di Armando Lancellotti
Alberto Burgio, Marina Lalatta Costerbosa, Orgoglio e genocidio. L’etica dello sterminio nella Germania nazista, DeriveApprodi, Roma, 2016, pp.350, € 20,00
«Non si fa mai il male tanto a fondo e con tanta lietezza come quando lo si fa in coscienza» (Pascal, Pensieri, ed. Brunschvicg, n. 895).
Questa folgorante intuizione pascaliana che Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa citano a pagina 199 del libro che qui presentiamo esprime in estrema sintesi la tesi di fondo dell’interessantissimo saggio recentemente scritto dai due docenti – di Storia della filosofia il primo, di Filosofia del diritto la seconda – dell’Università di Bologna: coloro che nella Germania nazista e nell’Europa da questa occupata perpetrarono il genocidio, o se ne resero complici collaborando in differenti modi, ovvero lo tollerarono assistendo indifferenti ad esso – pertanto si inoltrarono «tanto a fondo» nella pratica del male – lo fecero «in coscienza», cioè sapendo ciò che facevano e scegliendo consapevolmente di agire in quel modo. Ora, la prassi conseguente ad una scelta libera e consapevole pertiene all’ambito dell’etica e il caso di una prassi malvagia e criminale comporta di necessità la questione delle responsabilità morali (oltre a quelle penali, politiche o storiche) degli attori di tale crimine.
Etica e/del genocidio, si diceva: “etica e” genocidio, in quanto lo sterminio degli ebrei d’Europa per essere meglio compreso, nonostante la sua apparente e da alcuni teorizzata incommensurabilità cognitiva, deve essere osservato – secondo Burgio e Costerbosa – dal punto di vista della ragione filosofica (nella fattispecie, morale); “etica del” genocidio, perché, come i due autori spiegano dettagliatamente, il regime hitleriano concepì ed elaborò una (contro)etica, una (anti)etica, un’etica del disumano che servì come quadro di riferimento (a)valoriale dell’azione omicida dei perpetratori dello sterminio di milioni di uomini.
Nelle prime pagine del libro, Burgio e Costerbosa, sulla scorta delle considerazioni di, tra gli altri, Primo Levi e Thomas Mann, constatano come la violenza scatenata dai nazisti sia stata sempre “eccessiva”, “inutilmente sproporzionata”, comunque “ridondante” e come proprio per questi suoi aspetti non possa essere spiegata come mera conseguenza meccanica di una premessa, come «pedissequa esecuzione di ordini superiori» (p. 34), ma debba essere ricondotta alla concatenazione e all’intreccio delle singole iniziative assunte, delle varie scelte compiute, ai diversi livelli della macchina genocida, da tutti coloro che di essa furono gli ingranaggi e che diedero un contributo attivo ed essenziale al perseguimento dell’esito criminale. Attori di una politica di sterminio che – si tratta di una questione ormai da molti decenni oggetto di analisi e studi, soprattutto dopo La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963) di Hanna Arendt – per lo più erano uomini e donne del tutto “normali”, “comuni”, se non addirittura individui solitamente considerabili come “persone per bene”.
Fatto questo che aggiunge sconcerto all’orrore dinanzi alla vastità senza precedenti e senza pari della violenza scatenata nel dodicennio nazista, da molti interpretata come una cesura assoluta nel corso degli eventi umani e storici, uno scisma che ha prodotto uno iato, una soluzione di continuità non ricomponibile e che ha azzerato le capacità cognitive ed interpretative della ragione, con il conseguente approdo ad una sorta di “ermeneutica negativa” dinanzi alla indicibile incommensurabilità del male. Posizione questa della indicibilità meta-storica della Shoah che ha trovato uno dei più convinti sostenitori nel recentemente scomparso Elie Wiesel, ma che gli autori di Orgoglio e genocidio rifiutano con decisione, assumendo piuttosto un punto di vista che ci sembra riconducibile a quello adorniano della Dialettica negativa. Come diceva il pensatore francofortese, il fatto che Auschwitz sia potuta accadere in mezzo a tutta la tradizione dell’arte, della filosofia, della scienza europee, dimostrando il fallimento della cultura illuministica, non deve però condurre al disarmo della ragione, la quale conserva, anzi amplifica, la propria funzione critica e pratica, nel momento in cui deve abbandonare la pretesa panlogistica di essere riconosciuta come sostanza della realtà. «È hybris il fatto che ci sia l’identità, che la cosa in sé corrisponda al suo concetto. Ma non si dovrebbe semplicemente buttarne via l’ideale: nel rimprovero che la cosa non è identica al concetto, vive anche la speranza che lo possa diventare» (Th.W.Adorno, Dialettica negativa, Torino, Einaudi, 1982, p. 134). Alla capacità critica della ragione è demandato quindi il compito di comprendere l’assurdo, di analizzare al fine di giudicare. Se infatti, come vogliono i sostenitori della indicibilità meta-storica del genocidio, quest’ultimo permanesse immobile nella sua tetragona incomprensibilità, allora verrebbe meno anche la possibilità del giudizio – il che equivarrebbe ad una paradossale ed ingiustificabile assoluzione dei colpevoli – essendo analisi e comprensione le condizioni ed i presupposti di ogni atto valutativo, anche di quello morale.
Dal punto di vista della metodologia seguita e degli strumenti applicati gli autori intendono fare interagire i contributi della storiografia, della sociologia storica, della psicologia sociale (ma anche della antropologia, della psichiatria e della psicanalisi), rifiutando gli insufficienti approcci monocausali in ragione della complessità dell’argomento affrontato e la compresenza e la convergenza di molteplici chiavi di lettura contribuiscono a rendere il libro ricco e molto articolato, complesso e completo, cioè capace di fornire un quadro d’insieme dettagliato dei risultati raggiunti, nei differenti ambiti disciplinari, nello studio del nazismo, dei suoi crimini e della Shoah e soprattutto della questione della responsabilità e della colpa tedesche.
Ma Burgio e Costerbosa – ed è questo uno dei tanti temi interessanti ed originali del libro – ritengono che spetti propriamente alla filosofia il compito della ricostruzione dell’intero, della sintesi complessiva e della comprensione alla luce di un punto di vista “universale”, superiore a quello delle singole scienze umane, vincolate alla parzialità di uno sguardo che deve attenersi ai limiti “scientifici” della verifica empirica, seppur secondo le modalità proprie delle scienze dello spirito. Questo non vale per la filosofia, sia per l’universalità della sua prospettiva sia perché alla ragione filosofica spetta il compito dell’indagine sul perché, sul senso complessivo sulla «forma della mente o dell’anima degli attori di questa vicenda [per arrivare] al fondo ultimo dei loro pensieri […] dal quale scaturiscono i giudizi, nel quale si strutturano le scelte, le decisioni e le azioni». (p. 10)
L’interesse della filosofia è per l’intero; il suo fine è euristico e conoscitivo; gli strumenti sono polivalenti e la sua natura è “modestamente” aporetica, non pretendendo la ragione filosofica di formulare ipotesi falsificabili, cioè scientificamente oggettive e pertanto è in grado di avventurarsi in un terreno «che né la storiografia né gli altri saperi accettano di percorrere: lo spazio della soggettività […] intesa come ciò che dà logica e senso alla vita conscia e inconscia della mente». (p.10) Spetta quindi alla filosofia tracciare un coerente quadro d’insieme e, soprattutto, disegnare il contorno della forma mentis genocida.
Tra i tanti individuabili all’interno del libro, tre ci sembrano i punti di riferimento teorici che accompagnano costantemente il dipanarsi del ragionamento e del discorso di Burgio e Costerbosa: Raul Hilberg, Hanna Arendt e Immanuel Kant.
Hilberg perché, nonostante – secondo Burgio – il tratto tendenzialmente deterministico del suo approccio prevalentemente funzionalista (determinismo che, come vedremo, gli autori del libro sottopongono a puntuale critica), il suo modello analitico ed interpretativo, per la prima volta proposto nell’ormai lontano 1961, mantiene la sua validità ed affronta il problema delle responsabilità tedesche attribuendole alla società, alle istituzioni e allo stato tedeschi nel loro insieme, evidenziando anche come ogni componente di essi abbia dato un proprio fondamentale contributo attivo, fattivo, se non addirittura solerte, e quindi non solo meramente passivo, alla realizzazione dello sterminio.
Delle riflessioni di Hanna Arendt sul nazismo e la Shoah i due studiosi utilizzano soprattutto La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, considerato da Burgio un lavoro talvolta riduttivamente interpretato, ma ancora insuperato dal punto vista – che è proprio quello che Orgoglio e genocidio ripropone – di un approccio cognitivo di tipo filosofico alla questione del genocidio e della responsabilità morale. Perché è nel campo dell’etica che gli autori collocano la materia del loro discorso ed è all’individuazione delle responsabilità individuali e collettive di coloro che in misura differente parteciparono allo sterminio e alla comprensione delle ragioni e delle dinamiche della loro scelta (im)morale genocida che si indirizzano le finalità del libro.
Autonomia del soggetto morale, consapevolezza della scelta, responsabilità rispetto alle conseguenze e moralità dell’azione: sono questi i “paletti” dentro ai quali dobbiamo collocare l’azione dei carnefici e dei tanti altri che in modi estremamente diversi parteciparono alla politica genocida del Terzo Reich.
Infine, proprio l’attenzione per la questione della “responsabilità” e della “scelta” come istanze imprescindibili per la retta comprensione del genocidio nazista conduce ad un costante riferimento ai principi fondanti dell’etica kantiana (l’autonomia del soggetto morale; la libertà come condizione e sostanza dell’agire; la dignità dell’uomo e il suo rispetto come elementi costitutivi dell’imperativo etico) e alla frequente riproposizione di stilemi di pensiero kantiani.
Il libro si compone di sei capitoli, di cui il primo, il quarto e il sesto scritti da Alberto Burgio, il secondo, il terzo e il quinto da Marina Lalatta Costerbosa.
Nel primo capitolo (Crimini condivisi), il discorso di Burgio prende le mosse dall’intento di sottoporre ad una generale e complessiva critica quelle interpretazioni – soprattutto storiografiche – del nazismo (e dei suoi crimini) che nell’insieme si possono considerare viziate da un comune determinismo. Come è noto, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, la storiografia del nazismo si è articolata e divisa nelle due grandi correnti degli intenzionalisti e dei funzionalisti, a loro volta poi internamente articolate in un ventaglio di diverse posizioni a seconda del radicalismo o della moderazione con cui l’idea portante delle rispettive posizioni viene proposta. Impostazioni critiche che, per quanto nel corso degli anni sostituite da altre, costituiscono due contrapposti macro paradigmi interpretativi del regime hitleriano, ma convergenti su un punto fondamentale: una lettura deterministica dei meccanismi e delle modalità di funzionamento del regime, delle sue istituzioni e dell’intera società tedesca e, nella fattispecie che interessa a Burgio, del comportamento dei carnefici e dei loro collaboratori. In queste letture prevale la forza del condizionamento esogeno (di volta in volta il volere del Führer, la catena di comando, il fascino seducente dell’ideologia, la pervasività della propaganda, l’inflessibilità della repressione, gli effetti atomizzanti della società di massa, le dinamiche spersonalizzanti delle pratiche burocratico-amministrative dello Stato moderno, ecc) che si traduce nella equazione totalitarismo = eterodirezione assoluta dell’individuo, attore pressoché inconsapevole di comportamenti prevalentemente indotti, rispetto ai quali, conseguentemente, è da ritenersi scarsamente responsabile.
Fatto salvo l’assunto che a tutti i fattori sopra elencati occorre riconoscere pro quota un ruolo ed un’importanza rilevanti in relazione all’affermazione e al funzionamento di un regime totalitario in generale e di quello nazista nel particolare e che – riteniamo – anche le dinamiche esogene siano da tenere nella giusta considerazione, condividiamo, con Burgio, l’opportunità di indebolire il paradigma eterodirettivo e di riportare al centro dell’attenzione l’analisi delle intenzioni, delle motivazioni, delle scelte libere e consapevoli e quindi responsabili che, comunque e sempre, stanno alla base del comportamento umano, anche di quello più esternamente e strutturalmente condizionato.
