali del fraterno batterista. Dopo un incontro nei camerini (“Per piacere, non chiederci anche tu Che rumore fa la felicità!”) in cui si parla di crisi economica, di Sanremo e di downloading, tocca al concerto, una mezcla piccante, due ore di blues, funky e reggae: tutti i suoni del sud del mondo, sublimati nello scintillante suono elettrico del nord. L’ultimo album Helldorado è i Negrita all’ennesima potenza, un Buenos Aires Calling che dal vivo viene proposto quasi per intero. Si danza maschi e femmine con le dovute pause per le ballate perché se c’è qualcuno a cui devono qualcosa – come ricordano Pau e il chitarrista Drigo – quello è il pubblico. Tantissimo, del resto: sold out vero, mica da agenzia stampa. Sono sempre stato convinto che fossero la migliore live band rock italiana e trovo ulteriore conferma: nei Negrita senti gli Stones e Rino Gaetano, la tradizione e il futuro, il meticciamento e le basi del r&r, con una potenza di fuoco fenomenale (anche grazie all’altro chitarrista, Cesare, un riff dopo l’altro) e un groove continuo. E anche i testi scintillano in questo mare di lava sonora ulteriormente arricchito da una consolle e delle percussioni latine. È una festa che celebra la loro libertà, come sintetizza il coro totale del palasport di Lampugnano su A modo mio. E dopo quindici anni penso che io ero Jon Landau e non lo sapevo. E che questo paese non se li merita, i Negrita. Tra poco partiranno per il Sud America e l’Europa con lo spirito di quando hanno iniziato, perché sanno che la vita è una verifica continua e chi si abitua alle recite negli stadi poi non produce più una nota decente. E hanno ragione. (Aprile 2009)
Io brindo agli Uriah Heep
Melissa Mills dovrebbe essere una mia collega, ma non so se abbia tenuto fede all’impegno preso recensendo il primo album degli Uriah Heep, proprio su un Rolling Stone del 1970: “Se hanno successo questi, mi suicido”, letteralmente. E nella fattispecie, nel terzo millennio gli Uriah Heep continuano ad avere successo: magari non come nel 1972 (l’annus mirabilis di Demons and Wizards e di The Magician Party), però prendendosi le loro belle soddisfazioni. È appena uscito Live in Armenia, località se non altro balzana, ma il presidente locale è un grande fan e allora, perché no? Del resto il russo Medvedev ama i Deep Purple e li ha fatti esibire al Cremlino e non escludo, prima o poi, un Live At Arcore delle giovanissime Ruby and the Jets, con opener Mariano Apicella. Comunque: io ho visto Werner Herzog mangiarsi una scarpa per scommessa (era di cuoio: bollita otto ore con verdure è diventata edibile), ma il regista tedesco è un genio. Invece della Mills, pur googlando, non ho trovato notizia di suicidio e credo che ogni volta che esce un disco degli Heep provi un po’ di vergogna per quella sparata infantile. Perché il primo LP (dalla copertina sinceramente emetica, seconda solo ai repellenti Abominog, degli stessi Heep, e Born Again, dei Black Sabbath) era buono eccome, se non forse un po’ grezzo, e tra alti e bassi il sestetto è arrivato fino al recente Into the Wild, tosto assai e per niente arcaico. Questi qui si son barcamenati per quarant’anni tra cambi di line-up, un bassista fulminato sul palco, ritiri, ritorni, dischi inutili e altri sottovalutati, svernando nel terzo mondo musicale quando qua da noi non era aria, per poi tornare trionfalmente ad ogni revival. E ora che viviamo nell’ottusa nostalgia di tutto, il loro strambo ma coinvolgente mix di hard rock, progressive e voci in falsetto alla New Trolls, funziona ancora. Capelli – quando ne sono rimasti – bianchi, pance debordanti, posture epiche, ugole sguaiate e sound martellante (nonostante le occasionali ballate pastorali come la splendida Come Away Melinda), gli Heep non son diventati più belli. Erano orrendi allora (sembravano il gruppo TNT, giuro) e i superstiti non sono migliorati, ma il vino, invecchiando, ha acquisito corpo: alzo il mio calice verso di loro, prosit, lo meritano. (Gennaio 2012)
Matt Filippini Story
Fossimo a Hollywood, la storia che sto per raccontarvi sarebbe un blockbuster conteso dai produttori, un Flashdance hard rock e per di più una storia vera, cosa che agli yankee piace sempre sottolineare, specie quando la vicenda è assolutamente inverosimile. Cremona, Italia: un giovane chitarrista coltiva il sogno di milioni di rockettari. Fare l’album della vita, accompagnato dai propri idoli musicali. Matt Filippini è tecnico in un’acciaieria ma, pur non suonando metallo pesante, non disdegna la schitarrata con la giusta saturazione timbrica. Non ha un gruppo suo, ma gli piace suonare in giro e una sera finisce a jammare con Ian Paice, batterista dei Deep Purple spesso dalle nostre parti, e gli allunga un demo con tre pezzi originali. Paice apprezza, risuona le parti di batteria e incoraggia Matt che non se lo fa dire due volte. S’indebita appoggiato dalla moglie – bassista che crede nella coppia e nel rock quanto lui – e autofinanzia il Moonstone Project. E gli altri partecipanti? Una rockstar è lontana solo l’invio di una mail e chiedere è lecito: Glenn Hughes, basso e voce ultra-funky (dai Deep Purple degli anni Settanta fino alle recenti collaborazioni con diversi Red Hot Chili Peppers), risponde subito e partecipa entusiasta. Dopo di lui è una sarabanda di adesioni dal bel mondo dell’hard storico e degli anni Ottanta: Carmine Appice (batterista dei Vanilla Fudge e co-autore con Rod Stewart di Da Ya Think I’m Sexy, per dire), le voci di Eric Bloom (Blue Öyster Cult), Graham Bonnet (Rainbow) e Steve Walsh (Kansas), il basso di Tony Franklin (Whitesnake)… Un cast stellare che provoca un’immediata pavloviana salivazione in chiunque ami il buon rock, quello con chitarre turgide, riff trascinanti e con la sezione ritmica che si sente davvero. Il progetto è promosso da un’etichetta inglese, la Majestic Rock Records che, se non dimostra gran gusto estetico (la copertina dell’album è una cafonata unica), ha certamente fiuto musicale. Il buon Matt adesso dovrà scegliersi bene le ferie: lo aspettano showcase in USA ed Europa e un tour in Giappone, Russia e Sud America, dove i vari ospiti si alterneranno. Se siete il fanatico musicomane che passa le serate al pub a fantasticare di line-up ideali davanti a una birra, beh: non vi resta che cercarvi Time To Take A Stand. Jennifer Beals aveva una controfigura, Matt Filippini ha fatto tutto da solo e con un piccolo aiuto dagli amici. E ha fatto benissimo. (Giugno 2006)
(Fine – 6)
Le puntate precedenti sono qui.
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