di Gioacchino Toni
Horst Bredekamp, Nostalgia dell’antico e fascino della macchina. Il futuro della storia dell’arte, Il Saggiatore, Milano 2016, 160 pagine, € 23,00
Le tecnologie modificano il modo di guardare e per comprendere come ciò si traduca nella contemporaneità Horst Bredekamp propone di risalire alla frattura tra arte e tecnica, tra attività ludica ed utilità che si è manifestata con l’aprirsi dell’era moderna. Secondo lo studioso tedesco la cultura del computer parrebbe aver ripristinato la logica delle Kunstkammern – collezioni quanto mai eclettiche in cui compaiono opere d’arte, produzioni tecnologiche e manifestazioni del mondo biologico – nel coniugare lusus e utilitas. Il computer riafferma oggi l’idea di mostrare la potenza metamorfica della materia attraverso il gioco; l’immagine sui monitor nasce tanto dal processo del pensiero logico, quanto dall’associazione ludica. L’immagine digitale pare coniugare utilità, meraviglia e divertimento, ripristinando forme di visione e di pensiero proprie della Kunstkammer che non hanno mancato di influenzare diverse discipline: «ovunque si sia conservata consapevolezza del fatto che lo spirito, se vuole essere creativo, deve giocare, e che l’essenza, il nucleo di una tensione o di una persona, non lo si coglie nel centro o lungo la via rettilinea che a esso conduce, bensì nei liberi fenomeni concomitanti, lontani da ogni scopo primario» (p. 127).
Nostalgia dell’antico e fascino della macchina, saggio ristampato ad inizio 2016 da Il Saggiatore, pubblicato in lingua tedesca per la prima volta ad inizio anni ’90, tratta, dunque, della separazione tra arte e tecnica, tra attività ludica ed utilità, operata dalla modernità. Lo studioso tedesco – di cui ci siamo occupati a proposito del suo Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico [su Carmilla] – individua il “contromodello” a tale separazione proprio nella Kunstkammer, modello espositivo e, prima ancora, di collezionismo, diffusosi in Europa a partire dal Cinquecento e protrattosi fino al ‘700, quando la cultura utilitaristica dell’industrializzazione ne decreta la fine.
Il testo inizia col prendere in esame alcuni automi creati da Benvenuto Cellini, nel Cinquecento, e da Jacques de Vaucanson e Pierre Jaquet-Droz, nel Settecento, segnalando come per le società del tempo l’ammirazione per tali opere non offuschi la venerazione per la statuaria antica. «Per quanto diametralmente opposti, androidi e statue antiche avevano una comune cornice di riferimento – conferendo forma alla materia naturale – un’istanza di mediazione, grazie alla quale era possibile chiarire il rapporto tra uomo e natura esterna nell’ambito intermedio tra conformazione naturale e forma modellata dall’uomo» (p. 21).
Il concetto di naturalis historia introdotto da Plinio il Vecchio, basato sulla descrizione di una natura data per sempre, priva di evoluzione, resta sostanzialmente inalterato nella logica del Cristianesimo che vede nella natura, una volta creata del Padreterno, un qualcosa di dato ed immutabile, privo di storia. È soltanto con Kant, a metà ‘700, che la naturalis historia viene suddivisa in una sua componente descrittiva ed una storica ma, suggerisce Bredekamp, tutto ciò, per certi versi, è già presente nelle Kunstkammern «dove avevano svolto un ruolo decisivo sia le sculture antiche sia gli automi, promuovendo – nei due momenti cruciali dell’unità e del conflitto tra opera della natura e opera dell’uomo – una dinamizzazione della visione della natura che attraverso la pura e semplice apparenza perveniva, senza poter pilotare tale processo, a un approfondimento storico della storia naturale» (p. 23). Oltre alla scultura antica ed agli automi, tali raccolte espongono «un compendio dell’umana capacità di creare, in virtù del quale il pensiero storico si spinse a fondo nel cuore della storia naturale. Viene così formulata la tesi secondo cui la storicizzazione della natura esisteva già nell’orizzonte delle Kunstkammern nei secoli XVI-XVIII» (p. 23).
In età rinascimentale, agli albori dell’età moderna, nella statuaria antica viene stemperata la classica distinzione fra creazione naturale ed umana, tanto che nelle statue antiche si individua una sorta di compendio tra forza modellatrice della natura e dell’umano. Ulisse Aldrovandi giunse, nel corso del Cinquecento, nei suoi trattati di scienze naturali, ad elencare tanto le configurazioni ed i luoghi di ritrovamento degli oggetti, quanto il loro possibile utilizzo nel corso delle epoche, oltre al loro essere stati plasmati tanto dalla natura quanto dall’essere umano. In tal modo la storia di un oggetto naturale viene inserita all’interno di riferimenti umani. Nel saggio viene citato anche il testo cinquecentesco Teatro degli strumenti e delle macchine di Jacques Besson in cui un’interessante illustrazione mette in scena il recupero di una colonna antica attuato grazie ai moderni strumenti di lavoro, a riprova di come l’arte antica e la tecnica moderna si valorizzano reciprocamente. Un passaggio fondamentale principia dall’idea di imitare la vita attraverso la costruzioni di automi dotati di movimento, ciò offre la possibilità di derivare dall’antichità l’ultimo anello di quella catena che le collezioni di cui parla lo studioso tedesco che, pertanto, così delinea la sequenza: forma naturale – scultura antica – opera d’arte – macchina.
Nel ‘700, con l’avanzata del pensiero utilitaristico, la catena storica delle Kunstkammern che lega la natura alla macchina si frantuma e la componente ludica si trasferisce ad altri campi. Le stesse celebrazioni di Goethe, in occasione del su primo viaggio in Italia, dell’arte figurativa e della statuaria antica, assumono il valore di un congedo in quanto il tedesco ritiene che il tempo del bello risulti ormai giunto al termine in un’epoca in cui si mira all’utile. L’epoca dell’industria è l’epoca dell’utile e la meccanica ormai si stacca dalle tradizioni antiche e dall’arte dando luogo a collezioni rigidamente specialistiche in cui la catena si parcellizza e la forma naturale, la scultura antica, l’opera d’arte e la macchina rappresentano universi ormai separati.
Nel pensiero neoclassico di Winckelmann le statue antiche vengono indicate come esempio di opere liberate dal rapporto di corrispondenza con la meccanica; l’arte liberata da qualsiasi scopo diviene coronamento e meta di ogni attività umana. «La conseguenza più rilevante della concezione, propugnata da Winckelmann, di un’arte classico-repubblicana libera della tirannia utilitaristica, risiede tuttavia nel fatto che su di essa si è fondata la teoria del moderno museo d’arte. Proclamato contenitore dell’umanità liberata, il museo d’arte assume per intero, nel corso della Rivoluzione francese, il prestigio fino ad allora rivendicato dalla Kunstkammer quale istituzione enciclopedica. Dopo che la raccolta reale d’arte era stata espropriata, parti di essa furono trasferite nella Grande Galleria del Louvre, e all’iconoclastia del Terrore fu obiettato, a giustificazione, che per celebrare la Rivoluzione erano state liberate le opere d’arte tenute fino ad allora in schiavitù» (pp. 115-116).
Piranesi, in opposizione a Winckelmann, nella sua rivalutazione della Roma antica punta sulla tecnica dei romani al posto della democrazia greca. In Piranesi si assiste al trionfo dell’utilità, non al fine di escludere l’arte ma per tentare di riconciliare arte e tecnica, finalità e forma. Piranesi non manca di evidenziare il lato oscuro della sua utopia tecnica; gli strumenti da costruzione possono anche risolversi in strumenti di tortura. «L’invito di Winckelmann a imitare le sculture antiche e la fissazione di Piranesi per la tecnica antica sono equiparabili a due gemelli siamesi del progresso, indissolubilmente legati, nonostante la contrapposizione, e in costante riferimento l’uno con l’altro» (p. 120).
Bredekamp segnala una curiosa incisione di Georg Michael Weissenhahn – pubblicata come frontespizio della traduzione tedesca del saggio sulle macchine di William Bailey, The Advancement of Arts – in cui si richiama l’Antico quale meta arcadica dei macchinari moderni, mettendo in luce come «anche dopo la separazione di arte e tecnica […] i due ambiti percepiscono quella scissione non soltanto come guadagno di autonomia, ma anche come perdita: da parte dell’arte, in quanto rinuncia alla responsabilità e alla “vita”; da parte della tecnica, come abbandono della libertà e del gioco» (p. 120)
In chiusura di volume, Bredekamp palesa il suo disaccordo nei confronti delle argomentazioni di Michel Foucault contenute in Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane: «proprio i sistemi di raccolta e ordinamento della prima èra moderna, sui quali Foucault fonda l’analisi […] non dimostrano che, dissolvendosi il rapporto tra oggetti naturali e uomo e “fatto saltare” ogni significato umano e semantico inerente agli oggetti, sia subentrata quella relativizzazione dell’umano che ne lascia presagire la fine» (p. 128), secondo Bredekamp, al contrario, «essi provano che la configurazione visiva delle raccolte offriva una chiave iniziale alla storia dell’evoluzione prima ancora che gli oggetti fossero spogliati della loro carica di significato. Aderenza al significato e pensiero evoluzionistico non erano alternative, e pertanto anche la fine dell’antropologia moderna non si pone o, perlomeno, non si pone nella prospettiva storica di Foucault» (p. 128) In sostanza, secondo il tedesco, l’analisi di Foucault «vive della critica esercitata sulla lingua interpretativa nella quale ogni avvenimento e ogni cosa divengono finzione. La sua debolezza consiste nel fatto che essa intende l’esperienza visiva come gradino iniziale verso la formulazione linguistica e non come medium nel quale la lingua è inserita storicamente e antropologicamente» (p. 128 ). Dunque, nell’interpretare le collezioni come “libro delle strutture”, «Foucault legge l’elemento visivo a misura della grammatica. Le Kunstkammern, invece, inserendo gli oggetti della collezione nello scambio visivo, accentuarono la potenza metamorfica della materia, e proprio il fatto di frammischiare oggetti della natura con opere dell’arte e della tecnica dava espressione alla storicità dei materiali e non già al logocentrismo senza storia della nomenclatura linguistica» (p. 128).
Secondo lo studioso tedesco l’attuale società fortemente tecnologizzata si è indirizzata a sostituire il dominio della lingua con l’egemonia dell’immagine per certi versi riprendendo la logica della Kunstkammer che aveva optato sul pensiero nelle, ed attraverso le, immagini. Nell’attuale epoca le diverse discipline che scommettono «sull’analisi delle immagini originate in modo associativo – “caotico” o controllato – rischiano di rimanere quasi cieche nel momento in cui ignorano il materiale tradizionalmente accumulato dalla storia dell’arte». Dunque, mette in guardia lo studioso tedesco come il mondo delle immagini digitalizzate non possa essere compreso senza rifarsi alle conoscenze offerte dalla storia dell’arte che può affrontare la sfida anche grazie al fatto che «sono esistite le Kunstkammern» (p. 131)