A ciò si aggiunga che le letture di tipo deterministico rischiano, ben al di là delle loro intenzioni, di fare propri o di avvallare i teoremi giustificativi o autoassolutori dei carnefici stessi che ricorrono sempre agli argomenti della necessità o inderogabilità degli ordini, della inconsapevolezza circa le conseguenze della loro azione, o della cosiddetta “obbedienza cadaverica”, cioè l’esecuzione di un ordine in quanto ordine (Befehl ist Befehl), argomentazioni nelle quali i principi del determinante condizionamento situazionale e della spersonalizzazione della scelta fanno da denominatore comune.
Burgio si rifà al noto saggio di Hilberg, Carnefici, vittime e spettatori, ma integra la tipizzazione dello storico austro-statunitense inserendo la “zona grigia” dei collaboratori, intermedia tra quella degli spettatori (bystanders) e quella dei carnefici, cioè i “perpetratori immediati”. Per quanto riguarda questi ultimi, si devono considerare innanzi tutto gli uomini delle SS, dei battaglioni di polizia, delle Einsatzgruppen, i soldati e gli ufficiali della Wehrmacht, ai quali poi si aggiungono tutti gli uomini e le donne di quei ministeri, apparati, istituzioni, uffici dello stato tedesco che attivamente e assiduamente presero parte (ancora una volta il riferimento è allo schema hilberghiano di La distruzione degli Ebrei d’Europa) alla identificazione, all’espropriazione, alla ghettizzazione e infine allo sterminio degli ebrei. Un totale di – calcola Burgio – 200/500 mila tra tedeschi, austriaci e Volksdeutsche (tedeschi etnici), per i quali le argomentazione deresponsabilizzanti prima riportate non reggono dinanzi ad una dettagliata analisi dei casi e alla luce dei documenti e delle testimonianze. Ciò che invece sempre emerge è che costoro «seppero e vollero compiere i propri crimini» (p. 40) nei lager o altrove, infierendo sulle loro vittime.
Si trattò di una libera scelta all’interno di un ventaglio di possibili opzioni di comportamento; gli unici che – ricorda Burgio – non avevano scelta, che si trovarono di fronte a “scelte senza scelta” furono le vittime, non certo i carnefici.
L’inconsistenza degli argomenti dell’inconsapevolezza, dell’impossibilità di fare altrimenti et similia si applica anche al caso della “zona grigia” dei “collaboratori”, che Burgio, facendo propria la tesi di Hilberg della consustanzialità e coincidenza di stato e società tedesche e regime nazista, individua nelle élites militari (grate a Hitler per l’eliminazione delle S.A. e per la politica di riarmo); negli esponenti del mondo accademico e universitario (profondamente coinvolto nell’opera di elaborazione e divulgazione della Weltanschauung nazista e razzista) e in particolare nella categoria dei medici (il cui contributo alla criminale politica eugenetica di salute e difesa della razza germanica fu essenziale); nel personale dell’apparato burocratico del Reich («una massa di normali burocrati ambiziosi ed accondiscendenti» (p.47) nonché solerti e competenti); negli imprenditori privati (che non si lasciarono sfuggire l’occasione di fare affari, che fiutarono come conseguenza della politica antisemita del governo); ed infine nei delatori, cioè «quanti permisero alla Polizia politica del regime di invadere ogni spazio […] e di stendere sull’intera società tedesca una pervasiva rete di controllo» (p.50).
Infine gli “spettatori”, cioè coloro che non parteciparono ai crimini, ma che comunque per lo più «condivisero e sostennero. E parteciparono anche evitando di agire quando avrebbero potuto farlo». (p. 57) In questo caso, per spiegare il comportamento dell’”uomo della strada” si rende necessario affrontare – sostiene Burgio – la questione del consenso politico, problematica particolarmente complessa e di difficile analisi soprattutto quando assume la forma del “consenso totalitario”, ma che nella Germania del dodicennio nazista, di fatto, fu raccolto in modo solido e consistente dal regime. Si trattò di una adesione diversamente motivata ed estremamente differenziata per tipologia e grado, ma che produsse l’effetto di una condivisione di massa, da parte di molti milioni di tedeschi, dei programmi e delle azioni politiche del regime e quindi anche delle sue pratiche criminali e genocide, che il popolo tedesco, forse non nei minimi particolari, ma certamente nella sostanza, conosceva e che quindi – ancora una volta – volle, decise liberamente di appoggiare o almeno di non ostacolare.
Se uno degli alibi preferiti dai criminali nazisti o una delle argomentazioni autoassolutorie più frequenti era quella secondo cui “la legge è la legge” e ad essa si deve obbedire comunque, indipendentemente dal contenuto che ordina, allora risulta di cruciale importanza prendere in considerazione – come fa Marina Lalatta Costerbosa nei capitoli secondo (Il cavallo di Troia della legalità) e terzo (Legalità e consenso. I capi e la società) – le modalità e le conseguenze dei processi di ridefinizione dei concetti e dei principi di legalità e giustizia e di stravolgimento del diritto che si verificarono in Germania successivamente alla ascesa al potere del partito nazionalsocialista. Ridefinizione dei fondamentali principi giuridici che agì da supporto alla politica criminale del regime, legittimandone la catena delle norme e dei comandi e rassicurando i destinatari dei medesimi ordini circa la legittimità dell’operato conseguente, anche di quello criminale. Lo studio di queste problematiche e di queste dinamiche può contribuire – secondo la studiosa – alla comprensione della complessa questione del consenso di massa, di milioni di uomini comuni, ai regimi totalitari.
Centrale nella disamina del problema proposta da Costerbosa è la tesi per cui il nazismo adottò, piegandoli alle proprie necessità, i concetti giuspositivistici di legalità e giustizia, che si definiscono sulla base dell’assunto fondamentale del giuspositivismo stesso, che pone una irriducibile differenza tra il diritto e la morale, in quanto quest’ultima è esterna ed estranea al diritto; diritto che ha natura imperativa, coincidendo col comando del potere sovrano a cui si deve obbedienza. Come vuole Kelsen, il diritto è moralmente neutro ed indipendente dal giudizio morale e la giustizia si identifica con la legalità, ovvero l’applicazione di una norma positiva, che non riguarda il contenuto della norma medesima.
