di Sandro Moiso
Lucia Berlin, La donna che scriveva racconti, Bollati Boringhieri 2016, pp. 460, € 18,50
Immaginate una scossa di terremoto, seguita da uno sciame sismico. Di intensità sempre più forte.
Questo è l’effetto che provoca sul lettore il progressivo addentrarsi nelle storie di Lucia Berlin. Poiché questi racconti ruotano implacabilmente intorno alla vita dell’autrice americana, l’altro paragone che si può fare è quello di un’operazione a cuore aperto. Drammatica e chirurgicamente impeccabile allo stesso tempo.
L’opera narrativa di Lucia Berlin, nata in Alaska nel 1936 e morta nel 2004 in California, rappresenterà per molti un’incredibile sorpresa, in cui il costante elemento autobiografico si sviluppa in un dramma personale e collettivo in cui il lavoro (quasi sempre umile e mal pagato), l’alcolismo e la dipendenza, la condizione femminile, i sentieri tortuosi e complessi dei legami affettivi e famigliari, l’emarginazione degli immigrati, il ricordo di un’infanzia segnata dalle violenze verbali e fisiche ma anche da momenti di incredibile ilarità danno vita ad uno degli affreschi più vivaci della vita negli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale alla fine del XX secolo.
Paragonabile, per molti versi, ad autori ed autrici come Raymond Carver, Flannery O’Connor, Charles Bukowski, Annie Proulx, cui si aggiungono gli echi di Mary McCarthy, Joan Didion e Susan Minot, l’autrice statunitense ha saputo ricavarsi uno spazio e definire uno stile unici e personali sulla scena letteraria nordamericana, in cui il disincanto e l’ironia dello sguardo sembrano stemperare i drammi dell’esistenza, salvo poi cogliere il lettore di sorpresa con autentici pugni nello stomaco. Spietati e incontrollabili come l’alcolismo e tutte le altre dipendenze.
Si potrebbe parlare, per molti dei suoi racconti, di una “disincantata pietà” che si manifesta in alcuni luoghi cardine della vita quotidiana di un universo femminile quasi sempre proletario o sotto proletario: la famiglia, le lavanderie automatiche, il pronto soccorso in cui si lavora o presso il quale si accompagnano i figli o le vittime di incidenti più o meno gravi. Dove “la paura, la povertà, l’alcolismo, la solitudine sono malattie mortali. Emergenze a tutti gli effetti.” (Taccuino del pronto soccorso, 1977, pag. 112)
Oppure sugli autobus su cui viaggiano le donne delle pulizie che lavorano per pochi dollari presso le famiglie di una “middle upper class” dalla vita allo stesso tempo agiata e miserabile.
“Amo le case, le cose che mi raccontano, e questo è uno dei motivi per cui non mi dispiace fare la donna delle pulizie. E’ proprio come leggere un libro.” (Lutto, pag. 272)
Forse è anche per questo motivo che l’edizione originale di questa antologia, che raccoglie quarantatre dei settantasette racconti pubblicati in vita dalla Berlin, si intitola “A Manual for Cleaning Women. Selected Stories”, un manuale per donne delle pulizie. Un titolo perfetto, preso proprio da uno dei racconti contenuti nell’antologia, in grado di riassumere pienamente il punto di vista e l’ironia dell’autrice, che l’editore italiano ha sostituito con uno forse più indirizzato ad un pubblico femminile. Sbagliando.
C’è il lavoro con tutte le sue contraddizioni e difficoltà in queste storie. E c’è il Messico come luogo di luce e di desolazione. E c’è il rancore per una famiglia di pazzi alcolisti texani (quella della madre), rovinata dalla Grande Depressione. E c’è una sorella più giovane malata terminale di cancro, odiata nell’infanzia poiché protetta dalla nonna materna e abbracciata, fisicamente e mentalmente, negli ultimi anni di vita. Ci sono i figli (quattro, frutto di differenti matrimoni) e i nipoti. E c’è il padre, un ingegnere minerario che si sposta con la famiglia attraverso tutti i possibili campi di estrazione dell’America del Sud e del Nord per il suo lavoro, con una moglie (la madre di Lucia) sempre più dedita all’alcol e alla cinica osservazione del mondo e delle figlie.
