di Fiorenzo Angoscini
[Mentre l’uso della base di Sigonella, autorizzato dal Governo italiano per i bombardamenti americani in Nord Africa, apre nuovi orizzonti per il conflitto mondiale già in corso, è forse utile tornare con la memoria indietro di cento anni esatti per ricordare una delle stragi più significative del Primo conflitto mondiale sul fronte italiano. S.M.]
Era il 5 agosto 1916 quando un esercito di straccioni, composto però da uomini pieni di dignità, veniva mandato al massacro da “traditori signori ufficiali”. Destinazione Gorizia e altre terre di confine da conquistare o che comunque andavano “redente”, anche se nessuno aveva voglia di sparare ed uccidere. Stivati su treni e carri-bestiame militari, partivano con il solo biglietto di andata: cinquantunmila uomini delle truppe italiane (di cui 21.000 rimasero uccisi) e quarantamila di quelle austriache (di cui 9.000 destinati a morire), ubbidendo agli ordini di capi imbelli (circa 1.800 sabaudi e 900 austro-imperiali, i graduati deceduti), furono costretti ad eliminarsi a vicenda.
Braccianti, muratori, carrettieri e contadini con scarsa coscienza di classe, precettati per combattere una guerra finta, non per quanto riguarda il sacrificio umano, che mieteva vittime solo, o prevalentemente, fra poveri cristi a cui non importava nulla di ampliare i confini del regno sabaudo o difendere quello austro-imperiale.
Le pendici del Monte Nero sloveno e jugoslavo, gli altopiani di Asiago, del Carso, il fondo valle dei fiumi Piave, Isonzo ed Adige trasformati in un’unica enorme fossa comune (“su quei monti, colline e gran valli”).
Anche il tempo meteorologico (“pioveva a rovesci”) si era alleato ai felloni ed agli austro-ungarici-tedeschi mentre “grandinavano le palle nemiche”.
Una guerra voluta da militari di carriera, forgiati nelle accademie militari (università per ambiziosi imboscati), dai notabili di ogni risma, dagli agrari padani e piemonteis, da nobili parvenu, poeti orbi (e ciechi delle condizioni della povera gente) e dediti a imprese pseudo-epiche compiute pilotando aeroplani e dai banchieri e dagli industriali di ogni settore manifatturiero.
I comandanti di giorno comandavano gli eserciti, ordinando l’assalto a postazioni nemiche e obbligando a difendere il campo d’onore, autentico cimitero di proletari in divisa che trascorrevano il giorno e la notte immersi nella melma frammista al loro piscio e alla loro merda, mentre il pavimento delle trincee, che fungeva anche da giaciglio per sonni impossibili, sala mensa e locale per passatempi.
Gli stessi comandanti la sera tornavano alle accoglienti dimore, dalle mogli o dalle amanti agghindate e dormivano in giacigli con comodi materassi. (“con le mogli sui letti di lana”).
Mentre con le baionette, gli ultimi degli ultimi, loro malgrado, si infilzavano reciprocamente, la raccomandazione e pensiero finale era per i figli piccoli rimasti con le madri.
“Raccomando ai Compagni vicini di tenermi da conto i bambini…”
Stavano morendo e il pensiero correva ai loro cuccioli. Traditi da inamidate divise, fatte loro indossare dai macellai di una gioventù che aveva da poco compiuto i diciotto anni (i ragazzi del novantanove), ribaldi che volevano e facevano combattere una guerra in cui la vittoria sarebbe poi stata definita “mutilata”, soltanto per prepararne altre. Proprio loro, guerrafondai e reazionari di ogni risma, definirono così il risultato di quella “Grande guerra” che, ancora oggi, ci fanno festeggiare ogni anno il 4 novembre.
N. B.
Testo elaborato sulla falsariga di “O Gorizia, tu sei maledetta” di anonimo, cantata, secondo una testimonianza orale raccolta a Novara da Cesare Bermani, dai fanti italiani che il 10 agosto 1916 “conquistarono” la città friulana. Poi, ci fu Caporetto…
La mattina del cinque di agosto
si muovevano le truppe italiane
per Gorizia e le terre lontane,
dolente ognun si partì.
Sotto l’acqua che cadeva a rovescio
grandinavano le palle nemiche;
su quei monti, colline e gran valli
si moriva dicendo così:
O Gorizia, tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza;
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu.
O vigliacchi che voi ve ne state
con le mogli sui letti di lana,
schernitori di noi carne umana,
questa guerra ci insegna a punir.
Voi chiamate il campo d’onore
questa terra di là dei confini;
qui si muore gridando: assassini!
Maledetti sarete un dì.
Cara moglie, che tu non mi senti
raccomando ai compagni vicini
di tenermi da conto i bambini,
che io muoio col suo nome nel cuor.
Traditori signori ufficiali
che la guerra l’avete voluta,
scannatori di carne venduta,
e rovina della gioventù.
O Gorizia, tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza;
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu.