di Mauro Baldrati
Sei pagine. E il richiamo in prima. È lo spazio che è stato riservato, in uno dei maggiori quotidiani nazionali, al “caso” dei terroristi fai-da-te, o, più fascinosamente, i “lupi solitari”, che uccidono in varie parti del mondo prima di essere uccisi o di farsi saltare in aria. E la televisione ci va giù ancora più dura: lunghi servizi, con dovizia di particolari, interviste a esperti, reportages, gli immancabili dibattiti. E immagini, soprattutto immagini: foto, filmati dei guerriglieri che sollevano gli ak 47 (“le teste di stracci” li chiama Alan Altieri in uno dei suoi romanzi apocalittici). E ritratti dei ragazzi (quasi sempre giovanissimi) che imbracciano un mitra, o un coltello, forse sognando di decapitare qualcuno perché, ci informano i soliti media, le liste d’attesa dell’Isis sono piene di aspiranti tagliatori di teste. Si riportano frasi a effetto dei video che gli stessi diffondono sui social, come quel ragazzo di 17 anni che voleva “scannare” tutti i tedeschi, o l’omicida-suicida di Monaco, 18 anni, in cerca, pare, di riscatto e di gloria.
L’episodio di Nizza ha particolarmente stimolato le menti febbricitanti dei giornalisti, dei ragazzi solitari che sognano la catarsi finale, in un bagno di sangue, e dei manager della multinazionale della morte.
Perché quella del terrore è un’impresa efficiente, un conglomerato che possiede tutti i moderni requisiti aziendali: ha dei finanziatori, degli sponsor, un’organizzazione che si decentra a seconda della necessità, dei reclutatori, dei corsi di formazione, una struttura finanziaria.
Se a qualcuno, sentendo parlare di “azienda” che produce terrore e morte, viene un sorriso amaro pensando a un macabro scherzo, invitiamo a considerare la seguente, semplice riflessione: la morte – l’omicidio – non è un semplice incidente ma è prevista nelle strategie aziendali. Spesso come effetto collaterale, ma anche come elemento strutturale della produzione. Gli AD e i direttori di molte imprese erano perfettamente a conoscenza, da decenni, degli effetti cancerogeni dell’amianto, eppure hanno continuato a sottoporre i lavoratori alle polveri, con premeditazione. Il risultato è davanti a tutti: ogni anno in Italia muoiono dalle 3 alle 4000 persone per l’amianto. Qualcuno, dopo lunghissimi processi, subisce una specie di condanna, che tuttavia non sconterà mai. Quanti attentati sono necessari per raggiungere questo dato? Ma non è finita. La delocalizzazione di molte imprese italiane, oltre a causare un grave danno al nostro/loro paese, creando disoccupazione, povertà e disperazione, genera sfruttamento nei paesi ospiti, e morti: sul lavoro, per la prevenzione inesistente, per le condizioni, le malattie. Tutti ricordiamo come a Dacca il crollo di un capannone ha causato la morte di 380 operai tessili. Poi ci sono i morti per incidenti sul lavoro, in Italia circa tre al giorno.
Ma il conglomerato della morte, come tutte le grandi aziende, ha un altro importante requisito: la pubblicità e il marketing. Sfruttando internet veicola filmati autoprodotti che rappresentano decapitazioni, torture, e omelie deliranti dei predicatori della strage. Tutte immagini che fanno il giro del mondo, suscitando orrore, ma anche voyeurismo macabro, nonché una preziosa esaltazione di menti disturbate, giovani sparsi per il pianeta che accumulano rabbia, frustrazione, odio, per la loro condizione di emarginati in un mondo che considerano ostile. Giovani che cercano di raggiungere i centri di addestramento, per combattere come “soldati” di una guerra senza fine, alcuni diventando kamikaze ansiosi di assassinare decine di persone prima di farsi saltare in aria o di essere abbattuti. Una “sindrome di imitazione” che si traduce in una sorta di riscatto finale preparato con cura, con l’ausilio di psicologi-predicatori che usano la religione per introdurre nelle loro menti un Pensiero Unico che prevede lo sterminio di tutti gli “impuri” .
Perché è forse questo l’aspetto più interessante dell’attività del conglomerato della morte: la natura e l’intensità del marketing. Non ha eguali in nessuna parte del mondo. Nessuna grande multinazionale può competere col suo marketing. Ha una straordinaria potenza dirompente, e una diffusione capillare che tutti gli altri operatori ammirano. E invidiano, perché ha una caratteristica unica: è completamente gratuito. I titolari delle aziende – di qualsiasi produzione si occupino – spendono milioni di euro o di dollari per pagine pubblicitarie, o spot di pochi secondi. Invece questi assassini specializzati hanno sei pagine di giornale e servizi di ore e ore sulle maggiori televisioni. Gratis. Sempre. Così dei giovani che si identificano coi loro coetanei ritratti con le armi in mano, sono pronti a diventare dei “lupi solitari” che possono aggredire qualcuno sull’autobus, in treno, al mercato, al grido di Allah Akbar! Oppure senza una caratterizzazione religiosa precisa, come il ragazzo che ha ucciso nove persone a Monaco. E i manager della strage sono pronti a farne “cosa loro”, capitalizzandone l’operato, anche se non li hanno mai sentiti nominare. Generano comunque senso di minaccia, ansia, terrore, che è la materia prima della produzione aziendale. Soprattutto è manovalanza gratuita, che deriva da un marketing gigantesco, persuasivo, altrettanto gratuito.
Sia chiaro, noi qui non sosteniamo che un attentato che causa decine o centinaia di vittime debba essere ignorato. Ma un conto è la notizia, l’analisi dei retroscena, forse delle cause, un altro è la sua continua, ossessiva spettacolarizzazione, indugiando su dettagli che si giustificano solo con la propagazione di un gossip mortifero che ha l’unico fine di stimolare le menti già scosse dei lettori/spettatori. Per non parlare della generalizzazione sbrigativa, con lo scopo di far rientrare il tutto in un plot sperimentato, per cui l’assassino di Monaco, nel frenetico “real” delle cronache televisive, era un “arabo”, invece l’eredità iraniana non è araba, ma scita (mentre come tutti sanno la matrice del terrore è wahhabita sunnita).
Insomma, è nata una formidabile alleanza tra due conglomerati, quello della morte e quello dei media, che porta enormi profitti a entrambi.