di Alexik
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Fine di luglio, un caldo soffocante.
Nei capannoni della Ducati di Borgo Panigale, occupati notte e giorno dalle operaie, mancava l’aria. Ma bisognava tener duro: c’erano 960 posti di lavoro da difendere in quell’estate del ’53.
E non era solo per il salario: quella fabbrica era la loro.
L’avevano riconquistata nel ’44, il giorno dello sciopero generale sotto l’occupazione nazista, e poi ricostruita nel ’45, mattone su mattone, facendola risorgere dalle macerie dei bombordamenti. Non si sarebbero fatte buttare fuori facilmente.
Sapevano che si trattava di una rappresaglia contro la città: Bologna aveva votato male.
A Roma i democristiani erano furibondi. Avevano varato una riforma elettorale progettata per conseguire il potere assoluto. Ma la legge Scelba, rinominata ben presto ‘legge truffa’, che assegnava il 64% dei seggi a chi superava il 50% dei voti, non gli era servita a niente: alle elezioni politiche del giugno ’53 la coalizione a guida DC si era attestata al 49,2, perdendo il premio di maggioranza.
Di conseguenza, andavano puniti i territori che avevano votato contro, ed anche i lavoratori che dall’inizio dell’anno scioperavano in massa contro il ‘tentativo democristiano di spezzare la proporzionale’.
Il giorno dopo l’approvazione della legge, l’adesione allo sciopero dei lavoratori bolognesi era stata fortissima. In migliaia avevano manifestato nelle strade del centro, affrontando i caroselli della Celere e le cariche nel quadrilatero (Piazza Maggiore/Indipendenza/Ugo Bassi/Farini). Molti erano stati pestati, arrestati e sottoposti a fermo di polizia, disposti a farsi massacrare ‘per la democrazia e la Costituzione’.
Ignari del fatto che, circa 60 anni dopo, la formazione politica erede del PCI avrebbe sfornato una riforma elettorale decisamente peggiore. L’Italicum, attualmente in vigore, assegna infatti il premio di maggioranza a chi raggiunge il 40% dei voti. Scelba, a confronto, è un dilettante.
Ma non divaghiamo. Nel ’53 i primi a subire rappresaglie per lo sciopero contro la legge truffa furono i lavoratori che dipendevano, a vario titolo, dallo Stato.
A cominciare dai ferrovieri. ‘D’ordine Sig Ministro prego V.S. di impartire disposizioni a tutti i compartimenti F.S. di far pervenire nella maniera più sollecita gli elenchi nominativi del personale che ha partecipato alla manifestazione di protesta indetta dalla Confederazione Generale del Lavoro contro l’approvazione della Legge elettorale restando fermo che coloro che si saranno astenuti dal lavoro dovranno senz’altro essere sottoposti a provvedimento disciplinare data la natura politica della manifestazione’.
In seguito al telegramma del Ministero dei Trasporti dieci operai vennero licenziati all’Officina Materiale Mobile, per aver costituito ‘una vera e propria formazione fanatica e faziosa’ attuando ‘una eccezionale abusiva attività politica nell’impianto’, per essere ‘esponenti del Sindacato Ferrovieri Italiani, organizzatore dello sciopero’, professare ‘idee politiche-sindacali di estrema sinistra’, ecc., ecc.
Oltre ai licenziamenti, nel Compartimento FFSS di Bologna vennero comminati agli scioperanti 1.778 provvedimenti disciplinari.
A Bologna anche il destino della Ducati dipendeva dallo Stato, che nel dopoguerra aveva acquisito la proprietà dell’impresa tramite il FIM, il Fondo per il Finanziamento dell’Industria Meccanica, e ne controllava gli organi direttivi.
Con una tempistica sospetta il governo De Gasperi, all’indomani del responso elettorale del ‘53, tagliò, tramite il FIM, i fondi alla fabbrica più rossa di Bologna, la città che aveva votato male.
Un po’ come ha recentemente minacciato di fare il governo Renzi con il capoluogo piemontese che ha ‘sbagliato sindaco’. Ma non divaghiamo e torniamo nel ‘53.
A fine luglio arrivarono le 960 lettere di licenziamento e di sospensione dal lavoro. Seicentosessanta erano indirizzate alle donne, che rappresentavano in Ducati l’80% delle maestranze.
Un provvedimento che puzzava di rappresaglia di massa, tenendo conto che dei 2.912 dipendenti della fabbrica 2.218 avevano la tessera della Fiom, 1.550 erano gli iscritti al PCI e 625 lavoratrici facevano parte dell’UDI.
Provocazioni ce ne erano state anche prima. Già dopo la vittoria democristiana del ’48 il clima in fabbrica era cambiato, e i dirigenti sindacali e politici più in vista della Ducati erano finiti nei reparti confino.
“Fecero un reparto come il confino, eravamo in 25 – 30 che lavoravamo tutti noi … membri delle Commissioni interne, membri del Consiglio di Gestione, i più esposti politicamente, eravamo gli esiliati” (Giorgino Masetti, tornitore alla Ducati, delegato Fiom alla Commissione Interna).
C’erano stati licenziamenti per rappresaglia, come quello nel ’51 di Albertina Bitelli, una storica resistente di fabbrica, ed anche licenziamenti di massa, 118 per la smobilitazione dello stabilimento di Bazzano (in quell’occasione, la popolazione del paese bloccò per un giorno il trasferimento dei macchinari).
Ma mai un attacco così pesante. La natura pretestuosa dei 960 licenziamenti era palese: la Ducati era tutt’altro che un’azienda decotta.
Aveva rappresentato per anni l’eccellenza dell’industria italiana nei campi dell’elettrotecnica, dell’elettronica, dell’ottica e della meccanica di precisione. Il suo personale, a tutti i livelli, era stato selezionato fra i migliori dalle facoltà di ingegneria e dagli istituti tecnici e professionali, e perfezionato da una scuola interna.
Negli anni ‘30 la ricerca Ducati sulle onde radio era considerata all’avanguardia, e i suoi condensatori venivano esportati in tutto il mondo. Ne produceva 400.000 al giorno, e ne riforniva anche la Philips e la Siemens, clientele piuttosto esigenti.
I suoi reparti R&S avevano sviluppato in maniera pionieristica radio, walkie talkie, macchine calcolatrici, rasoi elettrici, sistemi di intercomunicazione a viva voce, apparecchi di precisione, microcamere fotografiche e proiettori cinematografici tecnologicamente avanzati.
Prodotti di vasta applicazione civile, anche se la guerra era stata la principale committente: prima quella d’Etiopia, e poi il secondo conflitto mondiale.
Ai fini bellici, la Ducati fabbricava telefoni da campo per l’esercito, rice trasmittenti per carri armati e pompe ad iniezione per i caccia. La sua divisione ottica forniva, su licenza della tedesca Zeiss, binocoli marini per la visione notturna migliori di quelli prodotti dalla casa madre, oltre a componenti per i periscopi dei sommergibili. Produzioni di morte, ma tecnicamente ineccepibili.
Solo nel 1944 erano sorti problemi di qualità del prodotto, con l’estendersi dei sabotaggi della produzione bellica da parte delle operaie (opera meritoria in cui si distinsero Albertina Bitelli e Anna Zucchini).
Ma dopo la ricostruzione del dopoguerra, il livello era tornato quello di sempre, e l’offerta produttiva si era ampliata con il ‘Cucciolo’, un micromotore da applicare alle biciclette (in pratica, il Solex con 30 anni di anticipo), che stava riscuotendo un notevole successo.
Ridimensionare una fabbrica del genere non poteva avere nessun senso da un punto di vista di politica industriale, che non fosse la rappresaglia.
Ed era uno sputo in faccia anche alla storia della Resistenza operaia della città.
L’eccellenza tecnica, ignorata nel ’53 dai governanti della Repubblica, era stata riconosciuta dieci anni prima dal comando tedesco, che all’indomani dell’8 settembre si era impossessato della fabbrica, circondandola con venti carri armati e disponendone il trasferimento in Germania.
In quell’occasione, dal cortile della Ducati era iniziato un febbrile via vai notturno di camion e carretti. Erano dirigenti, tecnici e operai che trasportavano clandestinamente prototipi di macchine, progetti, strumenti di precisione, materie prime, da occultare nei sotterranei del cinema Manzoni e in altri 70 nascondigli segreti. Rischiando la vita.
Tutte le maestranze si erano date da fare per rendere le operazioni di smontaggio lentissime e irrazionali, mentre i fratelli Ducati erano riusciti a dirottare i macchinari destinati in Germania verso mete intemedie, nei loro stabilimenti al nord.
L’evolversi della guerra fece definitivamente fallire il progetto.
I tedeschi, che occupavano militarmente la fabbrica, dovettero verificare il basso indice di gradimento che riscuotevano fra le operaie il 1° marzo del 1944. Queste le cronache della giornata:
“Alla vigilia del 1° marzo, scritte inneggianti allo sciopero erano state fatte sulle mura della fabbrica. La mattina, fin dal primo turno, ai portoni della fabbrica c’erano le SS e i fascisti. Nei reparti c’era grande animazione… L’orario di inizio dello sciopero era fissato per le 10, al segnale di prova giornaliera delle sirene di allarme. Gli ultimi minuti sembravanoi interminabili. Finalmente squillò il segnale delle 10. Mi precipitai nel corridoio centrale. Solo il reparto attrezzeria uscì subito. Ero stata incaricata di dare il segnale di inizio dello sciopero e lo feci di corsa. In pochi secondi più di 3.000 operai e impiegati del grande complesso si rovesciarono nel corridoio centrale” (Anna Zucchini, operaia Ducati).
“Il Ruestungskommando era già al corrente del movimento in preparazione e mandò ordinanze da affiggere nelle fabbriche Ducati, nel testo delle quali era prevista anche la pena di morte per i sabotatori, e l’assunzione della Direzione da parte del Col. Hollidt… (Durante lo sciopero) arrivarono quelli delle SS e prelevarono un certo numero di dimostranti che furono accompagnati nei locali vuoti della ex divisione tecnica. I compagni dei prelevati fecero una manifestazione e continuarono l’astensione dal lavoro. Il Col. Hollidt, seccato per la mancata obbedienza ai suoi appelli da me trasmessi in italiano, ordinò ad un gruppo di avieri germanici in sosta sul piazzale merci, di entrare con le armi e mi fece diffondere un ultimatum in questi termini: Se fra pochi minuti gli operai non riprendono il posto di lavoro i soldati germanici sono costretti a sparare” (Anna Mathà, dipendente Ducati, interprete).
“Due ore esatte durò la manifestazione, e a nulla valsero le ripetute minacce delle SS di ritirarci immediatamente nei reparti di produzione. Alla ripresa del lavoro, fui arrestata insieme ad altri sei o sette operai. Fummo interrogati a lungo, ma il giorno dopo fui rilasciata. Tre giorni più tardi la direzione della Ducati mi licenziò e allora cominciò per me un’altra fase nella Resistenza” (Anna Zucchini, operaia Ducati).
Nel luglio successivo, il capitano Steiling, capo degli ufficiali di sorveglianza alla Ducati, venne abbattuto da ignoti a colpi di arma da fuoco nel cortile della fabbrica.
La Ducati diede vari combattenti alla Resistenza. Oltre ad Anna Zucchini, staffetta della 7a GAP e poi responsabile del distaccamento ‘Tarzan’ di Anzola Emilia, erano operai della Ducati Raffaele Gandolfi, del Comando Militare della Resistenza in Emilia Romagna (CUMER), e Celestino Cassoli, organizzatore di scioperi e sabotaggi, e delle Squadre di Azione Partigiana della zona di Bazzano. Veniva dalla Ducati Giovanni Masi, nominato giovanissimo come responsabile del PCI della zona Saffi, il quartiere industriale più importante di Bologna. Agitatore di fabbrica anche prima dell’8 settembre, Giovanni Masi fu fra i fondatori del Comitato Sindacale Clandestino per la Provincia di Bologna, che coordinava le attività di resistenza e boicottaggio nei luoghi di lavoro. Arrestato più volte dai nazifascisti, resistette sempre alle torture. Subì la deportazione a Dachau, Buchenwald e Bad Gandersheim. Morì fucilato in Germania, senza riuscire a compiere 20 anni.
Il complesso della Ducati di Borgo Panigale venne completamente raso al suolo il 12 ottobre 1944. Maestranze e macchinari erano in salvo, dislocati prudentemente nelle sedi di Bazzano e Crespellano. Dei muri, però, ne rimase poco.
A Liberazione avvenuta, mentre i proprietari accusati di collaborazionismo erano rifugiati a Milano, “gli operai, gli impiegati e i tecnici si trasformarono in muratori per ricostruire la fabbrica, in poliziotti per andare alla ricerca delle macchine rubate e portate in tutta Italia, in dirigenti della produzione”. Le donne partecipavano allo sgombero delle macerie e rimettevano in funzione l’asilo aziendale, indispensabile alle lavoratrici madri.
A tutte loro, e a questa grande Storia tecnica e politica, fatta di intelligenza, capacità, fatica, sangue e coraggio, nel ’53, nella ‘Repubblica nata dalla Resistenza’, il governo De Gasperi volle sputare in faccia.
Alla notizia dei 960 licenziamenti, che riguardavano anche 18 lavoratrici in gravidanza o con figli minori di un anno (non licenziabili secondo la legge), la fabbrica venne subito occupata e resistette per una settimana, prima di essere sgomberata dalla Celere.