Se da un lato non è difficile comprendere come le istanze fondamentali della teoria giuspositivistica del diritto si prestassero ad essere estremizzate e strumentalizzate dal nazismo, dalla sua visione gerarchico-militare della società e dei rapporti sociali, dalla sua idea totalitaria del potere, da quell’essenziale Führerprinzip che considera il Führer fonte di diritto e di giustizia, per diventare infine parte integrante della dottrina nazionalsocialista del diritto; dall’altro è indispensabile riconoscere che il regime fu capace di recuperare, stravolgendoli al punto da capovolgerli, anche principi e idee della dottrina del diritto naturale, per i quali la legalità va messa in relazione alla legittimità, cioè con la giustizia intesa come moralità dei contenuti della norma positiva.
Il nazismo quindi elaborò propri contenuti (a)morali che fecero da fondamento della legittimità delle leggi e delle norme emanate, ma mentre qualsiasi forma di giusnaturalismo si incardina sull’idea essenziale che prioritaria e assoluta sia la difesa dei diritti soggettivi, in quanto per l’appunto naturali, il “giusnaturalismo nazista” considerò “naturali” dei (non)diritti razzisti e disumani che violavano e negavano i diritti soggettivi. «Si pensi che si giunse addirittura a qualificare il Naturrecht (diritto naturale) come völkisch (nazionalistico) oppure nationalethnisch (etnonazionalistico): una palese contraddizione in termini». (p. 111)
Ne conseguì un violento stravolgimento del diritto e della legalità, preparato e permesso anche da quei prodromi negativi che erano presenti nella Costituzione di Weimar: Marina Lalatta Costerbosa si riferisce (p.121) in particolare a quell’articolo n.48 della Costituzione repubblicana che agì da condizione di possibilità della Ermächtigungsgesetz (la Legge dei pieni poteri) del 28 febbraio del 1933, in quanto, consentendo, in condizioni eccezionali, al presidente di sospendere in tutto o in parte l’efficacia dei diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti, permise al Cancelliere da un mese in carica, Adolf Hitler, di cancellare lo stato di diritto e tra le altre cose di istituire i campi di concentramento. «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione», aveva scritto nel 1922 Carl Schmitt in Politische Teologie.
Quanto arrogante era stato lo sfregio del diritto nel dodicennio nazista tanto profondi dovettero essere il ripensamento e la riformulazione dei principi giuridici fondamentali dopo il 1945. A tal proposito l’autrice si riferisce in particolare all’opera di Gustav Radbruch che nel 1947 ritenne necessario riproporre con forza la teoria secondo cui vi è un diritto oltre e al di sopra della legge positiva, rispetto al quale quest’ultima può risultare un “torto legale”. Al fine di fissare un criterio sostanziale ed universale che fosse in grado di dirimere tra legge legittima e torto legale, Radbruch – ricorda Costerbosa – definisce il concetto di “equità”, che significa «giustizia essenziale, il requisito minimo di moralità che una norma, una legge, un istituto, una sentenza deve esibire per potersi dire tale. […] Funziona al negativo: tutto rientra nella sfera scarna ma costitutiva dell’equità, salvo ciò che manifesta un grado di ingiustizia, appunto di iniquità, non sopportabile, palese, al di là di ogni ragionevole dubbio, con ogni evidenza, secondo ogni intuizione razionale». (pp. 90-91)
Pertanto Radbruch parlò di “ingiustizia legale” e di “giustizia sovralegale”: la prima sistematicamente perpetrata, la seconda regolarmente ignorata dai nazisti.
Sempre Radbruch scriveva, anticipando – fa notare Lalatta Costerbosa – Hanna Arendt di quindici anni: «Fu grazie a due principi che il nazionalsocialismo seppe incatenare a sé i suoi seguaci, da un lato i soldati, dall’altro i giuristi: “Un ordine è un ordine!” e “La legge è la legge”». (p. 97) E proprio il secondo principio, secondo l’imperante pensiero giuspositivistico, valeva incondizionatamente.
Per Radbruch invece tre sono i valori che conferiscono validità alla legge: in ordine di importanza, la giustizia, la certezza del diritto e l’utilità o conformità allo scopo. Per il filosofo del diritto tedesco, pertanto, «giusta è la legge certa che sancisce l’uguaglianza tra le persone entro la comunità umana». (p. 100) Ma anche alla certezza del diritto, come vuole la tradizione del giuspositivismo, vanno riconosciuti valore ed importanza e pertanto, secondo Radbruch, in caso di conflitto tra giustizia e certezza del diritto occorre individuare un criterio-soglia al di sotto del quale è opportuno far prevalere la certezza anche a fronte di inutilità ed ingiustizia della legge, ma al di sopra del quale la certezza non ha più valore e la legge diventa un torto, o meglio si capovolge nel suo opposto, in non-diritto.
Questo criterio-soglia, questo limite fu violato sistematicamente per tutta la durata del Terzo Reich, che si presenta quindi come un esempio nella storia dei sistemi giuridici di “Stato del non-diritto”.
Osserva infine Costerbosa: «Ma se non erano leggi [quelle naziste], non era scontato il dovere di sottomissione e a decadere sarebbero stati anche gli effetti giuridici da esse generati». (p. 98)
Milioni di tedeschi, invece, assolutizzarono dogmaticamente il precetto giuspositivistico della legge per la legge e nascondendosi dietro questo paravento di immorale ed illegale legalità prestarono al regime la loro disponibilità al male e al crimine genocida.
Nel capitolo quarto (Il problema delle motivazioni) è di nuovo Alberto Burgio a portare avanti l’interessante ed approfondita analisi sull’etica del genocidio nella Germania nazista, affrontando la questione decisiva delle intenzioni e dei motivi, delle convinzioni e dei pensieri che mossero la volontà di tanti tedeschi a seguire e a realizzare i programmi omicidi del governo. La storiografia, pur non potendo eludere completamente il problema, fatica a formulare una risposta e pertanto il discorso si estende ad altri approcci, alla sociologia storica, alla psicologia sociale, ma anche alla antropologia, alla psichiatria e alla psicanalisi.
Secondo Burgio, come è importante tenere conto del fatto che il nazismo ha rappresentato una cesura epocale che ha marcato una discontinuità profonda nella storia contemporanea, così lo è altrettanto cogliere i nessi e le relazioni di continuità con il contesto storico di lungo periodo nel quale si colloca, con la tradizione della storia, della cultura e della mentalità tedesche, cioè considerare la «capacità che il regime ebbe non solo di intercettare bisogni della popolazione, ma anche di porsi in comunicazione con il senso comune del tedesco medio». (p. 164) In queste pagine Burgio si serve soprattutto di Norbert Elias che nel suo I tedeschi definisce «l’”habitus nazionale” tedesco, segnato in modo particolare da due corollari del militarismo: il bisogno di ordine (la deferenza verso l’autorità, la gerarchia, la disciplina e l’obbedienza) e il nazionalismo aggressivo (a sua volta risultante dalla combinazione di comunitarismo e imperialismo)». (p. 165)
Il principio dell’autorità e di conseguenza quelli della incondizionata sottomissione, della esecuzione scrupolosa degli ordini, del rispetto delle gerarchie costituite (dallo Stato all’esercito, dalla scuola alla famiglia, ecc) erano componenti essenziali e determinanti della mentalità e del costume medi dei tedeschi nati a cavallo tra il XIX e il XX secolo. La tipologia di relazione interpersonale e sociale paradigmatica divenne quella gerarchica (in sostanza militare) che si estese a tutti i settori della società. Questo fenomeno da un lato produsse la tendenza dei tedeschi ad affidarsi agli ”ordini superiori”, a delegare al più alto per grado o per ruolo l’onere e la responsabilità della decisione; dall’altro – osserva Burgio – produsse «con ogni probabilità anche l’assunzione feticistica del principio di prestazione, in base al quale non conta cosa l’autorità ordini di fare ma il farlo bene, fino in fondo, soddisfacendo le aspettative dei superiori». (p. 166)
Conseguenza del principio di prestazione, come modalità di approccio al proprio lavoro o alla azione in genere che si è chiamati a svolgere, è da ritenersi anche la «peculiare Gründlichkeit tedesca», ossia la “maniacale scrupolosità”, consistente nel “bisogno” di portare fino in fondo l’incarico assunto, di svolgere a tutti i costi il compito assegnato, quasi identificandosi completamente con quell’incarico. Come fece notare Arendt, per un tedesco «essere ligi alla legge non significa semplicemente obbedire, ma anche agire come se si fosse il legislatore che ha stilato la legge a cui si obbedisce». (p. 95)
Evidentemente una mentalità ed un costume di questo genere conducono alla deresponsabilizzazione, alla rinuncia al dovere di giudicare del valore delle cose, del bene e del male delle azioni compiute; produce – dice Burgio – il passaggio dalla “coscienza” alla “coscienziosità”, dalla consapevolezza critica di sé e del proprio agire alla scrupolosa, ma irresponsabile, esecuzione di un compito.
Il militarismo prussiano, ereditato dalla Germania di Bismarck e di seguito guglielmina, esercitò senza alcun dubbio un ruolo determinante nella modellatura di tale forma mentis, prona dinanzi all’autorità, ligia al dovere, solerte e meticolosa nella esecuzione dei compiti, ma è soprattutto al modello educativo che si rivolge l’attenta analisi di Burgio, sulla scorta delle considerazioni di Elias: «un modello educativo mutuato dall’organizzazione militare e teso a consolidare l’autorità costituita e i sistemi gerarchici di comando, inibendo e delegittimando anche sul piano morale l’esercizio individuale dell’autonomia critica e plasmando, tendenzialmente, personalità per le quali le autocostrizioni imposte dalla coscienza funzionano soltanto se assoggettate a loro volta all’”eterocostrizione” di un potere superiore». (p. 167)
Al bisogno di ordine, al feticismo della disciplina e dell’autorità si collegò poi l’altra istanza portante dell’habitus nazionale tedesco, cioè il nazionalismo aggressivo, che soprattutto in età guglielmina divenne il principio guida della politica estera tedesca (Weltpolitik). Burgio considera le ben note differenze concettuali sottese alle due parole che nella lingua tedesca si usano per esprimere il concetto di patria: Vaterland e Heimat.
Vaterland letteralmente significa “padre-patria”, “terra-padre”, è la patria intesa come nazione che assume i tratti autoritari, duri ed impositivi del padre prepotente che pretende di essere obbedito senza remore; Heimat invece e la “piccola patria”, cioè il luogo di nascita, la “terra-madre”, accogliente e rassicurante in quanto custode dell’identità e dell’animo del Volk.
In realtà, al di là delle differenze, i due concetti sono complementari e si cementarono tra loro, creando un’ideologia organicistica e comunitaria (Gemeinschaft) e popolare (Volk), su cui si innestò poi il mito della omogeneità e della purezza della comunità, che presto divenne mito della purezza del “sangue” e del suo vitale legame con il “suolo” e infine mito della razza, della purezza e superiorità della Volksgemeinschaft ariana.
Il bisogno comunitario di sentirsi parte di un corpo organico, di una comunità coesa tenuta assieme dal feticismo della disciplina, dal principio di prestazione e dell’obbedienza cieca produsse – osserva Burgio – «una paradossale etica della responsabilità che tendeva a risolversi nella sua antitesi: in un’etica della “minorità” (del servilismo e della complicità) che nobilitava la rinuncia all’autonomia e induceva alla delega della responsabilità personale a beneficio dei poteri sovraordinati». (pp. 174-175) Non a caso Burgio usa il temine “minorità” per qualificare questa “paradossale” etica, che sorda all’illuministico e liberatorio appello kantiano di abbandonare lo “stato di minorità”, di esso faceva il proprio habitus.
Il logico corollario di una simile ideologia comunitaria fu un’aggressiva mentalità manichea, portata all’esclusione e alla contrapposizione del gruppo di “noi” al gruppo di “loro”, di chi è fuori dalla comunità o, peggio ancora, è ritenuto un pericolo, una minaccia.
