di Luca Baiada
Invano si è cercato l’autore: «L’umànita tremante / da cannoni e granate / cercò di andar distante / dove non eran picchiate. / Ma una mattina corsen laggiù / per ammazzarla la gioventù. / Di fùcili e mitraglie / il Padule fu accerchiato / dall’ìnfame canaglia / del tédesco spietato». Di certo era un toscano della Valdinievole, ma il borgo d’origine è oscuro, e sino a ora non si è trovato neppure il ceppo familiare. La sua ombra è ritrosa, la traccia è aggrappata ai suoi versi e a chi ricorda qualcosa di lui, in un circolo di paese, a un passo dal Vincio e dalla camionabile. Insistendo, meritando la confidenza di uomini antichi, coi calli sulle mani e rughe scavate al bulino, la ballata torna a farsi sentire, con quegli accenti alterati, quel ritmo da cantastorie.
È il 23 agosto 1944, Roma è libera, nella periferia di Firenze si combatte ancora, Pisa è nelle mani dei tedeschi. Poco più a monte, nel Valdarno, su una riva del fiume c’è il Padule di Fucecchio, la palude interna più grande d’Italia, ancora sotto occupazione; sull’altra c’è San Miniato e ci sono gli Alleati. Nel Padule, girando intorno agli acquitrini, i tedeschi massacrano 174 persone, la più piccola di quattro mesi: Maria Malucchi, nata in primavera, non vedrà l’autunno. Una strage interminabile, che inizia all’alba e termina nel pomeriggio, frantumandosi in grappoli di eccidi, mitragliamenti, singoli omicidi, infanticidi. Poi inspiegabilmente, oscuramente, la terza fra le grandi stragi toscane dell’estate 1944, la quinta in Italia, faticherà a emergere, a farsi conoscere, come se la palude la tenesse prigioniera all’infinito, accerchiata e isolata, ancora adesso semisconosciuta. L’indicibilità, un tratto comune a questi crimini, nel caso di Fucecchio è esasperata, ed è una caratteristica con cui si dovrà sempre fare i conti.
Ricapitolare la vicenda, ripercorrere con esattezza i fatti, può essere un modo per non dimenticarli e insieme per ossificarli, per metterli su una mensola come quei vecchi soprammobili che non si guardano più: così scontati da essere invisibili. Tosca Lepori: «Non si è avuto niente, non si è mai neanche cercato niente, perché fu una cosa di cui nessuno poi ne parlò più, come se non fosse successo niente». Angiolo Fidi: «Era stato abbuiato tutto. […] Un fatto come se fosse stato dimenticato, ma anche per le persone, come se fosse stato rinchiuso dentro di noi». Sono sopravvissuti, narranti, e sono testimoni giudiziari nel dibattimento 2010-2012, uno dei processi usciti dall’armadio della vergogna. Narrare, tacere, nascondere, mostrare.
Archiviare, l’ha osservato bene Paolo De Simonis, ha il doppio significato di porre al sicuro ma anche di mettere via, di superare, di coprire. Un’indagine che si archivia è un dibattimento non fatto, ma anche un pericoloso serbatoio di verità, una bomba morale e politica a orologeria, che il tempo fa arrugginire e non disinnesca mai del tutto. Così fu appunto per l’armadio della vergogna, accumulato e serrato fra gli anni Quaranta e il 1960. Ma persino gli atti di un dibattimento celebrato, dopo si archiviano. E i libri letti tornano sui loro scaffali, e le pagine Internet sfogliate si ritraggono nei dischi remoti che ne serbano i segni, pronte a tornare, a riaffacciarsi, per alcuni tesoro e garanzia, per altri monito e fastidio.
La narrazione della ricerca, con la messa in chiaro del percorso di ricostruzione storica, può catturare l’attenzione, ma può sviarla dal fatto principale. Nel Padule, a Stabbia, le vittime di uno degli episodi di sangue sono spinte nel letto asciutto di un corso d’acqua e mitragliate; fra loro c’è Altero S., che si salva. A raccontare è il figlio Glauco, giovanissimo nel 1944: «[I tedeschi] entrano e c’erano il Bodda, la moglie, e Pilussi. […] Insieme a questo Pilussi, presero ’l mi babbo che disse “bambino portare con me”, ma il tedesco gli dette una pedata e non mi fece andar con lui. Remo lo chiamarono, che era più in là, e andò. […] La notte, ’l mi babbo torna: “Ci hanno chiesto i documenti, le fotografie, l’orologi. Siamo scesi nel canale, convinti di risalire, e invece c’era una mitragliatrice, e Remo o Pilussi si girarono, e detto così e senti’ sparare fu tutt’uno”». Dopo, Altero consegna al figlio uno scritto che conclude: «[…] Io Pilussi e Remo, loro trucidati accanto a me, io fuggito non so come». È stato possibile rintracciare questo testo prezioso in un borgo della Garfagnana. Leggerlo ad alta voce, in una piccola casa, di fronte alla brace di un camino, toccava il fondo dell’anima. È diverso il racconto di Ginesio V. nel 2013: «Quando spararono, finirono il nastro delle pallottole della mitragliatrice. Altero sentì stiavaccia’ per rimette’ il nastro, scappò, e quando comincionno a rispara’ si messe col groppone a una pianta, c’era le piante grosse nel bosco di Chiusi, e poi via». Nel passaggio di mano, la narrazione di Altero si dilata e si sistema, spiegando la sopravvivenza con la furbizia. Altero sì che era in gamba, gli altri sono morti.
Insomma, narrare è un gesto ben più violento di quanto sembri, ma attenzione. Se questo è vero per i narranti oggetto della ricerca, perché non per gli altri? Mentre narro, sono anch’io un superstite, e quindi fabbrico la mia innocenza e il mio palco. Tu che leggi puoi giudicare i miei personaggi e anche me: se lo fai, ti metti su un palco più comodo. Ricordare è tutt’altro che un comportamento incruento. E infatti, occupati a chiederci perché Altero si salva, o come Glauco e Ginesio raccontano, o ancora che strano rapporto corre fra me che scrivo e te che leggi, abbiamo trascurato che in quell’episodio, a Stabbia, muoiono Angiolino Innocenti, detto Pilussi, e Remo Calugi. L’oblio che dal 1944 cerca di inghiottirli si ripresenta sotto altra forma, se la narrazione delle narrazioni, se lo scritto affettuoso di un padre a un figlio, se la dolce penombra di un camino in Garfagnana riescono a farceli dimenticare.
Il racconto del percorso processuale, altra frontiera possibile del discorso sul sangue, offre simili vantaggi e inconvenienti. Bruna Fagni Pratolini, adulta nel 1944, ricorda nel 1997 i processi degli anni Quaranta, cioè quello britannico a Padova al generale Crasemann, comandante della 26ª divisione corazzata della Wehrmacht, e quello italiano a Firenze al maggiore Strauch, comandante del reparto esplorante della stessa divisione: «A cena tutto pagato, e un tanto al giorno. A Padova, in un bellissimo albergo, e con le macchine al processo. Quando fu fatto a Firenze [ride], la differenza! Mi ci mandarono diverse volte, e tutt’a mi’ spese! [ride] Potevo andare col treno, m’avrebbero rimborsato, ma mi restava scomodo. Andai col pullman, mi passava davanti casa, e quando chiesi il rimborso, dice: “Quello del pullman ’un vale”. Sicché ’un mi dettero nulla! [ride]».
Nel film Il labirinto del silenzio, una delle più recenti novità come tecnica di narrazione del Lager – narrazione differita, decentrata, che fa venire in mente un libro del 1979 di Walter Abish, How German is it: Wie deutsch ist es – del crimine resta il cono d’ombra emotivo, senza che emergano fatti specifici, se non alcuni, frammentari e quasi marginalizzati nella condizione dell’aneddoto. In questo rapporto fra testo e paratesto c’è molto della condizione critica del lavoro intellettuale, del suo desolante senso di inadeguatezza. Ma gli intellettuali raramente ammettono le loro responsabilità, al massimo descrivono le colpe di quei segmenti del loro ceto – politici, giuristi, dirigenti pubblici e privati – che hanno ruoli formalizzati e distinguibili. E invece Bruna Fagni Pratolini può ridere del tribunale e delle regole astruse sulla diaria ai testimoni; ma sarà difficile ridere di un discorso strutturato, e anche di questo che sto scrivendo, perché ogni parola si calcifica e porta via un pezzo di vita, seconda ombra di quella morte lontana e vicinissima che il 23 agosto 1944 portò via 174 persone. Eppure, incontrandola in un paese del Valdarno, centenaria, si sentiva in Bruna una sapienza pungente ed essenziale come un cespo di ramerino.