E allora la scrittura diventa davvero un modo di far pulizia (attenzione: non di rimettere ordine) in una vita al limite, in cui ogni istante si dilata in un’infinità di storie, di ricordi, di osservazioni che permettono all’autrice di tornare e ritornare ripetutamente sugli stessi temi e momenti per renderli sempre più chiari, puliti, lucidi. Fino a giungere a rivelazioni abbaglianti e, quasi sempre, dolorose.
Un metodo che richiede spesso a chi scrive di sdoppiarsi, per poter narrare in prima persona ma da due differenti punti di vista la stessa storia.
Una sorta di personalissima Recherche du temps perdu in cui, come nella migliore letteratura americana, i fatti e le azioni precedono le parole contribuendo a dar vita ad un’analisi dell’Io e della personalità che non ha nulla di astratto. “B.F. si reggeva alla parete e alla ringhiera, tossiva ed era senza fiato dopo tre i gradini. Era un uomo enorme, alto, grassissimo e molto vecchio. Mentre era ancora fuori a riprendere fiato, sentivo già il suo odore. Tabacco e lana sporca, sudore marcio da alcolizzato. Aveva occhi celesti e sorridenti iniettati di sangue. Mi è piaciuto subito […] Sentivo ancora la sua puzza. Quel fetore era una madeleine per me, mi ha riportato alla memoria il nonno e lo zio John, tanto per cominciare” (Io e B.F., pag.435)
“Io esagero molto, e confondo la finzione con la realtà, ma non dico mai bugie” afferma la Berlin in uno dei suoi racconti1 e già questo potrebbe costituire uno degli elementi della sua poetica disvelata . Ma tutti i suoi testi sono disseminati qua e là di elementi utili a comprenderne personalità, poetica e stile.
“Quanto a me…io non ho pietà.” (Mamma, pag. 358)
“Non me ne frega un tubo dei vostri sentimenti. Sono qui per insegnarvi a scrivere. In realtà si può mentire e allo stesso tempo dire la verità” (Qui è sabato, pag. 425)
“La mia natura è tenebrosa. Ho conosciuto la morte, la violenza. Il più delle volte non faccio nemmeno caso a quel momento del giorno in cui il sole entra nella stanza” (Panteón de dolores, pag.286)
“Non mi dispiace dire cose orribili se riesco a renderle divertenti” (Silenzio, pag. 370)
E di cose orribili ce ne sono tante da raccontare nella vita di Lucia: dalle cliniche clandestine per gli aborti in Messico (dove in realtà negli anni ’50 si recavano un sacco di donne americane di tutte le età)2 allo studio dentistico del nonno, in Texas, dove assistiamo ad una vicenda degna del migliore Landsdale.3
Ma ciò che salta sempre, immediatamente agli occhi è che, nonostante tutto, esiste sempre una fondamentale differenza tra la condizione dell’uomo e quella della donna e tra quella dello scrittore e quella della scrittrice. Anche nell’alcolismo.
Bukowski, per esempio, può narrare le sue disgraziate avventure alcoliche e le risse connesse e poi permettersi di piombare addormentato dove capita e con chi capita.
I personaggi femminili della Berlin anche quando sono affetti, come lo fu lei per anni, dall’alcolismo cronico, devono badare ai figli, alla famiglia o a ciò che ne resta.