Hitler e il nazismo non si limitarono ad ereditare i caratteri dell’habitus nazionale germanico, ma li portarono alla loro suprema espressione e fornirono un codice di (non)valori tagliato e cucito su misura della forma mentis qui descritta: una autentica etica del disumano che la maggioranza del popolo tedesco non faticò particolarmente ad introiettare. In un contesto oltremodo inquieto e problematico, come quello della sconfitta nella Grande Guerra e dei trattati di Versailles, delle crisi economiche ed in particolare di quella del ’29; in un clima di delusione, disorientamento, di esacerbato rancore e di perdita di fiducia nelle istituzioni della repubblica e nei suoi partiti, il nazismo seppe incanalare le angosce dei tedeschi e Hitler compì un lavoro di emersione, estraniazione e ipostatizzazione dei “demoni” che latenti erano cresciuti ed avevano prosperato nell’animo del popolo. I traumi e le paure furono proiettati fuori dalla coscienza collettiva e oggettivati in una serie di nemici concreti contro i quali combattere per la salvaguardia della comunità. Dinanzi al disordine e al caos politico degli ultimi anni di Weimar, «il desiderio di sicurezza e di ordine divenne impellente, e così la domanda di unità, di appartenenza, di protezione e di rassicurazione. Alle paure […] molti tedeschi reagirono invocando lo spirito della comunità germanica. […] Chiedevano nuove certezze, nuovi miti redentivi. […] sulla scelta di consegnare la Germania ai nazisti influì […] una spasmodica attesa di redenzione e di fusione in una collettività mistica». (pp. 180-181)
E il nazismo ed il suo leader carismatico tutto questo furono in grado di fornirlo al popolo tedesco, ma ad un prezzo altissimo, quello della rinuncia alla coscienza e alla volontà individuali in funzione della fusione con una comunità di uomini “minori”, irresponsabili, che hanno rinunciato alla propria autonomia di individui liberi e consapevoli; uomini che furono pronti ad adottare la “tavola dei valori” di una nuova etica che – Burgio sottolinea con forza come questo sia uno degli aspetti distintivi e più significativi del nazismo – il regime pretese di elaborare attraverso la negazione e il capovolgimento dei precetti etici tradizionali ed in particolare cristiani. Nuovi valori nazisti in cui credere, anche solo parzialmente, o in cui fingere di riporre fiducia al fine di innescare un meccanismo di rassicurante autoinganno assolutorio utile per la gestione di un conflitto morale che non poteva non insorgere, anche nei carnefici più violenti, davanti all’orrore da loro stessi prodotto.
Di grande interesse sono le pagine in cui Burgio redige la tavola di questi valori etici nazisti, partendo dall’assunto per cui, come ogni dottrina etica, anche quella nazista associa il bene alla vita, ma il valore della vita non viene più declinato in termini universalistici, ma in termini particolaristici ed esclusivi, compartimentati. A contare è solo la vita del Volk, la sua salute e quella dei Volksgenossen, non quella degli altri, che, al contrario, diviene ostacolo, pericolo da combattere. Pertanto, con un paradossale rovesciamento dei termini, per garantire la vita di alcuni uomini è buono e moralmente legittimo ucciderne altri (altre razze o le vite “non degne” perché malate, ecc). È una «etica etnocentrica e razzista […] intessuta di “valori” correlati alla superiorità dello Herrenvolk». (p. 200) «Giungiamo così rapidamente al cuore dell’etica nazista, dove la distruzione dell’umanità come universale si connette alla eroicizzazione dei “carnefici” e questa alla produzione di un lessico dell’orgoglio genocida» (p. 204), a cui fa da contraltare – ancora una volta per ribaltamento dei criteri morali tradizionali – la colpevolizzazione delle vittime. Ne consegue che la somma virtù divenne la “durezza” – cioè la spietatezza, il disprezzo per la compassione e per ogni altra forma di sentimento umanitario – a cui associare la più ferrea abnegazione nel portare avanti l’opera di realizzazione di una volontà altrui: quella del Führer.
Ancora una volta – come ci insegna Burgio – decisiva fu la scelta, dei carnefici, dei collaboratori e di buona parte dei tedeschi, di non decidere, di “farsi decidere da altri”; ma si trattò pur sempre di una decisone, che richiede l’assunzione di responsabilità.
E sulla natura e sulle diverse tipologie della responsabilità ragiona il quinto capitolo (La molteplice responsabilità) scritto da Marina Lalatta Costerbosa, che, dopo aver ricostruito il panorama completo delle forme di responsabilità, si concentra su quella più pertinente alla problematica affrontata dal saggio: la “responsabilità morale e personale”, imputabile ai perpetratori diretti del genocidio nazista e ai loro collaboratori, innanzi tutto e al popolo tedesco nel suo complesso, di conseguenza. Si tratta – scrive l’autrice – «della responsabilità riferita ad un soggetto umano capace di intendere e di volere, quella responsabilità che ha a che fare con l’agire dell’uomo. E questo non sotto il profilo giuridico (civile e penale) […] bensì dal punto di vista morale e nelle sue diverse gradazioni, ovvero, a seconda dei differenti livelli di coinvolgimento e di intenzionalità nell’azione e nelle condotte d’azione sotto esame». (p. 230)
Fanno da sfondo generale alle considerazioni di Costerbosa le riflessioni di Hans Jonas e del suo Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica in cui il filosofo tedesco chiarisce come la responsabilità, pur non costituendo di per sé ancora la morale e non ponendo da sé degli scopi all’azione, sia la condizione preliminare della morale stessa. La responsabilità, continua Lalatta Costerbosa, significa «capacità di autocontrollo rispetto ad azioni che fuoriuscirebbero dal perimetro di ciò che è ritenuto moralmente lecito» (p. 232), ciò vuol dire «capacità di impedire a se stessi di compiere un’azione determinata, rispettando la norma che la vieta». (p. 239)
Pertanto, la responsabilità, presupposto e condizione dell’azione morale, a sua volta presuppone la deliberazione autonoma, l’autonomia e l’indipendenza del soggetto morale, come bene ha chiarito nella Critica della Ragion pratica Kant, recisamente contrario a letture deterministiche dell’esperienza etica, oggigiorno rilanciate come conseguenza dello sviluppo delle neuroscienze.
Quattro sono secondo Costerbosa le condizioni di possibilità della responsabilità morale: l’assenza di qualsiasi forma di determinismo etico; la consapevolezza, almeno parziale, delle conseguenze dell’azione intrapresa; l’autocontrollo, come sopra definito; la percezione del sentimento di responsabilità.