Ma anche questo racconto del giudizio e del testimone oscura i fatti nel momento in cui li aggira per catturare l’attenzione: reclamando un posto per il suo tema, il trucco narrativo già glielo occupa prendendo per sé il cerchio dei riflettori. Bruna nel 1997 ride, e noi adesso con lei, del suo biglietto di pullman non rimborsato, ma la realtà è che questa donna formidabile nel 1944 scampò alla strage portando in salvo se stessa, suo fratello fingendo che fosse suo marito, alcuni bambini e Oreste Silvestri ferito; e tutto dopo aver guardato la morte dritto negli occhi. L’episodio in cui è coinvolta è proprio a casa di Oreste detto il Socchio, un contadino che aiutava i partigiani e che i tedeschi tenevano d’occhio: il suo casolare è incendiato, vi muoiono undici persone comprese due sue figlie, e una è stuprata morente o già morta. Dov’è il centro di questo discorso? nel riso di Bruna, nella saggezza di una centenaria, nel biglietto del pullman, nella morte di quegli undici inermi, nell’atroce stupro? o semplicemente nel nostro occhio, mentre sposta i punti di osservazione?
È duro da ammettere, ma forse ogni narrante deve accettare di essere complice forzato di una violenza che non si è esaurita nel fatto di sangue, e che invece costruisce dopo decenni, anche a distanza di generazioni, un dilemma moralmente spaventoso: o si tace e si è complici di un inabissamento del trauma che non sarà mai vera sepoltura misericordiosa delle vittime, o si parla e si è responsabili di una violenza selettiva, che ci pone in mano la ghiera di un obiettivo fotografico, la leva di un gioco di specchi, il perno beffardo delle lenti deformanti.
Detto in altri termini, nel 1944 l’assassino fa di tutti, anche di te che leggi adesso, una vittima costretta a tenergli man forte, come quegli otto italiani portatori di munizioni che nel Padule furono rastrellati e che – di casa in casa, di aia in aia – videro tanto sangue da rinserrarsi per sempre in un silenzio straziante. Amato Arinci nel 1997 dirà di uno di loro: «Lui lo preseno a porta’ le munizioni, è stato du’ anni sotto cura. Anche le prime volte che venne a parlare per fa’ queste ricerche, nel Padule, non aveva mai volsuto parla’ con nessuno. Alla meglio lo consigliai io, ma fece quattro parole, poi inviò a piange’ e scappò. Quando gli si rammenta quello lì, invia a piange’, ancora». È orribile, ammettere di essere stati dei portamunizioni per i tedeschi, ma è peggio scoprire di esserlo anche noi, ora, coinvolti nella narrazione: la vittima che non riconosce il suo statuto di vittima accetta sul cuore una pietra invisibile.
Proprio Amato Arinci sarà fra i pochi a raccontare un sogno, infrangendo una reticenza che in seguito la ricerca ha faticato a spezzare: «Nel salotto di casa mia ce n’erano undici. […] A toccarli col dito era come toccare la farinata vecchia. Questi morti me li sogno ancora, sempre allo stesso modo, me li vedo tutti in ginocchioni intorno al letto, quelli della mia famiglia, col capo sul mio materasso». La visione spaventosa sembra insieme rassicurante, paradosso onirico. Nella poesia Il superstite Primo Levi rivede i morti nel Lager grigi di polvere; quelli di Amato Arinci sono salme che nella veglia si sfarinano e nel sonno chinano il capo. Levi è un intellettuale, Arinci un contadino, ma la reticenza successiva sui sogni è compagna della nostra difficoltà a chiedere, della nostra attesa di un’elaborazione letteraria che ci renda digeribile il pasto, che ci prepari il boccone. La parola colta dello scrittore che ci viene incontro, quella stentata del padulino che si ritrae, sono due volti della stessa cosa: non domandare i sogni è un rifiuto dei nostri, non solo di quelli degli altri. Sempre nel film Il labirinto del silenzio c’è il sogno di un magistrato, caso forse unico nella storia del cinema. Le autorità sono serie per definizione: in concreto, chi osa chiedere i loro sogni si prepari a risposte tutt’altro che disponibili, si aggiusti la bocca a una sorsata di sarcasmo, o peggio.