Quel giorno “sembrava che dovessero affrontare una guerriglia. Ci spinsero fuori come fossimo delle delinquenti, invece volevamo soltanto lavorare” (Albertina Bitelli e Amelia Benazzi, operaie Ducati).
“Quando occupammo la fabbrica stavamo dentro giorno e notte… E una volta arrivò la Celere e ci bastonò col tubo di gomma dura, che fa un male tremendo. I nostri prendevano i seggiolini e si difendevano così” (Maria, operaia Ducati).
Le lavoratrici non si scoraggiarono e iniziano una capillare opera di coinvolgimento della città, con volantinaggi in tutti i quartieri. Quelle, fra loro, distaccate nella colonia aziendale di Lizzano in Belvedere, anche se raggiunte dalle lettere di licenziamento continuarono ad accudire i figli delle compagne.
Le altre, sgomberate dalla fabbrica, rimasero in presidio lì davanti. “Stemmo davanti alla fabbrica di giorno e di notte, per sei mesi, prima col solleone e un caldo insopportabile, poi con pioggia e freddo. Resistemmo per la nostra volontà di rientrare, ma anche per la solidarietà illimitata dei cittadini, bottegai e commercianti, di Borgo Panigale.
Tutti ci facevano credito e una parte scendeva in lotta con noi.
Scaduta la mutua, il medico, dott. Masala, visitava e dava medicine gratuitamente ai lavoratori ammalati. La solidarietà si allargava, le cooperative e il Molino di Corticella ci portavano pasta e il necessario per fare il condimento.
Da questo partì l’iniziativa di una mensa. L’oste Bolelli (chiamato Ribello) e gli inquilini del suo condominio misero a nostra disposizione la loggia che divenne il nostro refettorio e contemporaneamente la nostra sala per riunioni. Due compagni facevano da mangiare con l’ombrello. Nonostante i disagi, per sei giorni alla settimana a mezzogiorno mangiavamo un piatto di minestra calda” (Albertina Bitelli e Amelia Benazzi, operaie Ducati).
Quelli delle altre fabbriche “ci mandavano della farina, ci mandavano della pasta, ci mandavano un po’ di salame, da poter riuscire a stare sempre lì.” (Ovidia Galloni, impiegata Ducati)
“E i contadini ci portavano il grano. La farina per aiutare le famiglie rimaste senza sostentamento. Quelli che avevano qualcuno in famiglia che ancora lavorava lasciavano la roba per chi non aveva niente” (Maria, operaia Ducati).
Si schierarono le amministrazioni comunale e provinciale a fianco delle operaie che intanto, in piazza, continuavano ad affrontare le cariche. “So che c’era la polizia che ci dava le bastonate per disperderci nelle manifestazioni. È stata una lotta molto grande … E poi io presi anche una bastonata, che mi toccò di andare dentro una latteria, dove mi bagnarono la testa. Davanti alla Questura” (Jole, operaia Ducati).
Dopo sei mesi di trattative a Roma al Ministero del Lavoro, la società Ducati dispose il reintegro di 50 operai/e, e la trasformazione degli altri licenziamenti in semplici sospensioni, coperte dalla Cassa Integrazione Guadagni.
Ai cassaintegrati offrì corsi di riqualificazione in vista di un graduale reinserimento in azienda, che non avvenne mai. Vennero tutti licenziati nel gennaio ’55, quando ormai erano fuori dalla fabbrica da un anno e mezzo, e la capacità di reagire si era persa. (Continua)
Riferimenti:
Luigi Arbizzani, La Costituzione negata nelle fabbriche. Industria e repressione antioperaia nel bolognese (1947-1957), Grafiche Galeati – Imola, 1991.
Eloisa Betti, Elisa Giovannetti, Senza giusta causa. Le donne licenziate per rappresaglia politico sindacale a Bologna negli anni ’50, Editrice socialmente, 2014.
Resistenza, Organo dell’ANPI provinciale di Bologna, n. 1, marzo 2014.
A.A.V.V., Comunisti, i militanti del PCI raccontano, Roma, Editori Riuniti.
Anna Zucchini, Linceo Graziosi, Gli anni difficili. Antifascismo, ricostruzione post bellica e sviluppo industriale nei ricordi di due operai metalmeccanici, Bologna, Ed. Fiom, a cura di Giovanni Mottura, 2001, p. 300.
Mauro Morbidelli, Senza giusta causa (documentario), 2005, 51 minuti.