di Dimitri Papanikas
Roberto De Caro, Un po’ per celia un po’ per non morire, Aletti Editore, Villanova di Guidonia, 2016, pp. 106, €12,00
Recentemente pubblicato dall’editore Aletti, Un po’ per celia un po’ per non morire è un piccolo gioiello nato da quella cura per i dettagli, precisione e rigore, di chi ha fatto della critica radicale dell’esistente un’imprescindibile necessità etica individuale prima ancora che letteraria. Roberto De Caro, artefice dal 2000 al 2005 di un’esperienza unica nel panorama letterario italiano che fu l’eclettica, e mai abbastanza rimpianta, rivista indipendente di cultura e politica Hortus Musicus è l’autore di questa raccolta di brevi storie. Come un Antoine Doinel diventato adulto, scappato alle regole di un mondo fatto a misura di pochi, De Caro ci restituisce la carica eversiva dell’infanzia, regalandoci il gusto delle piccole cose, delle tante fughe, di una più che legittima ribellione all’autorità. Ci accompagna per mano attraverso una galleria di ricordi autobiografici, aneddoti, memorie, scene di un lessico famigliare costituito da esilaranti bozzetti, delicate acqueforti che descrivono con sapienza abitudini, comportamenti e piccoli conflitti del vivere quotidiano.
I suoi eroi appartengono a un universo popolare in cui i pubblici ufficiali si trasformano in prestigiatori (Il controllore), gli accademici della musica in pedanti imbonitori di una famelica platea assai ben più interessata al rinfresco che ai “Canoni della raccolta di Ludovico Zacconi di Trebbiantico” (La Conferenza), i culturisti in maldestri amanti (Non di solo fitness…). Personaggi come il flemmatico concessionario (Nuova nuova), l’improbabile pitone domestico (Roger), la famiglia in auto in coda per le vacanze (Ce sarebbe Filippo), il parvenu di provincia con le sue aspirazioni borghesi (Ginevra), e quello di città col suo sogno di nobilita un tanto al chilo (Il duello) sono i “piccoli mostri” di una urbana quotidianità raccontata con garbo e ironia, senza il cinismo di un Monicelli o di un Risi, il grottesco di un Ferreri o la disperazione di un Goya.
C’è spazio per tutti nei racconti di De Caro. Dall’amore tra un elegante oboe d’ebano e un’arpa a 43 corde (Amori strumentali), alle surreali elucubrazioni di due rette parallele, ma anche di mogli e mariti, nelle loro più svariate declinazioni che ognuno sa a memoria (Coral Atoll, Nuova nuova). Racconti brillanti, divertenti, a volte commoventi, in cui i bambini sono sempre in fuga (dalla scuola, da una punizione, dall’obbedienza, dalla guerra). Una programmatica evasione contro il tentativo di confiscarne fantasia e creatività.
Splendida in questo senso la scoperta del cinema, identificato nel volto con cerone e parrucca posticcia di un imponente Donald Sutherland, alto quasi due metri, che sui tetti di una Venezia seicentesca di cartapesta, sul set felliniano del Casanova, si inchina per firmare un autografo e disegnare un cuoricino sul quaderno del piccolo Roberto (Una gita a Cinecittà).
Tra riferimenti più o meno espliciti, in questo intelligente ipertesto della memoria, troviamo ancora Chaplin, De Sica, Truffaut, Kubrick e Malik, ma anche Ken Loach e Woody Allen, i colori di Füssli, Bruegel e Alberto Beneventi (sua la bella immagine di copertina, Campo di neve), la passione per il bridge, le pagine Ariosto, Tasso, Lord Byron, Borges, fino all’ammirato Primo Levi, in assoluto la presenza più importante tra le righe del testo. Solidarietà e responsabilità individuale sono infatti i due concetti cardine per De Caro, come mostrato dalla sua grande capacità di assumere il punto di vista dell’altro, facendosene carico. Una narrazione che, proprio per questo, non è mai cinica né indifferente (Il rimorso; L’orrore e la belezza; Manuel).
Pubblicato nella collana “Gli Emersi” (una coincidenza, a mo’ di contrappunto, all’amato Levi de I sommersi e i salvati) De Caro ha trovato la salvezza nella solitudine della riflessione, nel metodo, nel rigore, nel rifiuto di facili consolazioni d’accatto, come quelle anime “salve” di De André, spiriti solitari alla ricerca di una libertà non condizionata dalla società. E proprio come il Levi de Il sistema periodico, De Caro analizza le “magnifiche sorti e progressive”, scandagliandone la struttura più profonda, fino a scalfire la natura del diamante, il più impenetrabile tra i minerali. E proprio alla peculiare resistenza e durezza del diamante, alla sua naturale propensione a rubare il calore al corpo lasciandolo gelido come il marmo, all’avidità, alla brama e alla cupidigia sono dedicati i due splendidi racconti Prima e Seconda storia di diamanti.
Un libro che si legge tutto d’un fiato, senza soluzione di continuità, fino ad arrivare a L’eredità e … E infine, probabilmente i due racconti più intimi e personali, in cui l’ombra del padre Gaspare, suo fondamentale riferimento intellettuale e compagno di ricerca, autore con lui di due illuminanti volumi (La Sinistra in guerra e Storia senza memoria) torna a visitarlo come Bruegel il Vecchio in un immaginario dialogo col figlio bambino, futuro Bruegel il Giovane.
Un po’ per celia un po’ per non morire è un libro profondamente umano e sensibile, privo di ogni scorciatoia mistica o religiosa, senza alcun deus ex machina finale. Una testimonianza, tra le più degne, sulle virtù taumaturgiche dello scrivere. Una forma di resistenza, un gesto nobile, consapevole, responsabile, libero, arrabbiato, dolce, straziante, irriducibile per dimostrare che è possibile lottare contro quell’assurdamente esorbitante condanna senza possibilità di appello ricevuta tre anni fa, in forma medica, quel terribile «fine pena, mai» cristallizzato in un tumore maligno al cervello.
E così, sul finire del libro, rivediamo a passo di danza, in camera lenta, Chaplin coi suoi monelli, De Sica e le sue biciclette, il chimico Primo Levi e quello di De André, il sorriso bonario della Pivano e di Rousseau, la fuga di Casanova sui tetti di Venezia e quella di Jean Vigo con i suoi zero in condotta su quelli di Parigi verso orizzonti sereni, Truffaut e i suoi 400 colpi, i suoi enfants sauvages irriducibili all’ordine e alla disciplina, il desiderio di tornare bambino per non smettere di fare il diavolo a quattro, di combinarne di tutti i colori, turbolento e ribelle, mosso da un irresistibile desiderio di libertà.