Ancora il filosofo di Königsberg ed Agostino, letti attraverso Paul Ricoeur, fanno da punti di riferimento essenziali della breve, ma molto interessante, ricostruzione operata dalla studiosa di un problema annoso della riflessione filosofica (e teologica), quello della natura ed origine del male; il problema della teodicea.
La teoria agostiniana della non sostanzialità del male, interpretato come un nihil privativum, come una privatio boni, a cui fa da contraltare l’equazione tra essere e bontà e da corollario l’incommensurabile distanza ontica tra creatore e creatura, causa dell’imperfezione dell’uomo e condizione di possibilità del peccato, cioè del suo libero allontanamento dalla via maestra del bene di dio, trovava una soluzione (che incontrò molta fortuna) tanto sul piano ontologico della spiegazione della natura del male in relazione all’essere e a dio, quanto sul piano morale dell’origine dell’azione malvagia.
Secondo Costerbosa e come osserva Ricoeur, i termini della riflessione filosofica sul male dopo secoli di riproposizione del paradigma agostiniano mutano grazie a Kant, con il quale viene meno l’impostazione onto-teologica della teodicea e il male riguarda solo la sfera pratica e soggettiva dell’azione e della riflessione morale, non più quella oggettiva dell’ontologia; con Kant «non si può più domandare donde viene il male, ma donde viene che noi lo facciamo». (p. 245)
È un processo di laicizzazione (il male radicale prende il posto del peccato originale) e di soggettivizzazione della questione del male quello che avviene con Kant, che pone al centro dell’esperienza morale l’autonomia del soggetto che avverte in sé la propensione al male a fronte della predisposizione al bene come termini estremi della libera scelta individuale.
E ancora a Kant fa riferimento Marina Lalatta Costerbosa per definire il concetto di dignità umana e per ricondurre il discorso al tema delle responsabilità dei crimini nazisti. Il dovere del rispetto della dignità dell’uomo in se stessi e negli altri è imperativo categorico assoluto per Kant e «l’idea kantiana di dignità riesce a spiegare via negationis l’ottundimento della responsabilità» avvenuto in modo generalizzato nella società tedesca del dodicennio nazista: offende e perde la propria dignità di uomo il burocrate che ottusamente esegue il proprio compito senza farsi domande; nega e violenta la dignità dell’altro il carnefice che scarica la sua furia criminale su vittime precedentemente disumanizzate; e la vittima cerca disperatamente di difendere o di trattenere una minima parte di quella dignità umana che le viene strappata dalla violenza altrui.
Laddove e quando l’universale etico del rispetto della dignità umana lascia il posto al disprezzo della vita si producono le condizioni affinché gli uomini possano compiere l’irresponsabile scelta del male estremo. Questo ci fa pensare alle riflessioni che Karl Jaspers nel 1946 propose nel suo La questione della colpa circa le responsabilità del popolo tedesco. Come è noto il filosofo articolava il concetto di colpa secondo quattro tipologie, tutte imputabili ai tedeschi, individualmente e collettivamente – colpa giuridica, politica, morale ed infine metafisica – e l’ultima, la “colpa metafisica”, consiste nella violazione del principio di solidarietà che dovrebbe unire gli uomini tra loro e che rende ogni individuo corresponsabile in parte delle ingiustizie e dei torti subiti dall’umanità, soprattutto quando questi avvengono in sua presenza o quando ne è a conoscenza e pertanto non ha fatto tutto ciò che avrebbe potuto per impedirli.
Il riferimento a Jaspers è funzionale al passaggio all’analisi del sesto ed ultimo capitolo di Orgoglio e genocidio (Un’ottusità deliberata), in cui Alberto Burgio fa risalire proprio al confronto tra Hanna Arendt e il maestro Karl Jaspers, interrottosi nel 1933 e ripreso nel 1946, il ripensamento compiuto dalla filosofa di Hannover delle posizioni sul nazismo da lei stessa espresse in Le origini del totalitarismo, nonostante il carteggio tra il maestro e l’allieva di un tempo avvenga cinque anni prima della pubblicazione delle Origini (1951) e non nei dodici che separano questa opera dalla Banalità del male (1963), in cui tale ripensamento produce i suoi principali e più importanti effetti.
Nello scritto del 1951, infatti, il discorso della Arendt muove dall’analisi della società di massa, nella sua versione totalitaria e sfocia in conclusioni rigidamente deterministiche, che, applicando il modello eterodirettivo, pongono l’accento sulla «assoluta subordinazione degli individui assoggettati al potere della dirigenza nazista, ridotti a semplici marionette» sedotte dall’ideologia e mosse dalla pervasiva propaganda capace di creare un mondo fittizio «nel quale milioni di tedeschi sarebbero vissuti per dodici anni come prigionieri ignari» (p. 287) e pertanto anche scarsamente responsabili delle loro azioni; «uomini in senso proprio de-menti, privi di volontà e di coscienza». (p. 289)
Ma Burgio mostra come in uno scritto del 1945, Colpa organizzata e responsabilità universale, e nelle comunicazioni con Jaspers, Arendt avesse già iniziato ad elaborare concetti che, dopo un periodo di latenza di più di quindici anni, sarebbero stati poi alla base del saggio sul processo ad Eichmann. In questo scritto, infatti, troviamo un primo abbozzo del concetto di “normalità” di quegli uomini che si trasformarono in carnefici, grazie alla capacità del regime di sfruttare l’antropologia del “bravo cittadino borghese”, «buon lavoratore e rispettabile “pater familias”, preoccupato del benessere del proprio nucleo famigliare e tendenzialmente indifferente verso la sfera pubblica» (p.295), che in cambio di sicurezza e tutela degli interessi privati prestò al regime la propria disponibilità all’azione criminale, rassicurato dal senso di impunità e dalla irresponsabilità prodotti dall’alibi autoassolutorio della catena di comando, degli ordini superiori ricevuti all’intero dell’apparato burocratico dello stato. E – ribadisce con forza l’autore – si trattò «di uno scambio nel quale il regime aveva concesso vantaggi materiali e ottenuto consenso e complicità. Ma uno scambio del genere […] chiamava in causa la libera scelta dei tedeschi di accettare le proposte del regime […]. Da una parte benessere e sicurezza, con in più la garanzia dell’impunità; dall’altra, la violenza nei confronti dei deboli, dei diversi, degli estranei: una scelta sin troppo ragionevole (propria di accorti homines oeconomici) e persino paradossalmente morale, dettata dal senso di responsabilità verso la famiglia». (p.296)
Ne La banalità del male Arendt sviluppa questa linea di pensiero e la applica allo studio di un caso che intende presentare come paradigmatico, il significato del quale cioè trascende la specificità del caso medesimo e si allarga fino a comprendere e a spiegare il comportamento della maggioranza dei tedeschi: il processo svoltosi a Gerusalemme contro Adolf Eichmann. Per rispondere alla domanda essenziale – che, come abbiamo visto, secondo Burgio solo la filosofia è in grado di affrontare in modo pertinente – “perché Eichmann ha voluto essere un carnefice?”, Arendt enuclea e descrive una nuova e desolante configurazione della mente, quella della “ottusità morale”, della “stupidità”, della Banalität, come già l’aveva definita Jaspers.