Forse, le autorità sono avare di sogni per nascondere un’avarizia peggiore: quella della loro veglia. Quando si considera la giustizia, quando si prova a vedere cosa è stato fatto per le vittime, non ci si può neppure consolare con la suggestione dell’inadeguatezza delle prose, con gli ossimori letterari. Qui la narrazione è chiara, desolante, dura, perché la mancata giustizia è una continuazione della violenza con altri mezzi. Ed è una narrazione pericolosa; sulle stragi nazifasciste, Piero Calamandrei nel 1954: «È uno di quegli argomenti che nella buona società non è educazione toccare: è questione di galateo, di buon gusto. Bisogna dimenticare: chi non dimentica è un maleducato, e rischia per di più di essere schedato dalla questura: oblio di Stato». Già, il potere e i dossieraggi.
Dei pochi militari tedeschi processati subito dopo la guerra per la strage del Padule, nei primi anni Cinquanta non ce n’è più uno in carcere. Quelli processati negli anni 2010-2012 il carcere non l’hanno neppure visto, perché la Germania non li ha consegnati, e le loro condanne all’ergastolo sono rimaste sulla carta. Né le somme liquidate a titolo di risarcimento, né le spese sono state pagate. In un primo momento lo Stato tedesco era stato condannato a pagare, poi la condanna è stata revocata. Per questa e per le altre stragi si sono viste persino leggi italiane contro i concittadini e a favore della Germania, per impedire le esecuzioni sui beni tedeschi in Italia.
Però. La Corte costituzionale il 22 ottobre 2014, con una sentenza coraggiosa, ha spazzato via quelle norme indegne e i brutti principi che nel 2012 una sentenza della Corte internazionale di giustizia dell’Aia voleva darci a bere. Dopo il provvedimento importante del 2014, il Tribunale di Firenze ha ricominciato a condannare la Germania, cioè proprio lo Stato tedesco, per casi di deportazione. Quest’anno lo stesso Tribunale ha condannato la Germania per un assassinio compreso in un’altra strage, quella di Falzano di Cortona del 27 giugno 1944. Ai familiari di A.D., che fu bersaglio di caccia all’uomo, che fu raggiunto e ucciso, sono stati liquidati 650.000 euro, posti a carico sia dei militari tedeschi condannati in sede penale, sia dello Stato tedesco.
Nel processo 2010-2012 per il Padule il totale delle somme liquidate in acconto – le vittime sono 174, ma non per tutte c’era stata costituzione di parte civile – ammonta a quasi quindici milioni di euro. Se la liquidazione fosse calcolata nel modo più sostanzioso seguito dal Tribunale fiorentino, il totale del debito tedesco sarebbe di 113 milioni di euro, più interessi e rivalutazione, senza contare i feriti, lo stupro, l’incendio, il saccheggio e il risarcimento agli enti territoriali e alle associazioni.
La Germania, si sa, non vuole pagare, e fa credere di sdebitarsi col finanziamento di iniziative memoriali: monumenti e convegni, cioè pietre e parole. Invece ci sono ancora in questione i beni dello Stato tedesco in Italia. In Toscana c’è un detto: «La bodda, per ’un chiedere, ’un ebbe coda»; quando fu creato, il rospo per timidezza non chiese la coda e rimase senza. Nel paese dei cavilli l’intraprendenza non è da sottovalutare. Questa storia non ha un lieto fine, ma non è neppure finita.
[Si veda qui la recensione al libro che Luca Baiada ha dedicato alla strage di Fucecchio.]