“Finito di bere, si sentì meglio, andò in lavanderia e caricò una lavatrice. Poi in bagno, portandosi dietro la bottiglia. Si fece la doccia, si pettinò, indossò dei vestiti puliti. Ancora dieci minuti. Controllò che la porta fosse chiusa a chiave, si sedette sul water e scolò il resto della vodka. Quell’ultimo sorso non solo la fece sentire bene, ma anche un po’ brilla. Spostò i panni dalla lavatrice all’asciugatrice. Stava mescolando il succo d’arancia scongelato quando Joel entrò in cucina strofinandosi gli occhi. «Non ho calzini, e neanche camicie». «Ciao, tesoro. Mangia un po’ di cereali. Finisci la colazione, fai la doccia e i vestiti saranno asciutti». Gli versò un po’ di succo, un altro bicchiere per Nicholas, fermo in silenzio sulla soglia. «Come diavolo sei riuscita a procurarti da bere?» La scansò e si versò una scodella di cerali. Tredici anni. Era più alto di lei […] I suoi figli presero i libri e gli zaini, la salutarono con un bacio e uscirono di casa. Lei rimase ferma davanti alla finestra e li guardò andare verso la fermata. Aspettò finché non li vide salire sull’autobus, che poi ripartì alla volta di Telegraph Avenue. A quel punto uscì di casa, diretta al negozio di alcolici all’angolo. A quell’ora era aperto.” (Incontrollabile, pag. 180)
Specialista della sintesi, di cui “Il mio fantino” un racconto di soli cinque paragrafi costituisce un ottimo esempio, Lucia Berlin probabilmente non solo ha costituito uno dei segreti meglio custoditi della letteratura americana, ma anche un esempio di rimozione di una donna troppo forte nella sua determinazione a ripulire letteratura e realtà, soprattutto femminile, dagli orpelli tesi a mascherarle per riempirli di significati e contenuti che spesso non hanno. Soprattutto quando fingendosi realtà la letteratura finisce solo col mentire.
Rappresentante del “Dirty Realism” degli anni ’80, l’autrice sembra averlo voluto portare oltre i suoi stessi limiti toccando anche temi inerenti gli aspetti più scomodi della realtà americana quali le brutalità poliziesche e del sistema carcerario, gli abusi consumati in famiglia sul corpo delle bambine, la repressione degli esponenti della Sinistra e l’emarginazione degli immigrati messicani. Sempre, comunque, eliminando ogni traccia di sentimentalismo e di epica dalle sue narrazioni. Sia in quelle più intime che in quelle più corali.
Tanto che gli avvisi che compaiono nelle lavanderie automatiche che così spesso fanno da sfondo ai suoi racconti (come quello riportato nel titolo di questa recensione), potrebbero rappresentare l’estrema sintesi della sua poetica.
In questo senso i racconti della Berlin potrebbero costituire un autentico manuale di scrittura, soprattutto per tutti quegli scrittori che della prolissità e dell’eccesso di intrighi sembrano aver fatto oggi la loro bandiera, per imparare a tagliare il superfluo e concentrarsi su ciò che conta. Con onestà, coerenza, gusto e disincanto. E un tantino di umiltà, ma mica toppa perché se no diventa un vezzo.
Ora sarebbe bello veder tradotti in italiano anche gli altri racconti di Lucia Berlin, magari in un’altra antologia che riprenda però il titolo originale qui tralasciato…
Silenzio, pag. 375 ↩
“Il silenzio era tale che mi sorprese scoprire che nella mia stanza c’erano venti donne, tutte americane. Tre di loro erano ragazze, quasi bambine, accompagnate dalle rispettive madri. Le altre erano enfaticamente sole, sedute, leggevano riviste. Quattro donne avevano più di quarant’anni, forse più di cinquanta…gravidanze in meno pausa, immaginai, e infatti così era. Le altre sembravano avere poco meno o poco più di vent’anni. Tutte apparivano spaventate, imbarazzate, ma soprattutto sembravano vergognarsi. Come se avessero fatto qualcosa di terribile. Vergogna. Fra loro non sembrava esserci nessun legame di solidarietà; il mio ingresso venne a malapena notato. Una donna messicana incinta passava in terra uno straccio sporco e ci guardava con palese curiosità e disprezzo. Provai una rabbia irragionevole nei suoi confronti. Cosa racconti al tuo prete, stronza? Che non hai un marito e ti ritrovi con sette figli… Che devi lavorare in questo brutto posto perché altrimenti muori di fame? Oddio, probabilmente era vero. Provai stanchezza, un’immensa tristezza, per lei, per tutte noi in quella stanza” (Morsi di tigre, pag.93) ↩
Il Dottor H.A. Moynihan ↩