Si tratta della questione filosofica dell’enigma della libertà dell’uomo, di un uomo consapevole e libero e al tempo stesso “normale”, cioè non affetto da turbe mentali o mentalmente debole, che prende la decisione autonoma di compiere il male, un male criminale ed estremo. Ne consegue che – dice Burgio – quello che «Arendt elabora è un dispositivo filosofico, teoretico, che non si limita a recepire e riformulare problematiche storiografiche o psicosociali ma le integra con l’analisi dello stile cognitivo e riflessivo del soggetto, e della sua prospettiva morale ed etica […] sulla base del presupposto dell’autonomia e della responsabilità personale». (p. 299)
Il male compiuto da uomini come Eichmann è vuoto, privo di senso e di profondità, superficiale, insensatamente eccessivo e in tal senso “banale”; può distruggere il mondo perché – scrive Hanna Arendt – «si espande sulla sua superficie come un fungo» (p. 303), si propaga come un’epidemia ma non ha la “profondità” del “male radicale” kantiano. E chi è colui che pratica questo male “banale” e nella sua banalità estremo e senza limite? La risposta di Arendt è nota: l’attore di questa esperienza è un soggetto “insulso”, “sconsiderato”, un uomo “privo di pensiero”, thoughtlessness.
Ma il pensiero di cui si denuncia l’assenza non è né quello logico, del calcolo e del ragionamento strumentale – di cui Eichmann diede ampiamente ed indiscutibilmente prova – né quello argomentativo, colto o erudito. A mancare è la capacità di riflessione autonoma, critica e disinteressata sul senso delle cose, sul proprio e l’altrui esserci, sul valore e il senso della vita e del mondo. È la razionalità intesa come capacità di discernimento tra ciò che è giusto ed ingiusto, tra il bene ed il male, tra ciò che è umano e ciò che non lo è; è il pensiero inteso come la capacità di giudicare del valore delle cose e delle azioni.
Se – riflette Burgio – tutti, come voleva il Cartesio del Discorso sul metodo, sono in grado di saper ben giudicare e di distinguere il vero dal falso, in quanto tutti gli uomini posseggono la quantità necessaria e sufficiente di buon senso per tale scopo, allora ne consegue che chi si astiene dall’esercizio della ragione così intesa, dall’applicazione del buon senso, lo fa per scelta, per volontaria decisione di – potremmo dirlo con Max Horkheimer di Eclisse della ragione – identificarsi totalmente con una “razionalità soggettiva”, meramente calcolistica, utilitaristica ed avalutativa, allontanando da sé la “razionalità oggettiva”, critica e valutativa, che guida l’uomo nell’atto della comprensione e del giudizio.
È in questo modo – secondo Arendt – che l’uomo si predispone all’eterodirezione, all’adesione incondizionata alle regole e ai poteri vigenti, astenendosi dal valutare e dal pensare criticamente ed autonomamente. Ma si tratta comunque e sempre di una libera predisposizione alla sottomissione, di una volontaria decisione di abbandonare la propria volontà per identificarsi con quella altrui, fino al punto che tale condizione di “ottusità della mente”, di “assenza di pensiero”, di “annullamento delle capacità di discernimento e giudizio” diventa un vero e proprio abito mentale, una “seconda natura”, con la quale ci si identifica totalmente.
La “seconda natura” dell’”assenza di pensiero” produce una chiusura narcisistica dell’individuo su se stesso; una fissazione manichea sul proprio gruppo di appartenenza che esclude recisamente gli altri, i diversi; un’incapacità sostanziale di immedesimarsi negli altri e di nutrire compassione.
Si produce un effetto di “compartimentazione” della coscienza morale, che include solo il gruppo di “noi” ed esclude quello degli “altri”; un blocco di quel dialogo interiore che imporrebbe ad ogni individuo il confronto con la propria coscienza; infine lo scivolamento in una condizione di “minorità” morale, cioè di esternalizzazione e perdita della propria coscienza e della propria volontà.
Ora, se il ragionamento paradigmatico ed analogico di Hanna Arendt – come ritiene Burgio – è ancora pienamente valido e pertinente, si deve concludere che nella Germania tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento si sia verificato un vero e proprio “crollo morale”, una “pandemia di ottusità morale”, che, seppur con responsabilità differenti e a livelli di coinvolgimento molto diversi tra loro, ha travolto ed “infettato”, come Eichmann, tanti milioni di cittadini “normali” del Terzo Reich.
Per concludere questa lunga presentazione di un libro ricchissimo ed interessantissimo, pensiamo che – proprio per dare maggiore fondatezza all’idea della valenza paradigmatica della “normalità criminale” di Eichmann e per evitare che la spiegazione del passaggio da “uno” a “molti”, dalla minoranza dei casi esemplari dei grandi criminali alla maggioranza degli “uomini della strada” si trasformi, paradossalmente, in una nuova forma di meccanicismo di tipo analogico (come i pochi… così i molti) – sia opportuno, come d’altra parte anche Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa riteniamo sostengano, fare interagire ed integrare maggiormente i due piani dell’autonomia (cioè della scelta soggettiva, libera e responsabile) e dell’eteronomia (cioè del condizionamento, del contesto, dell’intervento esogeno), della libertà soggettiva e della costrizione oggettiva, dell’individuo e della struttura.